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Messaggi di Giugno 2018

 

Duello per il sole

Post n°67 pubblicato il 22 Giugno 2018 da touchstone0
 

DUELLO PER IL SOLE
Palinodia per il solstizio d'estate 

   Paventavo, come sempre, il suo arrivo. 
   Mi dibattevo inerme tra le giornate diseguali che mi aggredivano con una regolarità disarmante. Ma si avvicinava inesorabile come una giustizia divina, da cui non puoi nasconderti, che non puoi evitare, perché sai che prima o poi ti troverà, anche ai confini del mondo.
   Cercai dei diversivi. Addestrai la mia mente a concentrarsi su pensieri freddi che a loro volta avrebbero addestrato il corpo a combattere quando sarebbe giunto il momento dello scontro. Intanto il calendario lentamente si assottigliava, la notte perdeva terreno e il buio pian piano si scrostava dalle case. Dovevo raccogliere le forze, evitare qualsiasi dispersione di energia, non soccombere alla calura.
   Infine arrivò.
   Era sfolgorante nella sua luce piena, come Achille sulla piana di Troia. Per un attimo ripensai a quante volte l'avevo già incontrata ed ebbi un moto di nostalgia. Un indugio sarebbe però stato fatale. Dovevo affrontarla quel giorno e solo quello se volevo averne ragione.
   Ci fronteggiammo come fossimo in un duello di altre epoche, ma non era per una donna contesa o per l'onore infangato che ci stavamo battendo, e nemmeno per la conquista di una città. La nostra era una questione di mera sopravvivenza.
   Era giovane e forte, e sicura di sé. Per questo forse, al calare della sera, ebbi il sopravvento e infine l'uccisi: il 21 giugno finalmente uccisi l'estate nascente. La seppellii la notte stessa, quando il sole era rivolto da un'altra parte e non poteva accorgersi di nulla.
   Da quel giorno il freddo invase la Terra, questa cambiò nome e iniziò il futuro.

 
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L'occhio che scrive

Post n°66 pubblicato il 16 Giugno 2018 da touchstone0
 

Prefazione di Marco Belocchi ai racconti
Auto-pseudo-bio-grafo-mania
di Lorenzo Pompeo
Edizione Ibiskos

Conosco Lorenzo Pompeo da molti anni e insieme abbiamo condiviso diverse esperienze letterarie: siamo stati tra i fondatori del LARP (Laboratorio aperto di ricerca poetica) che nei primi anni novanta visse alcune felici stagioni prima di disgregarsi in mille rivoli. Ma con Lorenzo ho mantenuto una relazione durevole, vuoi per la comune passione per la letteratura, vuoi per l'altrettanto "deleteria" passione per il teatro. Così ci siamo ritrovati a scrivere testi teatrali, talvolta un po' scombinati, talvolta con felici intuizioni, fino a condividere poi le nostre conoscenze cinematografiche e a farle confluire nella cura di rassegne di cinema contemporaneo, soprattutto dell'Europa orientale.

Già l'Est. Perché Lorenzo Pompeo, non va dimenticato, è soprattutto uno slavista, un profondo conoscitore di lingue poco frequentate in Italia quali il polacco, l'ucraino e il russo. E da queste culture, da queste parole, da questi popoli, ha introitato un gusto, e forse una visione della vita - che noi assaporiamo quasi solo attraverso i grandi narratori russi dell'ottocento - che in qualche modo, inconsciamente mi verrebbe da dire, restituisce nella sua scrittura, con quell'ironia amara, al limite del burlesco che ritroviamo nei primi racconti di Cechov o nei vagabondaggi tra le morte anime gogoliane. Quell'osservazione della realtà attraverso punti di vista diversi, ruotando lo sguardo di 90° per scoprire meccanismi apparentemente celati, ma che una visione solo appena più attenta ne rivela tutta la loro assurdità. Quasi tutti i racconti di questa raccolta hanno in comune l'atto del guardare, l'occhio ha la sua parte, l'abitudine da cinefilo consumato di soffermarsi sui dettagli dell'inquadratura, in questo caso della vita, del quotidiano, denunciarne gli ingranaggi senza avere la pretesa di risolverne le infinite contraddizioni, ma sottoponendole ad uno sguardo da entomologo.

Ma il guardare, per l'autore, presume in questo caso anche un altro atto fondamentale: essere guardati, la sensazione terribile che mentre noi siamo intenti a compiere con attenzione l'atto di osservare, c'è qualcun altro che osserva noi con la stessa curiosità e ironia un po' beffarda, come nel racconto Oggi sono nervoso. Sì, perché se il guardare nasce da un distacco ironico dalla realtà, necessario per sopravvivere nell'assurdo quotidiano, questo atteggiamento non può a sua volta non generare inquietudine, quel "nervosismo" del vivere che ci fa sentire sempre inadeguati, sempre in anticipo o in ritardo, fuori in ogni caso dal convulso, affannoso mondo contemporaneo. Ed ecco allora i brevi tratteggi di una fila alle poste, del rapporto disturbato con un aspirapolvere o con la telecrazia.

Il vero nocciolo di questa raccolta di racconti risiede però nella maniacale, e nello stesso tempo irrinunciabile, dipendenza dalla letteratura, che è poi il vero quotidiano di Lorenzo Pompeo, anche questa una relazione ossessiva, con lo scrivere, il dover scrivere, il tradurre immerso negli etimi e nei trattati in un rapporto fagocitante e assoluto (non dimentichiamo che Pompeo è anche curatore di ben due vocabolari!). Ed eccolo allora esordire, nel racconto che non a caso dà il titolo alla raccolta, con la frase sintomatica: "La letteratura è un mostro che inghiotte le teste degli scrittori", ma, aggiungo, gli scrittori non possono far a meno di essere inghiottiti e di cibarsi a loro volta di letteratura, di libri, di parole. In La confessione di un intellettuale, Pompeo esce decisamente allo scoperto e dichiara, attraverso l'io narrante del protagonista, che il suo vero male sono proprio i libri, "quell'oggetto tanto prezioso quanto inutile che orna i salotti, che riempie gli scaffali delle biblioteche e delle librerie"; un male che nasce pian piano e s'insinua subdolamente sin dalla prima gioventù per poi dilagare nel marasma letterario, dove un titolo tira l'altro, consumando la lettura come un vizio assurdo, che non ha fine perché "tu leggi un libro e poi ti accorgi che ne hanno pubblicati altri due, quattro, sedici , trentadue e così via. Loro lo sanno che non li potrai mai leggere tutti...". Il male di chi è divorato da un tal genere di febbre, di incurabile malattia è proprio questo: l'amara consapevolezza di non poter riuscire a leggere mai, a meno di non essere immortali, tutti i libri, di non approdare mai a quel gradino di Conoscenza, a quell'agognata ultima e definitiva pagina che è il traguardo del lettore accanito.
Così, conclude ironicamente Lorenzo, bisognerebbe convincere i vostri figli a smettere di leggere, a non lasciarsi travolgere da questa insana passione, ne andrebbe forse della loro possibile felicità!


 

 
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La forza d'urto dell'anima poetante

Post n°65 pubblicato il 03 Giugno 2018 da touchstone0
 
Tag: poesia
Foto di touchstone0

Nota di Gabriella Cinti alla silloge poetica
Esercizi di immortalità
di Marco Belocchi
Edizioni Progetto Cultura 

Scorrendo le poesie di Esercizi di immortalità di Marco Belocchi compaiono, come su una quinta teatrale, peraltro consona - anche professionalmente - all' indole di questo poeta, il  senso di una inquieta ricerca esistenziale, una serrata investigazione del mondo, il colloquio inesausto con l'altro,  specie femminile, alimentato da misteriche certezze, lo struggimento del non sperare inteso come deprivazione vitale, lo scarto dal possibile nell'agnizione che è amorosa quanto ontologica.  Cogliamo ripetutamente nei versi, una visione entropica alleggerita da una ironia carezzevole, la percezione di un trasmutare non solo e non tanto rigenerante quanto piuttosto  straniante, in direzione di un crudele indifferenziato, nella difficoltà di trovare un baricento identitario. Su tutto, domina il nostos algos del mondo greco, il faro unitario dello Sfero parmenideo. Trapela, inoltre, il tema della epifania amorosa, equorea e cromatica percezione espressa con grande densità cromatica, così come vette di straordinario lirismo affiorano in versi come " io ti aspettavo, mia ninfa di abisso/dagli occhi d'acqua e di lapislazzuli/ il mito primevo si specchia sul fondo/ faceva l'amore / e impacciate non erano le trame dei sogni", in cui la creatura amata, approdata dal mito, diventa guida destinica verso l'oltre. Questo "oltre" appare un superuranio di supremo Compimento, per grazia dell'amore, salvifico per eccellenza. E  tale compito soteriologico risuona in versi struggenti, nella evocazione di un'agnizione a ritroso, auspicata con un struggimento eucologico "...se i miei occhi...incidere sulla retina / un frammento di bellezza / leggero dalla terra potrei ripartire/ e felice , ritrovata la scintilla / che divina tra le sfere cadde/ doni addietro. "Perdita ontologica e sentimentale, cadute e rimpianti, punteggiano i versi, senza luci consolatorie se non, per il lettore, nella possibilità di riconoscersi in questo destino di sottrazione che tocca quanti abbiano sofferto per amore.Il richiamo al mito si palesa in ripetute presenze, di cui quella più intensa, la figura di Dioniso, colpisce per l'adesione alla complessa natura del "dio clandestino" che il poeta coglie nelle sfaccettature della sua cangiante essenza. Ma, non di meno, veniamo sedotti, all'interno del pantheon evocato da Belocchi, da Afrodite, colta in quell'empito supremo di desiderio e trascinante bellezza che solo la poesia e l'arte possono immortalare. In fondo a questa istanza di divino mitico, lampeggia forse una interrogazione originaria a "gli occhi di Dio", del  quale, pur "senza bocca/ e senza orecchie" -  anzi, spesso "nemico", -  si vagheggia anche solo il dono di uno sguardo. Nella percezione di un Kronos distruttivo, che tutto trasforma senza pietà, pure si leva la voce invocante il prodigio, nella sola forma concessa a un poeta, la parola, che sfida Tempo e Morte, per proporgli il patto incantato della eternità d'istante.Amo cogliere  in questi versi, infine, un messaggio paradossale di permanenza, pur nella generale frana del mondo, quella longue durée della poesia che "vince di mille secoli il silenzio", anche nel pathos epico del profetismo apocalittico di "Apocalissi nel deserto": la rivoluzione della poesia che rovescia - kataballei- il grado zero dell'essere nella forza d'urto dell'anima poetante.

 
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La finzione della realtà

Post n°64 pubblicato il 01 Giugno 2018 da touchstone0
 

Prefazione di Marco Belocchi al romanzo
Processione diabolica
di Stefano D'Angelo
Serarcangeli Editore

Stefano D'Angelo arriva al debutto nel romanzo dopo una lunga carriera di autore, avendo esordito con un volume di liriche nei primi anni ottanta e continuando con una fruttuosa e rilevante produzione teatrale che, cosa abbastanza rara per i nostri palcoscenici, ha visto la luce non solo sulla carta stampata, ma anche nel luogo che gli sarebbe proprio, ovvero il teatro. Ho avuto la fortuna, e se vogliamo anche l'ardire, di mettere in scena io stesso alcune delle commedie, o forse sarebbe meglio chiamarle tragicommedie, di D'Angelo e sempre ho notato che l'impatto sul pubblico si è rivelato duplice, obliquo, spiazzante, dove la forte componente grottesca, il linguaggio iconoclasta e l'uso deliberato di codici linguistici mutuati dal cinema di genere, dal fumetto e comunque dalla letteratura di consumo, faceva da contrappunto a storie apocalittiche in cui i piani della realtà, attraverso meccanismi talvolta impeccabili, slittavano progressivamente fino a confondersi, per trovare, magari in uno sberleffo finale, la soluzione. Commedie certamente di non facile fruizione, che nonostante l'apparente "divertissement", o se vogliamo un'anarchia post-surrealista alla Boris Vian, nascondono un'ansia orwelliana filtrata attraverso le "attese" beckettiane o il relativismo pirandelliano (non a caso la maggiore raccolta del suo teatro s'intitola "Così è ma non pare") e vissute attraverso i generi cinematografici, dal western all'horror, dall'avventura di sapore spielberghiano alla farsa bellica.
La cifra che D'Angelo ha finora prediletto non può che essere lo spiazzamento e, in un panorama teatrale e letterario italiano che nell'ultimo ventennio ha registrato una frenata e un consenso verso forme di facile consumo e totale disimpegno, questa voce così stridente, provocatoria, complessa, nei linguaggi e nelle tematiche, e mi viene anche da sottolineare solitaria, ha certamente avuto difficoltà ad affermarsi e a trovare una platea pronta e ricettiva. Solo ora forse, in questa temperie caratterizzata da una crisi e precarietà permanenti, e per fortuna prima di essere postumo, può ottenere la collocazione e l'attenzione che merita.
Con il romanzo Processione diabolica alcune delle tematiche e dei codici utilizzati da D'Angelo nella sua ventennale produzione, trovano un'altra forma, si rigenerano, o forse sarebbe meglio dire, rigerminano, trovando una compattezza nuova, eliminando quasi totalmente la componente ludica e lasciando il posto semmai ad un'ironia amara che si fa strada nella cupezza che assume il suo universo, d'altronde perfettamente al passo con i tempi (non mancano certo i riferimenti ad un'attualità subita, oltre che vissuta), anche se trasferito in un futuro non troppo lontano, dove ancora una volta i piani tra realtà e finzione si intrecciano e si capovolgono, conducendo il lettore attraverso un labirinto diabolico.
Ma andiamo con ordine. Processione diabolica si struttura in stazioni, quasi fosse una sacra rappresentazione medievale, un dramma di Brecht, ma anche una moderna sceneggiatura, mentre il genere mutuato è il giallo di detection alla Chandler, ma anche una certa fantascienza in cui si riconoscono atmosfere e scenari alla "Blade runner", ma anche, con sottesi rimandi, a certa vocazione apocalittica di "Metropolis". La storia si apre con un funerale e da lì comincia la detection che un ex ispettore di polizia, l'ottuagenario Lucenzi, appena richiamato in servizio, conduce nei meandri di una città irriconoscibile, sotterranea, precaria, come sono precari i suoi rappresentanti (il capo della polizia ha 18 anni e viene rimosso ogni sei mesi!). Attraverso rocambolesche traversie che si generano come concrezioni cancerose, e a dir poco kafkiane, Lucenzi sprofonda sempre più in una discesa agli inferi, fino a ritrovarsi sul proprio letto di morte,  che a sua volta ci riconduce al funerale iniziale.
E poi Jonny Gongo. Questo personaggio che si intravede nel romanzo e sbuca fuori prepotente nell'epilogo, a sua volte germinazione di un altro testo di D'Angelo, "Salem", in cui Gongo, il regista occulto, qui ricompare ancora in questa veste diabolica, novello Mabuse di Langhiana memoria (ancora un rimando al cinema!), per sussurrarci che forse, ancora una volta, stiamo tutti vivendo una finzione, la più grande delle finzioni e delle menzogne, attori inconsapevoli e grotteschi di poteri tremendi, occulti, antichi, molto antichi, addirittura... "più antichi del Diavolo".


 

 
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