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Paul Cézanne


Il padre di Paul Cézanne, 1866
 

Manet



"Colazione sull'erba" 208 × 264 cm
Parigi, Musée d'Orsay

È conosciuto come il padre dell'Impressionismo, sebbene egli stesso non abbia mai voluto essere identificato col gruppo degli Impressionisti, né partecipò mai alle loro esposizioni. Questo perché, per tutta la vita, preferì avere un riconoscimento ufficiale davanti allo Stato mediante l'ammissione al  Sàlon e non "attraverso sotterfugi", come lui stesso affermò.
 

Eagles - Hotel California (live)


 
Creato da: acquerellimassimo il 14/05/2008
La magia degli acquerelli

 

 
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Il mio Iraq

Post n°22 pubblicato il 29 Ottobre 2008 da acquerellimassimo

Polvere di stelle.

Breve taccuino etnografico da Tallil, Iraq.

                                                                   A te che sei il mio Iraq

Di Anna La Rosa

          
Sotto una tenda pneumatica, in un lungo corridoio dove la luce entra a fatica, il cui spazio spoglio sembra riempito dal gelo di potenti condizionatori, alcune donne sono sedute fianco a fianco. Si guardano a lungo ed è molto più di uno sguardo il loro, è un venirsi incontro, è un toccarsi, un avvicinarsi lentamente e senza parole, un desiderio di raccontarsi.
Provengono da mondi culturali diversi, tre di loro sono coperte da lunghi e scuri abiti tradizionali, avvolte nell’ hijab, il velo islamico, siedono vicine su una brandina. Sono imparentate tra loro e hanno accompagnato la più giovane, una sposa di quindici anni, a fare degli accertamenti medici per una presunta gravidanza. Ci troviamo in Iraq, a Tallil, nell’ospedale campale di Camp Mittica.
Io sono tra quelle altre, e quegli altri, che restituiscono lo sguardo, il sorriso, l’attesa carica di voglia di sapere, di conoscere.
Usare il linguaggio delle parole è impossibile: l’arabo e l’italiano che si tentano, in un eccesso di desiderio di comunicare da parte di alcune colleghe, sembrano due musiche diverse che si rincorrono senza fondersi mai.
Io resto un pochino in disparte, all’inizio. Sono un’antropologa dentro la divisa di Infermiera Volontaria della Croce Rossa Italiana, e l’osservazione è un momento importante nell’interazione con il campo, nella dinamica dell’incontro. Resto, quindi, un osservatore esterno, a guardare due universi culturali che provano a comunicare. Il nostro balletto di sguardi è timido, goffo, a volte diffidente. Si studiano gli abiti, si racconta dell’età fantasticando su vite dure e faticose, ci si sofferma sulle mani e sull’henné.  Quante volte ho visto le donne algerine con le mani dipinte per l’henné!
Le tre donne irakene, sedute una affianco all’altra, sono fiere, non sembrano per nulla intimorite da tutto quello strano mondo che si muove intorno a loro, restituiscono uno sguardo profondo color petrolio che sembra incantare e sedurre i più.
Rompo questa geometria dell’incontro e mi siedo vicina ad una delle donne, sulla stessa brandina. Saluto come i musulmani algerini mi hanno insegnato e il saluto è già un riconoscimento.
Con l’aiuto di un interprete spezzo il silenzio, adesso lo sguardo si è fatto domanda – come ti chiami? Hai figli? Quanti? Sei sposata? – le donne italiane e le donne irachene si raccontano, sotto una tenda dell’ospedale campale di Tallil, attraverso codici esclusivamente femminili e facendo ruotare le proprie domande su un unico argomento: i figli.
Questo è uno dei momenti che descrivono il mio Iraq, quello che ho vissuto nei sessanta giorni di permanenza.
È uno dei tanti, che ancora devo metabolizzare, che ancora danzano sotto forma di emozioni così come danzava intorno a noi la sabbia del deserto.
Sala Operatoria. Ci sono intorno al tavolo operatorio alcune delle persone che considero care, che appartengono al mio mondo affettivo. Sono concentrati per trovare il modo migliore di medicare Gofran, una bimba di due anni con una grave e rara malformazione. Nino, il chirurgo pediatrico della Croce Rossa spiega, comanda, dirige e nelle sue parole, nel suo tono di voce avverto l’empatia, la pena per quella bambina. È la stessa che sentono le due crocerossine ferriste, due mamme, la stessa di tutti noi, lì intorno, che avremmo voluto inventare un farmaco per fare sparire il terrore, per poter suddividere il dolore. Gofran piange, urla disperata e tra i singhiozzi una parola colpisce tutti come una freccia: “mamma”. La piccolina allunga la manina verso la madre che le bisbiglia paroline dal sapore di fiaba della buonanotte, che le accarezza la testa. Quella parola, detta con voce infantile nello stesso modo in cui la pronuncerebbe un bimbo italiano, sgretola le distanze e le differenze.
Di Gofran non dimenticherò mai nemmeno il padre, che, a dispetto dello stereotipo condiviso dalla maggioranza per cui una figlia femmina abbia poco valore e rivesta poca importanza per i musulmani, ha sempre accompagnato la sua bambina, tormentandosi nelle attese. L’ultima immagine che conservo di Gofran è seduta in braccio a suo padre, immobile, quasi a volersi nascondere, scomparire, ben attenta a non incrociare il suo sguardo con il mio. Il padre, l’uomo che qualche giorno prima non riusciva a trattenere le lacrime, mentre Nino descriveva i rischi dell’operazione che attende Gofran in Italia, sussurra teneramente alla sua figlioletta. Ci salutiamo e mi restituisce un sorriso grande come il cielo irakeno.
Ho visto numerosi padri in quei giorni, uomini con il portamento di antichi soldati, tenere in braccio i loro bambini malati, accompagnarli ad ogni visita, affidandoli a noi con occhi colmi di speranza.
Il mio Iraq, dunque, è quello di un posto chiamato Camp Mittica, un luogo dove ha preso forma una cultura che ordina lo spazio e i rapporti umani tra gli individui che lo costruiscono, giorno dopo giorno, con la loro permanenza e che appartengono a differenti sottoculture chiamate Task Force. Ogni Task Force occupa un suo spazio ben preciso e segnalato da simboli distintivi, possiede un suo regolamento e codice interno e conduce una propria vita ben distinta da quella delle altre.
I miei ricordi, il mio frammento di Iraq, le mie esperienze sono tutte vincolate alla mia appartenenza ad una sottocultura molto specifica e atipica, rispetto alle altre. Il mio sguardo sul mondo circostante è avvenuto dalla “tribù” Role 2, ovvero, come accennato poco più sopra, l’Ospedale Militare Campale, formato da personale della Sanità Militare e dagli uomini e donne della Croce Rossa Italiana. I valori dominanti descrivono una zona indefinita e in bilico, sospesa tra la rigida disciplina militare e l’afflato etico proprio del codice deontologico di ogni medico.
L’arrivo in Teatro Operativo e il sentimento che rimane, quasi avesse forma concreta, mi fanno pensare alle parole di Marc Augé sulla percezione dei corridoi delle corrispondenze, descritti come “il momento, impalpabile e incerto, in cui i cittadini comuni perdono l’equilibrio da un sistema all’altro;  essi sono fuori sistema per il tempo di un percorso, ma divisi tra i ricordi caldi e le attese fresche, preoccupati talvolta da ciò che essi hanno appena lasciato o stanno per  trovare, pronti a cambiare linguaggio cambiando di luogo, pronti a ciò che li attende”[1].
Il tempo di un percorso, per gli abitanti di Camp Mittica, è la durata della Missione durante la quale si entra a far parte di un diverso sistema, che non è solo definito geograficamente, socialmente, culturalmente, non è solo sistema di relazioni e valori condivisi in un contesto imbevuto di precarietà e fragilità, ma è anche una particolare dimensione temporale. Qui, il tempo scorre con ritmi irreali, quasi ripiegato su se stesso. Ci perdiamo nella bellezza di piccole cose, semplici, come il meraviglioso cielo stellato, o la luce al mattino presto, o i frammenti di vita che ciascuno porta con sé e che si diluiscono, piano piano, nella Storia di tutti noi.
Era il Tempo, dunque, uno dei Signori, in mezzo a noi e in mezzo a tutta quella sabbia, come fossimo immersi in una grande clessidra, granelli noi stessi nel vento, che ora era una carezza, ora ti sbatacchiava facendoti quasi male. Ed era il tempo di rapporti umani vissuti con la violenza delle emozioni, il tempo delle crepe che diventavano fratture con l’insofferenza della stretta vita in comune e delle difficoltà di adattamento, ed il tempo dell’avvicinamento e della costruzione di un timido “noi”, in una appena costruita, e fragile, tribù.
L’Iraq che ho conosciuto io è fatto di esperienza di vita, dell’ intensità dei rapporti umani che un simile luogo e il farsi quotidiano dell’esistenza producono.
Si vive in tende di tela, ci si sveglia presto, la vita è scandita da orari che diventano riti e da affetti che diventano i propri compagni di viaggio, punti di riferimento importanti con i quali condividere i momenti ed un legame unico e speciale.
L’Iraq che ho vissuto conserva il ricordo del tempo di incredibili, preziosi istanti di poesia e di momenti in cui si percepisce la bellezza delle piccole cose, così importanti, così fondamentali come il respiro. Non è solo storia di piccole Gofran che ho tenuto in braccio fino a farle addormentare, o dei bimbi Mohammed affidati a noi per le cure o intravisti agli angoli di strade polverose a chiedere acqua. Il mio Iraq è anche quello dei momenti condivisi, quello delle chiacchiere intorno ad una cassa adibita a tavolino sotto un cielo nero e sfavillante di stelle. Quello dei mattini di tende addormentate accarezzate da un morbido sole e dei primi pensieri inzuppati in un caffè. Quello della condivisione di momenti difficili, di debolezza, di smarrimento in un luogo dove la precarietà e la fragilità spesso sfiorano i pensieri. Poco più fuori si spara e di notte il rumore degli elicotteri che volano bassi ghiacciano il sonno in una notte senza altri rumori, immobile e tesa.
Domani mattina sarà bello rivedere il sole e nell’aria calda del pomeriggio respireremo l’attesa, come se all’improvviso dovesse succedere qualcosa, come se tutto fosse sul punto di sparire.
La guerra è esorcizzata nei riti della quotidianità e della normalità che si ripetono e si rinnovano e, paradossalmente, alle volte non si ha più la percezione di dove si trovi Camp Mittica, come se si trattasse di un luogo altro, situato ovunque e in nessun luogo.
Noi del Role 2, che sfogliamo le nostre giornate nei confini geografici della nostra tribù, sempre pronti ad intervenire, siamo catapultati in guerra nelle lunghe attese al buio di notti insonni ed incerte, ed è come svegliarsi all’improvviso: fuori si spara, fuori ci sono i nostri ragazzi quelli che la mattina ci salutano con un gesto della mano scomparendo in una nuvoletta di polvere, fuori ci sono i bambini delle strade sabbiose che elemosinano acqua,  fuori ci sono le Gofran, i Mohammed, i Joseph e i loro sogni di bimbi.
Ed ecco perché ogni momento condiviso, ogni sorriso con cuore leggero di tutto e di nulla, ogni alba nella quale ci tuffiamo e ogni tramonto che ci incanta, è così prezioso, così intenso. Anche se la guerra sembra lontana, quasi riguardasse un altrove che non ci appartiene, ognuno di noi sa bene che tutto è costantemente sul punto di scomparire, all’improvviso. Così, l’Iraq che conosco è anche quello di quel particolare mondo affettivo fatto dalle persone care, è l’Iraq dei Maurizio, delle Rosilde, dei Prisco, dei Vittorio, dei Nino, delle Anabel che rendono ogni momento speciale, ogni istante di fragilità più lieve, che mi proteggono più del mio giubbotto anti proiettile, più di un qualsiasi elmetto.

Questo non luogo che viviamo si trova in una terra stravolta da una guerra infinita, avvolto di polvere che forse è quella delle macerie, lacerato dalle esplosioni, da illusioni infrante, da speranze svanite. È un non luogo in cui si materializza l’angoscia dell’uomo che si fa giudice dell’altro uomo, fagocitandone l’identità, distruggendone i valori, le credenze e il ricordo di quella che fu una antichissima civiltà. Quasi inconsapevolmente abbiamo respirato quella Mesopotamia nella quale è nato il tasawwuf, il misticismo islamico, in un lontanissimo nono secolo. La terra che è stata culla delle civiltà dei sumeri, degli accadi, dei babilonesi e dei siriani, civiltà  alle quali l’umanità deve la scrittura, il calcolo e le sue prime città. La terra della gloria di Nabucodonosor, della corte dello sceicco Harun al-Rashid, di cui si narra nelle Mille e una notte come “simbolo leggendario della raffinatezza culturale degli Abbasidi, la dinastia che regnò a Baghdad o a Samarra fino alla metà del Tredicesimo secolo”[2].
I figli di questa lunga e antica Storia, oggi, nel linguaggio di Camp Mittica, sono ridicolmente chiamati MaoMao, parola che distrugge una dignità e che rivela l’etnocentrismo epistemologico occidentale attraverso il quale l’Iraq viene percepito.
I resti dell’antichissima città di Ur, che appartengono alla nostra geografia, che fanno parte del nostro territorio, rimangono inascoltate testimonianze di una Storia che è patrimonio del mondo, di una identità culturale sbriciolata come le rovine al sole, al vento, ai bombardamenti, ai saccheggi.
Il giorno della partenza vado via lasciando molto di me, con i borsoni quasi vuoti, con i panorami iracheni negli occhi, con l’immagine dei tramonti che dipingevano incredibili cieli, con la polvere sui vestiti, tra i capelli, nei pensieri, con la ricchezza di ogni momento di fragile bellezza condiviso, di ogni istante di effimera preziosa poesia vissuto con gli affetti. Porto con me quegli iracheni dallo sguardo fiero e antico, porto con me il sorriso dei bambini che rincorrono i mezzi sulle strade sabbiose e il sorriso dei nostri ragazzi in albe cariche di speranze e di attese,  porto con me un grande desiderio di ritorno, come se la Missione non fosse finita, come se l’Iraq restasse terra da comprendere, da respirare, da ascoltare

 
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Graffiti writing

 Il Graffiti Writing, spesso erroneamente definito Graffitismo, è una manifestazione sociale, culturale e artistica diffusa in tutto il pianeta, basata sull'espressione della propria creatività tramite interventi sul tessuto urbano. Correlata ad essa sono gli atti dello scrivere il proprio nome d'arte (tag) diffondendolo come fosse un logo. Il fenomeno prende le mosse dalla pittura murale (murales - disegni su muro), e viene spessoassociato ad atti di vandalismo, poiché numerosi adepti utilizzano come
supporti espressivi mezzi pubblici o edifici di interesse storico e artistico. Generalmente, il nocciolo di writer più vicini ad un serio lavoro di ricerca artistica considerano tali attività deprecabili, dimostrando anche nella scelta del supporto per la pittura una maggiore responsabilità e consapevolezza.

Un tipico graffito dei sottopassaggi di Pisa

Sebbene le sue origini si possono far risalire all'abitudine dei soldati alleati nel corso degli anni quaranta di disegnare lo scarabocchio Kilroy, il writing nasce a Philadelphia nei tardi   anni sessanta e si sviluppa a New York negli anni settanta fino a raggiungere una prima maturità stilistica a metà degli  anni ottanta.

Writer in azione a Bucarest.

Nei primi anni ottanta, anche grazie alla realizzazione di Style Wars (documentario sui graffiti della metropolitana newyorchese) e del film Wild Style, il fenomeno graffiti si diffuse su scala mondiale, trovando in Europa un fertile terreno.
Le città europee che meglio recepirono gli input provenienti da New York furono Amsterdaam e Parigi, a seguire presero a svilupparsi le scene in Germania, Spagna e Svezia. Una dura repressione rese invece abbastanza taciturna la scena inglese. Dagli anni ottanta ad oggi il fenomeno si è sviluppato grazie alla diffusione di riviste specializzate, video convention e ai frequenti viaggi di molti writer per le città europee e americane.
In Italia, le città maggiormente interessate dai graffiti sono Roma, Napoli, Milano, Pesaro, Bologna, Bari, Firenze, Torino,Salerno e Ascoli Piceno. Il fenomeno si è sviluppato in due ondate, quella tra il 1986 ed il 1995, fatta di ragazzi che arrivarono a rubare i tappini dei dosatori spray nei supermercati, poi messi fuori commercio e sostituiti da tappi ad incastro "femmina". La seconda ondata arriva fino ad oggi, con il raggiungimento, da parte dei novizi del 1995, di una certa maturità stilistica.
 

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