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UNA VITA ORDINARIA

Vita quotidiana di una tipa che pensa troppo

 

 

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L'AMBULANZA

Post n°62 pubblicato il 23 Marzo 2016 da manu650
 


L’ambulanza è arrivata a sirene spiegate, col lampeggiante acceso.

C’è gente dappertutto, malati che si lamentano, caviglie gonfie, parenti che alzano la voce, un naso che sanguina, bambini che piangono, una colica che non passa, ossa rotte, una ragazzina col piercing e i jeans che non la coprono abbastanza ha una crisi di panico ed è convinta di morire.

Il brusio è come un forte ronzare di insetti.

Mi estranio, azzero il sottofondo, chiudo le porte, allontano i curiosi, è un’emergenza, un codice rosso. Quando l’equipaggio scende dall’ambulanza il dottore scuote in modo impercettibile la testa, tiene gli occhi bassi, gli leggo in faccia la sconfitta. Un lenzuolo copre il corpo, la barella passa velocemente nel caos e per un attimo c’è il silenzio assoluto. Tutto si ferma e poi riprende, i presenti si interrogano, parlano a mezza voce fra loro facendo ipotesi.

E’ un uomo di cinquant’anni senza nome, trovato da due escursionisti in uno sterrato con la sua bici. E’ morto, non sappiamo chi è. Lo teniamo qui, in attesa che qualcuno venga a reclamarlo.

Tra noi ci guardiamo, pensiamo al momento in cui la sua famiglia verrà spezzata, travolta da una rivelazione che la cambierà per sempre.

E’ domenica e ci sono i clown, regalano palloncini ai bambini, recitano filastrocche. La loro allegria forzata mi sembra oscena.

Lavoro meccanicamente, porto dentro e fuori dagli ambulatori i pazienti, rispondo alle solite domande, sorrido anche, mentre penso che loro non sanno, che non capiscono quanto sono fortunati.

E spero, spero di non esserci quando qualcuno, preoccupato, chiederà di un ciclista che non è tornato a casa.

Una donna di mezza età, con gli occhi pieni di paura, attraversa la sala d’attesa guardandosi intorno, cercando un viso che non trova. Poi si decide a dare voce alla sua paura “Scusi, mio marito...è qui?”. E’ un sollievo che non l’abbia chiesto a me, se i nostri occhi si fossero incontrati in un lampo avrebbe saputo la verità.

Non possiamo dirle niente, non possiamo parlarle di un uomo senza nome che forse è suo marito o forse no.  Dobbiamo farle aspettare le autorità competenti per il riconoscimento.

Sento la sua angoscia avvolgermi come un mantello pesante. Farla aspettare è crudele, insensato. Continuo il mio lavoro, fingendo che non sia successo, ma la mia mente torna a quella donna sola che aspetta in una stanza vuota.

Lei non ce la fa più ad aspettare, il dolore ha raggiunto un livello intollerabile. Si sente divisa in due, una parte di lei è dentro un film dove non c’è niente di vero, l’altra è calata inesorabilmente in una realtà che è una condanna. Un’onda che vedi arrivare e non puoi evitare.

Deve agire, fare qualcosa, deve sapere, uscire da quella stanza in cui è sola da troppo tempo e spinta da una forza che è disperazione apre tutte le porte che incontra, un ripostiglio, un ufficio, il magazzino, il bagno, la stanza della salma.

La stanza della salma...

Lo riconosce dalle dita del piede, l’unica parte visibile sotto il lenzuolo. Dopo trent’anni insieme, è buffo, ma le viene in mente che quando era ingessato lei gli tagliava le unghie.

Scosta il lenzuolo e urla, urla, urla. E all’improvviso c’è solo il  buio.

 
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