Creato da loredanafina1964 il 10/10/2011

loredanafina

scrivere scrivere scrivere!

 

 

dal libro: "Un altro giro di giostra" di Tiziano Terzani - Le pagine più interessanti.

Post n°212 pubblicato il 13 Giugno 2016 da loredanafina1964

 

9^  PUBBLICAZIONE

Pag. 48

A New York mi incuriosiva l'insistenza giornalistica con cui la morte di ognuno veniva attribuita a una causa specifica. Di nessuno si scriveva: " E' morto perchè è nato".

Pag. 49

Anche nei giorni di grande stanchezza - il decimo dopo il bombardamento era il peggiore - facevo di tutto per mantenere la routine che mi ero imposto come segno del mio non mollare. Ci sono ammalati che smettono di lavarsi i denti, di pettinarsi, come se niente più valesse la pena o come se quel corpo, causa di tutti i malanni, non potesse essere più amato e diventasse oggetto di disprezzo e di odio. Non volevo essere di quelli. Per cui: passeggiata a Central Park, mexx'ora immobile sotto un'albero, un po' di ginnastica, colazione, l'iniezione nella pancia. E poi una camminata più lunga possibile, anche di cinquanta strade: avanti e indietro a passo svelto, finchè ce la facevo. Quello, anche se a volte stentavo a riconoscerlo, era dopo tutto il solo corpo che avevo e tenerlo in esercizio era il meglio che potessi fare.

C'erano giorni in cui, rientrato a casa, ero così stanco che non riuscivo neppure ad accendere il computer per mandare ad Angela quel messaggio quotidiano che era uno dei miei legami più autentici col mondo. Il solo a cui veramente ancora tenevo. La decisione di passare questo periodo da solo, lontano dalla famiglia, senza nessuno accanto di cui avrei goduto, ma di cui avrei dovuto anche tener conto, era stata istintivamente saggia. Non avevo da preoccuparmi delle preoccupazioni altrui e potevo concentrare meglio tutte le mie energie, tutta la mia attenzione.

Come un vecchio veliero che, cercando di non andare a fondo in mezzo a una tempesta, butta a mare tutta la zavorra - le casse della polvere, i barili del rum e tutto quel che prima era sembrato indispensabile -, io riducevo all'essenziale i rapporti umani e tagliavo via tutti i legami inutili, quelli tenuti per abitudine, per opportunismo, o per semplice cortesia.

Il mio era diventato un mondo di silenzi, di ore vuote, di piccoli gesti, di rigiri inutili, di un'instabile pace mantenuta tenendo a bada ogni soffio dei tanti venti che si agitavano fuori da quelle belle finestre. Passavo ore a guardare il mutare di un grattacielo nell'Est Side: nero all'alba, come un birillo contro il cielo arancione e terso, grigio poi nella grande luminosità del giorno, splendido come un cero ardente la sera, quando appena dopo il tramonto, gli si accendevano i piani altri, come volesse diventare una torcia per risciarare le mie notti a volte insonni.

C'erano giorni che passavano senza che dicessi o sentissi una sola parola, e quasi non riuscivo a dare il "buongiorno" o la "buonasera" al portiere dominicano di turno quando uscivo per la mia passeggiata o per andare a fare la spesa.

Godevo di una testa che era sempre più vuota, di un cuore che era sempre meno conflittuale e di quel tempo che passava così velocemente come mai prima. Per giunta, senza darmi angosce di inutilità e sensi del dovere. Non avevo nulla da fare, nulla da sognare, nulla da sperare, tranne stare lì dov'ero: in silenzio.

Pag. 50

Adoravo questo non dover parlare, non dover andare a cena o a pranzo con qualcuno, non dover ricorrere alla parte che avevo fatto tutta la vita. Che gioia non dover recitare lo stesso repertorio! Quante chiacchiere ho fatto! Quanta gente, tornando da un viaggio, ho intrattenuto a cena con storie e impressioni che andavano via come le bottiglie di vino!

Ce l'avevo con l'essere stato giornalista, con quella continua necessità di farsi accettare da un ministro o da un presidente per avere un'intervista, da un ambasciatore per ottenere un visto per il suo inospitale paese. Mi pareva che la professione mi avesse deformato: sempre quel mettere il piede nella porta, ingraziarsi, essere ricordato, accettato, quel raccogliere informazioni, aneddoti o semplicemente una citazione con cui impinzare un articolo! Era finalmente finita. Quel Tiziano Terzani (quel me lì) non c'era più, finalmente bruciavo via dal bel liquido rosso fosforescente della chemio. Non dovevo più fare telefonate, non dovevo più andare a una qualche "colazione di lavoro"! Che assurda abitudine, questa nostra, di socializzare, conoscere gente,  lavorare.....mangiando! Perchè, se si ha bisogno di vedere qualcuno o di conoscere una nuova persona, lo si deve fare biascicando qualcosa? Perchè non facendo una passeggiata lungo un fiume o andando assieme a giocare a bocce?

Pag. 51

Avevo cominciato Un indovino mi disse scrivendo: "Una buona occasione nella vita si presenta sempre. Il problema è saperla riconoscere". Nel 1993 l'avevo riconosciuta nella profezia che mi voleva morto in un incidente aereo se avessi volato - e non volai. Mi pareva che il cancro fosse un'altra buona occasione.

Avevo spesso scherzato dicendo che il mio sogno era quello di chiudere la mia bottega giornalistica, tirare giù il bandone e metterci il cartello "Sono fuori a pranzo". C'ero finalmente riuscito. Ero ormai definitivamente "fuori a pranzo". Quel cancro era come se me lo fossi andato a cercare.

Presto diventai fisicamente come Marlon Brando in Apocalisse Now e proprio come lui mi sentivo "una lumaca che scivola lungo un filo del rasoio". Ero obbiettivamente orripilante, ma mi costrinsi a dirmi che non ero poi così male, che ero in forma, e questo, ne sono certo, mi fece bene davvero. Entravo in ospedale tenendomi il più diritto possibile e sorridendo. A chiunque mi chiedesse come stavo rispondevo: "Meravigliosamente"., e il sorriso divertito di chi non era costretto a compiangermi e poteva risparmiarsi le solite  banalità vagamente consolatorie contribuiva a farmi star meglio. D'altro canto che alternative avevo, a parte quella di fare o non fare la vittima? Per istinto preferivo non farla.

Visto che mi capitava, tanto  tanto valeva che facessi buon uso di quell'esperienza. Per ricordarmelo m'ero attaccato sul tavolo, dove ogni giorno cercavo di tenere il mio diario, i versi di un monaco zen coreano del secolo scorso:

Non chiedere di avere una salute perfetta

Sarebbe avidità

Fai della sofferenza la tua medicina

E non aspettarti una strada senza ostacoli

Senza quel fuoco la tua luce si spegnerebbe

Usa la tempesta per liberarti.

 

Cominciai a prendere quel malanno come un ostacolo messomi sul cammino perchè imparassi a saltare. La questione era se ero capace di saltare in su, verso l'alto, o solo di lato o, peggio ancora in giù. Forse c'era un messaggio segreto in questa malattia: m'era venuta perchè capissi qualcosa! Arrivai a pensare che quel cancro, inconsciamente, l'avevo voluto io. Da anni avevo cercato di uscire dalla routine, di rallentare il ritmo delle mie giornate, di scoprire un altro modo di guardare le cose: di fare un'altra vita. Ora tutto quadrava. Anche fisicamente ero diventato un'altro.

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 


 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

dal libro: UN ALTRO GIRO DI GIOSTRA di Tiziano Terzani - Ed Longanesi Milano

Post n°211 pubblicato il 31 Maggio 2016 da loredanafina1964

OTTAVA PUBBLICAZIONE 

Pag. 44

Il secondo giorno fu impiegato a ripetere gli esercizi del primo e ad assistere ad alcuni "miracoli" del Maestro che l'imbonitore italiano mi aveva preannunciato. Il Maestro mettera una persona seduta su una seggiola e le misurava la pressione. Poi si metteva dietro, faceva i suoi esercizi, le trasferiva la sua energia e le rimisurava la pressione per far vedere che era calata.

Io non riuscivo a togliere gli occhi di dosso alla piccola donna magra e pallida nell'angolo della stanza poco lontano da me che, come in trance, seguiva ogni gesto del Maestro nelle cui mani aveva risposto la sua vita. Era la sua vita e aveva il diritto di scegliere come viverla o terminarla, ma era libera? Non avesse avuto quella possibilità, quella "alternativa" sarebbe certo andata da un chirurgo, avrebbe fatto la chemioterapia e forsa ora sarebbe di nuovo a correre in un parco.

Colpa del qi gong? Ovviamente no. Il qi gong era saggio, c'era qualcosa di sano, di vero, di antico in quel prendere in mano il proprio respiro, nel fare "l'esercizio della palla", nell'immaginarsi con la testa fra le nuvole, e forse in quel cercare di aiutare qualcuno trasmettendogli le proprie energie o semplicemente calmandolo. Quel che era insopportabile - almeno per me - era il suo essere fuori luogo, quell'essere trapiantato dal mondo di un altro, quell'essere isolato dal suo contesto, quell'essere diventato una merce da supermercato con tanto di pamphlet pubblicitario e l'elenco di tutte le malattie, "acute e croniche", che Master Hu col suo qi gong prometteva di trattare con successo. 

A Pechino, nel parco della Terrazza del Cielo, quei gesti fatti, al levar del sole da vecchi cinesi con le loro ciabatte di stoffa, al canto dei loro usignoli nelle belle gabbie appese ai salici piangenti, avevano un senso; in un loft di New York, nessuno. Lì, Master Hu stesso, mi pareva a disagio.

Tutte le antiche civiltà hanno studiato il potere del respiro e hanno intravisto il rapporto tra il respiro e la mente, e forse l'anima. Alcune, come quella indiana, hanno pensato che è possibile, usando il respiro, prendere consapevolezza di quella forza che sostiene l'intero universo e di cui il respiro è l'espressione più grossolana. Gli yogi, avendo notato che certi animali capaci di respirare lentamente, come l'elefante e il serpente, vivono molto più a lungo di quelli , come il cane o la scimmia, che invece respirano velocemente, hanno speso anni a escogitare specialissimi esercizi intesi a rallentare il ritmo della propria respirazione, prolungando così - si dice - la propria vita fino a centocinquanta, duecento anni. 

L'altra idea, anche questa molto indiana, è che il tempo assegnatoci dal destino non si misura in anni, giorni e ore - dopo tutto queste sono nostre invenzioni - ma in respiri. In altre parole, non nasceremmo coi giorni, ma coi respiri contati. E siccome un uomo respira normalmente 21.000 volte al giorno, 63.000 volte al mese e circa sette milioni e mezzo di volte all'anno, rallentare questo ritmo significherebbe allungarsi la vita. Basterebbe impratichirsi! 

Pag. 47

A volte, alzandomi, la mattina sentivo in agguato l'ombra della depressione: Ma era solo una sfumatura scura che presto passava, non quell'orribile buco nero nel quale mi pareva di cadere ogni giorno in Giappone, mai quel peso del mondo sulle spalle, quella ossessione di inutilità. Ora era piuttosto un senso di distanza che mi rendeva il mondo irrilevante, non più tanto interessante da volerci vivere dento. Così, anche il cancro non era affatto un dramma. Un giorno, in un film alla televisione sentii una frase su cui in altri tempi non mi sarei soffermato: "So che morirò, ma non so quando, e questo mi uccide". La notai e mi venne da sorridere. "Morire? Non mi preoccupa. Vorrei solo non esserci quando avviene". 

Un altro aspetto interessante in quel mio nuovo stato era il diverso rapporto che avevo col tempo. Affascinato, come sono sempre stato, dalla ricca certezza del passato, e confuso dall'incertezza del futuro con le sue troppe possibilità, avevo preso il presente colo come materiale di cui godere una volta che fosse diventato passato. E così il presente m'era spesso sfuggito. Adesso non più. Godevo del presente, ora per ora, giorno dopo giorno, senza troppe aspettative, senza piani.

Se ero stanco, dormivo, leggevo, guardavo semplicemente fuori dalla finestra. Godevo quella mia esistenza miniaturizzata, come se tutto quel che succedeva fuori da quelle quattro mura non avesse sapore, odore, come se tutto il resto non avesse alcuna importanza. Leggevo il New York Times che ogni mattina veniva infilato sotto la mia porta con lo stesso distacco con cui l'avrebbe letto una formica o un'ape. Il mondo di cui parlava mi era lontanissimo.

In ogni paese avevo avuto un mio modo di leggere i giornali. In Cina cominciavo con l'editoriale, perchè avevo imparato che lì erano le novità. In Giappone, dove mi ero messo a giocare in Borsa, leggevo innanzi tutto le pagine economiche. A New york mi scoprii a guardare con curiosità le pagine che non esistono più nei giornali europei: quelle dei necrologi, gli articoli con cui la comunità ogni giorno fa il bilancio delle persone, note nel bene o nel male, che hanno lasciato questo mondo. Mi incouriosiva l'insistenza giornalistica con cui la morte di ognuno veniva attribuita a una causa specifica. Di nessuno si scriveva: "E' moro perchè è nato".

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

dal libro: UN ALTRO GIRO DI GIOSTRA di Tiziano Terzani - Ed Longanesi Milano

Post n°210 pubblicato il 24 Maggio 2016 da loredanafina1964

 

S E T T I M A     P U B B L I C A Z I O N E 

 

PAG. 40 

 

Se il corpo è in gran parte quel che ci si mette dentro, il cibo era la cosa principale di cui mi ero dovuto occupare ma l'altra era certo l'aria. Senza mangiare, il corpo può andare avanti per giorni - e gli fa anche bene ogni tanto - , ma senza immetterci aria non dura più di un paio di minuti. Siccome non potevo scegliere la qualità dell'aria che respiravo, potevo almeno imparare come respirarla meglio.

L'idea mi venne da un annuncio pubblicitario che lessi nel giornale: un "maestro"  cinese, durante il fine settimana, avrebbe tenuto un seminario di qi gong (letteralmente "lavoro dell'aria"). Potevano partecipare "persone di tutte le età e in qualsiasi condizione fisica". Mi ci iscrissi, pagai, e alle nove di un sabato mattina mi ritrovai in uno stanzone dal pavimento di legno e le colonne di ferro in uno dei grandi edifici ex industriali in quello che è oggi uno dei quartieri più simpatici e alla moda di New York: la Bowery. Vecchie fabbriche tessili e magazzini dalle belle facciate del primo Novecento sono ora diventati grandi negozi di moda, soprattutto per giovani, gallerie d'arte, centri di cultura "alternativa" e palcoscenico delle più varie attività e affari legati alla new age.

Il seminario di Master Hu era un ottimo esempio di questo nuovo  tipo di consumismo. Al posto di centinaia di ragazze neoimmaginarie messe davanti ad altrettante macchine per cucire, che un tempo in quelle "fabbriche del sudore" avevano fatto la fortuna dell'industria americana delle confezioni, c'erano ora una cinquantina di donne giovani e di mezza età - io e un altro tipo eravamo l'eccezione - intente ad ascoltare Master Hu che in un elementarissimo inglese, spesso con interventi integrativi di un suo assistente-imbonitore, spiegava "uno dei più antichi segreti della Cina". Dall'accento capii subito che l'imbonitore era italiano; la ragazza coreana alla cassa era la sua compagna. Il qi-gong, allo stesso modo del pranayama praticato in India, è l'arte di controllare il proprio respiro e di indirizzare la forza vitale nelle varie parti del corpo, al di là, ovviamente, dei polmoni. Essendo vissuto per tanti anni in mezzo ai cinesi, avevo visto nei giardini pubblici, all'alba, molta gente, specie anziana, fare quei lenti, concentratissimi movimenti e avevo sentito dire delle loro grandi qualità terapeutiche.  A Pechino, un'amica di Angela, dopo essere stata operata di cancro, era stata mandata dalla sua unità di lavoro a un corso di qi-gong e raccontava di averne tratto un gran beneficio. 

Quando venni arrestato e poi espulso dalla Cina avevo appena incominciato a prendere lezioni di questa antica ginnastica del corpo e dello spirito. Mi sarebbe stato utile aver finito quel corso a Pechino tenuto da un vecchio operaio che aveva praticato quell'arte tutta la vita. Invece mi ritrovavo nel mezzo di New York a sentire le banalità di Master Hu che diceva: "il qi-gong che vi insegno, se praticato correttamente, cambia il vostro carattere, vi rende più amabili e, nel caso delle donne, rende loro molto più facile trovare marito". Povero Master Hu: era arrivato in America da poco e non si era ancora reso conto che lì quel ragionamento non funzionava, anzi era "politicamente scorretto".

Trascorsi la giornata imparando vari esercizi: i primi per rendersi conto che si respira perchè si allarga il petto e non viceversa, altri per imparare a respirare non solo aprendo la cassa toracica, ma anche la pancia e il basso ventre. Un esercizio particolare fu quello di stare con le ginocchia leggermente piegate, i piedi separati, così da essere in linea con le spalle, e di tenere un'immaginaria palla di energia fra le mani immobili, sospese all'altezza dell'ombelico. Dopo una decina di minuti bisognava immaginare che la palla girasse prima in un senso, poi nell'altro. "Ora provate a separare le mani e vedrete quanto è difficile. Per alcuni di voi sarà impossibile", disse Master Hu. Alcune donne, entusiaste, riconobbero che era davvero così. Le loro mani si erano immobilizzate in un "campo magnetico". Non le mie.

PAG. 41

Un ultimo esercizio fu quello di chiudere gli occhi e, tenendo sempre le ginocchia leggermente piegate, immaginare d'essere coi piedi per terra e con la testa altissima per aria. Questo mi piacque perchè quello era il mio ideale di uomo realizzato: radicato nelle cose, ma sognatore.

Alla fine della prima giornata mi presentai al Maestro, gli chiesi di raccontarmi la sua storia e presto mi ritrovai a far parte del suo seguito, assieme all'italiano-imbonitore e alla ragazza coreana, in un ristorante vegetariano. Per strada l'imbonitore mi raccontò di essere venuto negli Stati Uniti subito dopo il servizio militare, a cercare lavoro come orafo. non c'era riuscito, ma aveva scoperto, come mi disse lui stesso, che "fare il guaritore era più interessante". Certo era anche più facile e redditizio. Aveva frequentato vari corsi di arti marziali, dal kung-fu al judo, dall'aikido al tai ji quan; poi aveva incontrato Master Hu e i due si erano appaiati, usando bene l'uno dall'altro. La ragazza coreana si era accodata. Era stata appena licenziata da un'azienda farmaceutica e ora aspirava anche lei a diventare guaritrice. 

L'imbonitore mi parlò molto dei "miracoli" del Maestro. Mi disse che era capace di muovere cose a distanza e di far volare fogli di carta e altro semplicemente con la sua energia. "Io ho appena imparato a curare l'emicranea, ma lui è capace di tutto", concluse. La cura del cancro era ovviamente una delle specialità vantate dal Maestro e l'imbonitore giurò di aver visto personalmente dimezzare, già dalla prima seduta, il volume di certi tumori sottoposti alla "energia" di Master Hu. Il Maestro era ugualmente convinto di poter aiutare Giovannino Agnelli, che proprio in quelle settimane era lì a New York, all'MSKCC, ma non sapevano come mettersi in contatto con lui. Mi guardai bene dal dire che anch'io ero un cliente di quella istituzione e che era un caso ben strano quello di ritrovarmi col giovane Agnelli, dopo il nostro bell'incontro-intervista in India e dopo tutta una serie di inspiegabili coincidenze, sotto lo stesso tetto, con un simile malanno, nelle mani degli stessi aggiustatori.

Il Maestro e il suo seguito erano ovviamente alla ricerca di un'occasione per diventare famosi; avevano bisogno di fare un "miracolo" e volevano "miracolare" qualcuno la cui notorietà potesse dar loro prestigio. Potevo avercela con loro? Tutto il mondo funziona ormai così: il mercato è tutto quel che conta, la sola moralità è quella del profitto e ognuno arranca come può per sopravvivere in questa giungla. Al momento pare impossibile cambiare alcunchè. Posso solo dire che non mi piace.

In fondo, la storia di Master Hu era bella e patetica. Nato nella provincia di Gansu, una delle più remote e povere della Cina, era cresciuto in un villaggio dove la famiglia da secoli era vissuta grazie a un suo "segreto": la cura contro le bruciature. Il segreto era semplice: prendevano le bucce dei meloni e le mettevano in otri di terracotta. Gli otri, sigillati, venivano messi tre metri sotto terra e lasciati li per mesi. Il liquido prodotto dalle bucce era miracoloso. Bastava passarlo sulla pelle bruciata e quella guariva. Mi immagino la strada di un vecchio, classico villaggio cinese: le case basse coi tetti di lavagna e i pavimenti di terra battuta, i contadini che passano, quelli con le bruciature che arrivano da lontano per farsi curare. Tutto aveva un senso, tutto era a misura d'uomo e aveva una sua magia. E ora, ecco la globalizzazione, il libero mercato, la libera circolazione delle idee e dei desideri che hanno spinto il giovane Hu a diventare "Master Hu" e a mettersi sulla piazza del mondo a vendere il bene più richiesto: la speranza. La speranza di guarire le bruciature? Ovviamente no. Per quelle ci sono ormai pomate in ogni farmacia. La speranza di guarire il cancro, contro cui non è ancora stato trovato niente di sicuro.

"Ha notato quella donna in fondo alla stanza, proprio vicino a lei?" mi chiese l'imbonitore. "Non vuole che lo si sappia, ma a lei posso dirlo: quella ha il cancro al seno. Ha deciso di non farsi operare, di non fare la chemioterapia e di affidarsi alle cure di Master Hu." Certo che l'avevo vista pallida, impaurita. All'ora del pranzo si era seduta per terra contro la parete, da sola. Dalla borsa aveva tirato fuori una ciotola con dentro una brodaglia verdastra, probabilmente frutto di qualche altra saggezza cinese o macrobiotica, e in silenzio, senza gioia, si era messa a sorseggiarla. Che mondo!

Il giovane imbonitore italiano avrebbe forse fatto bene l'orafo al suo paese, il giovane Hu avrebbe potuto continuare la tradizione di famiglia, la ragazza coreana sarebbe forse rimasta felicemente nella sua Corea; invece, spinti dall'orribile vento dei tempi, erano tutti finiti come naufraghi su una spiaggia lontana, momentaneamente uniti a cercare di sopravvivere vendendo fumo in un loft di New York e dando a una povera donna sola l'illusione che la loro ciarlataneria era meglio della chemio e di quello che la scienza occidentale, pur coi suoi limiti, poteva offrirle.

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.


 

 

 

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 


 
 
 

dal libro: UN ALTRO GIRO DI GIOSTRA di Tiziano Terzani - Ed Longanesi Milano

Post n°209 pubblicato il 15 Maggio 2016 da loredanafina1964

SESTA PUBBLICAZIONE

PAG. 36

Nonostante le mie aspirazioni ad essere qualcos'altro oltre al corpo, qualcos'altro magari di meno materiale, meno soggetto ai mutamenti e alla decomposizione, corpo era e corpo restavo. Tanto valeva allora che facessi più attenzione a ciò che manteneva in funzione quel corpo da cui tutto ora sembrava dipendere.

"Il 97 per cento di quel che siamo è quel che mangiamo", mi disse, a mò di introduzione, la giovane dietologa dell'MSKCC da cui ero stato mandato per farmi consigliare una dieta che mi aiutasse ad affrontare meglio la chemioterapia. "L'industrializzazione del cibo ha creato grandi disequilibri nel nostro corpo e sta seriamente minando la nostra salute. Per cui mangi il più naturale possibile".

Se volevo aiutare il mio corpo, dovevo bere molti infusi d'erbe, evitare il latte perchè troppo grasso e accontentarmi di quello di soia. Potevo mangiare yogurt magro e tanta frutta. Se insistevo ad essere vegetariano, come ero diventato per osmosi vivendo in India, che mangiassi allora tante noci, pinoli, mandorle e semi - ottimi quelli di zucca e quelli di girasole - purchè non fossero troppo salati.

"Faccia in modo che i suoi piatti siano coloratissimi, metta assieme verdure rosse, gialle verdi, nere. Mangi tanti broccoli, porri e aglio a volontà. Due o tre volte al giorno si faccia dei frullati e metta dentro di tutto: carote, mele, spinaci e tutti i frutti di bosco che trova, specie i mirtilli. Mi raccomando: delle arance e dei pompelmi mangi anche la parte bianca. 

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Tutto ciò che è fibra fa bene al suo caso e serve a regolare l'intestino", mi disse e io, come fossi stato ancora il me-giornalista, prendevo appunti.

Io, che nella vita non avevo mai fatto molta attenzione a quel che trangugiavo, che non mi ero mai preoccupato se il piatto dinanzi a me era salato o no se la roba era bollita o fritta, feci presto a diventare coscientissimo di tutto quel che mettevo in bocca. Divenni un assiduo visitatori dei negozi di prodotti biologici e un attento lettore di tutto ciò che era scritto sulle confezioni. Imparai a diffidare dalle etichette con vignette di laghi e montagne, intese solo a turlupinare l'acquirente, e a guardare invece quel che, per legge, i produttori dovevano dichiarare come componenti dei loro prodotti. Tutto ciò che aveva conservanti o additivi di odore, sapore o colore non lo toccavo. Improvvisamente ero ossessionato dal pericolo di mangiare cose inquinate. Buttai via tutte le pentole e le padelle di teflon che avevo trovato nell'appartamento, ricomprai tutto in ferro e misi una gran cura a cucinarmi ogni pasto nella maniera più semplice e naturale possibile. 

Ciò che mi faceva istintivamente più ribrezzo era il cibo fatto con elementi modificati geneticamente. Le grandi, malefiche aziende alimentari che si sono battute a capofitto su questo tipo di manipolazione della natura per trarne enormi profitti si son forse chieste quali possono essere le conseguenze, sul corpo umano e sull'ambiente, di questo loro giocare a fare la parte di Iddio? Nel frattempo la roba è in vendita, la gente la mangia e chi sa quali diavolerie provocherà. Un giorno ce ne renderemo conto e per tanti sarà tardi.

Se è vero che il corpo è in gran parte quel che mangia, forse anche il cancro, che era parte del mio corpo, era dovuto a quel che avevo mangiato. Il ragionamento non faceva una grinza e ripensavo con orrore agli anni di meravigliosi pasti cinesi che uscivano da cucine puzzolenti e lerce, alle zuppe mangiate per strada in Indocina, alle mille cose che uno per fame, per noia o per compagnia ingurgita nella vita. E le ciotole e i piatti malrigovernati da cui uno mangia? E quelli pulitissimi dei grandi alberghi, lavati e lucidati non con la sanissima cenere delle nostre nonnem ma con ogni sorta di detersivo dannoso alla salute?

In India ci sono gruppi di persone - i bramini più ortodossi ad esempio - che mangiano solo quello che loro stessi han cucinato, in recipienti che loro stessi hanno lavato; altri che considerano la scelta di un cuoco una questione spirituale e non uan questione pratica. Questi bramini pensano che chi prepara il cibo proietta in esso, anche inconsciamente, il suo influsso e se il cuoco è persona d'animo basso metterà nelle sue pietanze una carica negativa che irrimediabilmente passerà a chi le mangia. 

PAG. 38

Scientificamente tutto questo è assurdo, perchè nessuna scienza è in grado di verificare l'esistenza di quella carica negativa e neppure di misurarne l'intensità, ma non per questo certe persone ci credono di meno. Non per questo quella carica è inesistente. I medici si divertivano a sentire questi miei discorsi fra un esame e l'altro, ma nessuno si soffermava a riflettere sul fatto che forse anche in questo diverso modo di vedere il mondo c'è qualcosa di vero. Qualcosa che magari sfugge alla scienza. Dopo tutto, anche la loro - la nostra - vantatissima scienza lascia molto a desiderare: specie su temi come il cibo e la salute. 

Per anni tutte le ricerche scientifiche hanno sostenuto il grandissimo valore delle vitamine nella cura delle varie malattie. Ora però vengono resi noti i risultati di nuovi studi secondo cui le vitamine servono a poco o nulla. Per quasi vent'anni siamo stati convinti che il sale fosse pericoloso nella dieta dei malati di cuore. Ora si scopre che anche questo non è esattamente vero. Per anni i medici ci hanno detto che una dieta con un alto contenuto di fibre era un'ottima prevenzione del cancro al colon. Ora viene fuori che non è affatto così. Quasi ogni giorno usciva nella stampa americana un articolo che, citando studi fatti da questa o quella università, dimostrava come questa o quella verdura era più adatta di altre a combattere il cancro: una volta erano le cipolle, una volta i cavolini di Bruxelles, un'altra volta le carote, i pomodori o i germogli dei broccoli, ma quelli non più vecchi di ...tre giorni. Lo stesso si scopriva per la frutta (importantissime le prugne e i mirtilli) e le spezie (soprattutto la curcuma e il cumino). Viste nell'arco di qualche anno, tutte queste ricerche lasciano il tempo che trovano e finiscono per essere semplicemente ridicole come quella di cui lessi un giorno nel New York Times: chi è stressato è molto più soggetto al ....raffreddore di chi non è stressato.

E allora? Il fatto che la scienza non riesca - almeno per ora - a dimostrare il buono o il cattivo influsso che un cuoco può mettere nel cibo è un motivo sufficiente per escludere che quella influenza esiste? Perchè non pensare che all'origine del morbo della mucca pazza ci sia il fatto che per anni abbiamo costretto l'animale più vegetariano del creato, quello per eccellenza non-violento e per questo il più sacro agli occhi degli indiani, a nutrirsi quotidianamente d'un mangime fatto tra l'altro di carne e ossa di altri animali?

PAG. 39 

Scientificamente questo può sembrare un argomento poco valido, ma secondo me è il più convincente: il ruminare cadaveri ricliclati di altri esseri viventi assassinati ha fatto impazzire la mucca. Semplice. E non rischieremmo noi umani di impazzire se un giorno scoprissimo che il caffè del mattino ci è stato preparato con gli scheletri tostati dei nostri parenti, o che la bistecchina nel piatto è la coscia del figlio ammazzato del nostro vicino di casa? 

Come hanno fatto le vacche ad accorgersene? Be', anche questa è una domanda alla quale certo la scienzanon è - almeno per ora - in grado di rispondere, ma ciò non vuol dire che non sia giusto porsela. Abbiamo forse scientificamente capito perchè i cani sono così attaccati all'uomo o perchè i salmoni, dopo essere stati per anni in pieno oceano, sanno ritrovare la foce del fiume nel quale sono nati e sanno risalirlo per andare a depositarci le uova e morire? E come facevano le mamme coniglie, tenute in gabbie su una nave, a sapere che in un sottomarino in immersione i loro figli-conigli venivano ammazzati a intervalli mai uguali, nel corso di un esperimento condotto ancora ai tempi dell'Unione Sovietica, appunto per provare che la morte di ogni conigliolino provocava una reazione nella madre?

La più divertita di queste mie elucubrazioni a ruota libera era la mia dottoressa - aggiustatrice. Ma certo non si lasciava intrappolare. Nè io lo volevo; non volevo certo che lei ammettesse che anche la sua scienza era relativa e che la storia della scienza è tutta una sequela di verità che si dimostrano presto errori alla luce di nuovi fatti e nuove verità. No, no! La mia testa si divertiva semplicemente ad arzigogolare, ma dentro di me volevo fidarmi di quella scienza, perchè su quella avevo messo la mia posta; con quel numero contavo di vincere. 

"Mi dica, signor Terzani, ho sentito che lei ha dato dei nomignoli a tutti i suoi medici. Qual'è quello che ha dato a me?" mi chiese un giorno la mia dottoressa. Fortunatamente non dovetti mentire. Giocando sul suo cognome e cambiando una vocale l'avevo chiamata "Bringluck", Portafortuna.

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

dal libro: UN ALTRO GIRO DI GIOSTRA di Tiziano Terzani - Ed Longanesi Milano

Post n°208 pubblicato il 11 Maggio 2016 da loredanafina1964

 

QUINTA PUBBLICAZIONE

"Quel Tale nello specchio"  PAG. 27

LA SITUAZIONE era quella di un acquario. E io ero il pesce. Con gli occhi sgranati, respirando a bocca aperta, in silenzio, protetto da tutte le intemperie, rimpinzato di antibiotici, persino vaccinato contro un possibile raffreddore che i medici dicevano nel mio caso avrebbe potuto essere pericoloso, stavo da solo, al sicuro nella mia vasca ad osservare, a volte immobile per ore, il mondo che si agitava appenna fuori dalla mia parete di vetro: New York. 

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A New York è sempre tempo di svendite. L'ultima trovata per spingere la gente a consumare sempre di più e a comprare quel di cui non ha assolutamente bisogno è l'offerta di "Due al prezzo di uno". Su una delle strade che facevo, cercando ogni giorno di cambiare percorso fra casa e ospedale, avevo scoperto un grande magazzino dal nome che sembrava fatto apposta per i miei gusti: Duffy's cheap clothes for millionaires. Milionario non sono mai stato, ma mi sono sempre sentito tale. Quanto ai vestiti, ne ho sempre avuti da poco prezzo, perchè andare in un negozio elegante a comprare quelli costosi mi pareva non fosse una gran scoperta. Lì invece, fra gli scarti delle grandi ditte e le cose passate di moda, c'era un sacco da scoprire, e in pochi minuti, per pochi soldi, riuscii a mettere assieme tutti gli elementi per una mia nuova uniforme: due tute da ginnastica, una blu e una nera; scarpe da tennis, calzerotti, guanti e due bei berretti di lana, uno nero e uno viola, per coprirmi la palla da biliardo che presto sarebbe diventata la mia testa.

L'idea della chemioterapia è semplice: le cellule del cancro hanno una loro maligna caratteristica, quella di sdoppiarsi e di riprodursi. La chemioterapia è una mistura - un "Cocktail", si dice con un eufemismo - di fortissimi componenti chimici che, introdotti nel sistema sanguigno, vanno a giro per il corpo e distruggono tutte le cellule di quel tipo. Il problema è che le cellule del cancro non sono le sole ad avere quella caratteristica. Le cellule dei capelli, del palato, della lingua e di altre superfici mucose, come quelle all'interno dell'intestino, sono dello stesso tipo, per cui anche loro pur utili e sane, vengono aggredite allo stesso modo di quelle malate. "Insomma, è come bombardare col napalm una giungla e distruggere migliaia di alberi per cercare di uccidere una scimmia appollaiata su una palma", dicevo all'infermiera intenta a preparare con cura il primo cocktail con cui mi avrebbe bombardato.

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Avevo una scimmia, ma in verità avevo pensato ai vietcong e a come gli americani in Vietnam, durante la guerra, avevano defogliato intere foreste, distrutto enormi distese di vegetazione, semplicemente per impedire ai guerriglieri di nascondersi e alimentarsi. La logica era la stessa. In Vietnam l'avevo odiata, ma ora mi affidavo a quella stessa logica per cercare di salvarmi.

E già alle prime gocciole rosso fuoco che osservavo, una a una, scendere da un sacchetto trasparente ed entrarmi lentamente nelle vene attraverso un ago affilato nel dorso della mano sinistra, mi pareva che funzionasse.

L'effetto fu immediato e travolgente: la bocca mi si avvampò come investita da una zaffata di napalm e in ogni angolo del corpo, nella punta di ogni dito, sentii arrivare quella fiamma. Stavo seduto in una comoda poltrona che pareva quella di un'astronave , godevo di un vasetto di fiori, modesti ma veri, sul davanzale della finestra e ascoltavo la carissima, giovane infermiera che mi raccontava del suo sogno di andare a vivere in una casa al mare in California. Mi sentivo a mio agio, in buone mani; mi pareva un segno della sua efficacia - e restai male quando, finito quello, la ragazza attaccò all'alimentatore un nuovo sacchetto, l'ultimo componente del cocktail, con dentro una roba incolore come l'acqua che non riuscivo a immaginare potesse farmi alcunchè. Suggerii che tingessero quel liquido scialbo di un bel verde smeraldo o di viola per aggiungere una sua forza psicologica a quella chimica. L'infermiera rise. "E' un'idea!"

Era una attenta. Osservava i pazienti e aveva notato  come ognuno ha un suo modo di affrontare la chemioterapia.

C'è chi la fa meditando, chi si porta dietro un walkman per farla ascoltando la sua musica preferita; c'è chi invece si agita, ne soffre come di una tortura perchè psicologicamente non la vede come una possibile cura e sopratutto non ne accetta le conseguenze, gli effetti negativi - che - si sa - verranno. 

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Grosso modo, l'intero lavoro degli "aggiustatori" mi avrebbe preso sei o sette mesi. Con la dottoressa che coordinava tutta la "riparazione" avevo cercato di contrattare, di ridurre i tempi, di rimandare alcune fasi. "Non potrei aspettare un anno a fare l'operazione?" avevo chiesto. Ma quella, fissandomi negli occhi, non mi aveva lasciato scampo:

"Mister Terzani, you wait - you die".

Se aspettare significava davvero chiudere con questo mondo, non avevo scelta e così smisi anche di discutere. 

Per questo la chemio mi piaceva e mi ci attaccavo come a una corda che qualcuno mi aveva gettato per salvarmi dalla tigre che avevo sopra di me e dal baratro che avevo sotto. Per questo intendevo farla prendendo coscienza di ogni goccia, osservando ogni suo effetto, partecipando alla sua azione con tutta la mia concentrata attenzione. La chemioterapia era l'inizio di un possibile altro pezzo di esistenza, ...un altro giro di giostra. E mi piaceva che nel gergo dell'ospedale il giorno dell'iniezione fosse chiamato "Day One", e che a cominciare da quello si stabilissero le scadenze dei vari esami e dei vari altri trattamenti da fare. Anche per me quello era il "primo giorno"....della nuova era, della mia seconda vita.

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Ho sempre trovato convincente l'idea che con una forte volontà si possa essere liberi anche in una prigione. Uno degli esempi più belli è quello recente di Palden Gyatso, il monaco tibetano che è riuscito a sopravvivere a trentatrè anni di torture e di isolamento nelle galere cinesi, restando libero di spirito. Ma in che misura si riesce a essere liberi quando si è prigionieri del proprio corpo? E comunque, che cosìè questa benedetta libertà di cui oggi tutti parliamo così tanto? In Asia la risposta sta in una storia vecchia di secoli. 

Un uomo va dal suo re che ha grande fama di saggezza e gli chiede: "Sire, dimmi, esiste la libertà nella vita?"

"Certo", gli risponde quello. "Quante gambe hai?"

L'uomo si guarda, sorpreso della domanda. "Due mio Signore". 

"E tu sei capace di stare su una?"  "Certo."

"Prova allora. Decidi su quale."

L'uomo pensa un pòm poi tira su la sinistra, appoggiando tutto il proprio peso sulla gamba destra.

"Bene", dice il re. "E ora tira su anche quell'altra."

"Come? E' impossibile, mio Signore!"

"Vedi? Questa è la libertà. Sei libero, ma solo di prendere la prima decisione. Poi non più."

E io che scelta avevo? Fino a che punto io ero il mio corpo? Che rapporto c'era fra noi due? Ma eravamo davvero due? O la mia mente, con la quale io-io preferivo identificarmi, era semplicemente una delle tante funzioni di quel corpo, per cui assolutamente legata a lui? Il pormi queste domande, con la morte sempre più presente cone una reale possibilità, coi dolori, gli smarrimenti, le malinconie da affrontare, faceva un gran senso, anche se ovviamente non avevo le risposte.

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 



 
 
 

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Grazie per averlo condiviso ! NMRK :)
Inviato da: Laranichinyo
il 31/01/2015 alle 19:15
 
Ciao, bel post, complimenti. Ti auguro una dolce notte....
Inviato da: leggenda2009
il 23/01/2015 alle 23:28
 
:)
Inviato da: loredanafina1964
il 15/01/2014 alle 22:53
 
Il verso della lepre o il raglio dell'asino invece non...
Inviato da: dakota_07
il 13/01/2014 alle 22:58
 
grazie :) NMHRK
Inviato da: loredanafina1964
il 13/01/2014 alle 21:58
 
 

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