Mi chiamerò Papà
Il racconto di una storia che, sebbene uguale a tante altre, rimane incomparabile, speciale ed unica. La favola dell'attesa, raccontata da un uomo che diverrà padre.
Post n°25 pubblicato il 25 Novembre 2013 da pmarogna
E’ trascorso un mese e mezzo da quel tiepido venerdì di inizio ottobre. Ricordo ancora la leggera brezza che agitava i ciuffi di pomelie aggrappati alle ringhiere dei balconi prospicenti la clinica. Tu eri in braccio a me, serenamente assopita nella leggera coperta trapuntata che ti avvolgeva. Ti ammiravo con occhi stanchi ma colmi di felicità mentre dondolavo sulle gambe cullandoti dinanzi alla finestra socchiusa. Le mie braccia tremavano per l’emozione sotto l’impalpabile peso di un morbido fagotto rosa. Il sole, filtrando prepotente dai legnosi scuri, illuminava di un perlato candore i sorrisi che io e tua madre ci scambiavamo divertiti nel guardare le tue buffe smorfie. L’autunno, il medesimo reggente stagionale che ti ha accolta con un dolce tepore, ha assunto, oggi, la sua espressione più austera. Il cielo è spesso cupo ed adirato, brontola minaccioso sui tetti della città mentre il Tevere, gonfio di pioggia, spumeggia sotto i ponti ingoiando i pietrosi argini con i suoi sporchi flutti. La tramontana ha derubato gli alberi delle loro chiome ed impoverito i balconi delle case; le siepi dei giardini, ora, sono scarne e rinsecchite e gracchianti stormi di uccelli abbandonano la città in cerca di lidi più accoglienti disegnando, fra le nuvole, enormi mostri volanti. Le giornate si sono accorciate ed il buio cala come una tetra e silenziosa cappa sulla città, sempre più presto. In questo palcoscenico così dissimile ed alterato sembra esser trascorsa un’era dalla tua nascita. Ciò che questa graduale muta scenografica non ha minimamente scalfito è la luce che risplende nei nostri occhi, incantati, oggi come allora, dinanzi al “miracolo” che quotidianamente contempliamo. La mattina ci regali sorrisi spassosi che addolciscono anche i risvegli più fiacchi e rallentati e alla sera il tuo bagnetto diventa l’imperdibile show che rinvigorisce l’umore snervato dal lavoro. Già, il lavoro, il pianeta lontano sul quale vivo quando non sono con te. Non basta la tua foto che campeggia sul desktop o le immagini che Mary mi invia quotidianamente per farmi sentire vicino a voi. La manciata di chilometri che ci dividono paiono siderali anni luce che separano remote galassie, sento la tua mancanza, temo di perdere momenti speciali che nessuno mi restituirà più e soffro al pensiero di quei nostri spazi esclusivi usurpati da altre persone. È un inaspettato dolore che mi assale come una fitta improvvisa; penso a te e vorrei abbracciarti, stringerti, sentire il tuo odore ed i tuoi inconfondibili mugolii che mi solleticano il collo…a tratti mi mancano persino le tue puzzolenti svomitacchiate sui vestiti puliti e stirati e le rumorose scorregge che molli con la tua sfacciata indifferenza. Sarà per questo che domenica ho voluto inebriarmi di te. In una giornata fatta di lunghe passeggiate, visite ai nonni e pasti consumati con amici vari hai pianto ininterrottamente, non v’era consolazione allo strazio che ti affliggeva. Che gli amici potessero fare ben poco era prevedibile, che lo stesso valesse per i nonni alquanto strano, che non vi potesse porre rimedio tua madre era un’eventualità assolutamente remota….Che, per ogni volta che ti prendevo, io tu potessi crollare fra le mie braccia era impossibile ed allo stesso tempo è stato incredibilmente appagante. Per ore ti ho tenuta al mio petto bloccandomi in una scomoda e dolorosa posizione, come un bambino che per la prima volta ospita sul letto il suo gatto e per farlo rimanere acciambellato fra le ginocchia e non interrompere quel magico prodigio si fa venire il formicolio alle gambe. Anche quando siamo usciti col passeggino, non volevi saperne di rimanere stesa, hai ripreso a piangere intensamente. Ho sperato che l’incanto si ripetesse e così è stato, silenziosa scrutavi con gli occhi vispi quel mondo di arcani misteri che si agitava oltre la mia spalla e di tanto in tanto mi fissavi di sottecchi, io ti sorridevo mentre ti sorreggevo fiero, sembravi la coppa del mondo in braccio a capitan Cannavaro ai campionati di calcio di Germania 2006. Nuovamente a sera tarda, rincasando, abbiamo percorso assieme il viale del cortile. Il vento agitava le acacie schierate ai lati della ferrovia e gonfiava gli oleandri che sembravano voler scavalcare i tetti delle auto ordinatamente parcheggiate in fila indiana, io ti tenevo protetta sotto il giaccone di pelle dal quale spuntavano le simpatiche orecchie bianche del tuo cappellino di lana. Bardato di coperte varie mi sentivo il protagonista del più classico racconto per bambini: il burbero personaggio che diventa amabile e protegge la piccola bambina che lo ammalia con il suo dolce sorriso. Speravo che quel viale non finisse mai. Ancora oggi in ufficio pensavo a quei momenti di gioia che mi hai regalato pochi giorni fa e rivivendo i più significativi istanti di questo mese e mezzo assieme mi accorgo di quante cose siano cambiate attorno a me…e dentro di me. Giorno dopo giorno sento irrobustirsi quel legame che ci unisce e che ci fa divenire una cosa sola nei nostri momenti speciali: quando ci guardiamo in silenzio sul divano, quando ti canto una filastrocca nel buio del salone o quando ti cambio il pannolino ricoprendoti il pancino di baci. Questo nuovo ruolo lo sento sempre più mio e mi piace, lo riconosco, a volte mi si tatua addosso con estrema naturalezza, in altre occasioni invece pare una faticosa conquista. Certo è dura ed estenuante ma il meccanismo sembra abbastanza semplice: prova-sbaglia-riprova-risbaglia-ririprova-miracolo!-felicità. Forse questa, mio piccolo tesoro, è un’elementare corrispondenza valida solo per le tue primarie esigenze fisiologiche ma, al momento, è proprio su queste che posso tarare le mie capacità di inesperto papà. Non a caso, se provo a scavare fra i ricordi e a cercarne uno che possa richiamare immediatamente l’essenza del mio divenire padre, allora la mente corre rapida ad una tormentata notte di basilari impellenze e che, per fortuna, tu non ricorderai mai. Ogni altra immagine, più ricercata anche se sottoposta a qualche sofisticazione intellettuale viene annebbiata da un’unica potente visione: i tuoi occhi umidi e spaventati che luccicavano nel buio di quella notte. Ero tornato a casa stanco e nervoso dopo una giornata di intenso lavoro che mi aveva regalato un cerchio alla testa che ancora mi premeva dolorosamente sulle tempie. Avevo lasciato in ufficio alcune cose incompiute che mi avevano seguito, le sentivo ancora occuparmi la mente. Mary era andata a dormire presto ed io non avevo neanche finito la cena quando scoppiasti improvvisamente a piangere. Una delle prime vere crisi lontani dalla clinica. Ti contorcevi fra le mie braccia e le minuscole vene del collo ti si contraevano e rilassavano ad intermittenza come gonfiate da invisibili mantici. Non accennavi a voler smettere la tua macabra danza ed il colorito del viso si era fatto di un livore impressionante. L’angoscia e il nervosismo mi stavano assalendo mentre il tuo pianto assordante mi spaccava il cranio come fosse una noce di cocco. Impiegai almeno un’ora per farti calmare e dopo qualche decina di minuti cominciasti a piangere nuovamente per il pannolino sporco, ti portai sul fasciatoio per cambiarti e lì mi cagasti in mano in un sordo fragore maleodorante, poi, non contenta, mi vomitasti sul pigiama poco prima di addormentarti e quando finalmente ti adagiai nella culla, illudendomi che tutto fosse ormai finito riprendesti a frignare appena mi allontanai da te, tornai deciso sui miei passi come per calciare via un vecchio pallone abbandonato sulla strada ed inveendo ad alta voce contro di te, ti afferrai come si sorregge per il bavero una faccia da schiaffeggiare serrando i denti in una rabbiosa morsa. Mi guardasti in silenzio con gli occhi lucidi, mi sentii un mostro, passai la notte insonne ritenendo di non poter diventare per te un buon genitore. “Non ce la farò mai”. Il mattino seguente mi salutasti con un sorrisone dei tuoi, non ricordavi nulla, non potevi; io invece si e mi portavo quel male dentro, tu con quel sorriso sembravi incitarmi quasi a volermi dire “provaci ancora papà” ma io avevo paura, mi sono tirato indietro e non ti ho neanche baciata fuggendo di casa in preda alla vergogna e spaventato di non esser più degno di questo mio nobile ruolo. All'improvviso avevo realizzato che la vita di un esserino dipendeva esclusivamente da me e da quello che avrei fatto. Mi fermai a ragionare meglio su quel senso di angoscia che mi comprimeva. “E’ una grande responsabilità la mia e a volte spaventa da morire ma forse” mi dicevo “forse avere paura è normale, è sano, forse sono a buon punto se riconosco queste mie debolezza e la misura del mio impegno, che genitore può essere chi non ha paura?” “E’ normale aver voglia di scappare, di tapparsi le orecchie dinanzi a quegli isterici pianti? è normale detestare, a volte neanche solo un po’, quell’esserino che ti tiene sveglio per tutta la notte e frustra ogni tua applicazione?” E’ normalissimo. Lo capii quando trovai il coraggio di parlarne con Mary, lei che sembra sempre così inappuntabile nel suo esser mamma e che mi confessò di aver vissuto, mentre ero a lavoro, momenti analoghi al mio sfogo notturno. Condividere il lato oscuro della “genitoralità”, il senso di smarrimento, quella paura di non farcela, il non sentirsi all'altezza e quel sentimento non proprio di amore nei confronti della bimba, che, tuttavia amiamo più della nostra stessa vita, mi ha dato coraggio. Così notte dopo notte mi sono cimentato in quella puntuale sfida, affrontando i tuoi pianti con un autoimposto sorriso scacciapaura anche quando le orecchie mi fischiavano come fossi appena uscito da una discoteca e le gambe mi cedevano per la stanchezza; certo qualche spensierata parolaccia continuo ancora a rivolgertela soprattutto quando tua madre è lontana da noi, ma sto imparando, con discreti risultati, ad interpretare i tuoi pianti, a leggere i tuoi sguardi osservando il mondo con i tuoi occhi e a fare dei nostri distinti movimenti un unico respiro, ad entrare in sintonia con in tuoi stati d’animo fino quando lenire le tue sofferenze equivale a dissipare le mie paure. Oggi sono io a scandire i confini dell’interregno notturno di tua madre, fatto di poppate e coccole, sono io che ti porto in culla serenamente addormentata ed io che ti faccio salutare l’alba al tuo risveglio. Con un braccio ora blocco i tuoi movimenti convulsi e con l’altro ti sollevo la magliettina adagiando la mano sul tuo pancino contratto e con il palmo vi disegno sopra dei piccoli cerchi. Chiudo gli occhi respirando profondamente lasciando che i nostri movimenti coincidano e mi concentro su quel dolore che diventa anche mio. Percepisco sopraggiungere la distensione, apro gli occhi e vedo il tuo volto che comincia a rilassarsi così come i pugnetti che avevi tenuto serrati fino ad allora, a seguire il ritmo del tuo dolore. Ti distendi in un’espressione di rinnovata serenità e chiudi a più riprese le palpebre prima di abbandonarti finalmente al sonno. Come domenica scorsa. Ci si adatta, errore dopo errore si impara e si continua a crescere assieme, a fare proprio questo difficile mestiere i cui datori di lavoro, tuttavia, sono i più indulgenti e pazienti al mondo. E su quella seconda, terza, quarta o chissà quale ulteriore occasione pazientemente concessati hai la possibilità di ritagliarti quel ruolo esclusivo che nessuno mai ti strapperà di dosso, migliorando, comprendendo, acquisendo sempre maggiore dimestichezza e cancellando l’iniziale senso di inadeguatezza. Parti da notti in cui vorresti lanciarti dalla finestra per fuggire da un mostro indemoniato e finisci per danzare nel buio del salone sulle dolci note di un carillon con una bellissima bambina che dorme avvinta al tuo collo e senti che vorresti ballare con lei fino all’alba, nonostante il sonno, nonostante la fame, nonostante il dolore ai piedi. Senti che in quell’abbraccio impalpabile c’è concentrato un amore sconfinato, talmente immenso che ti concilia con il mondo intero e ti fa vibrare il corpo di un'emozione travolgente alla quale non vuoi resistere. E’ passato un mese e mezzo da quel tiepido venerdì di inizio ottobre, quando ricevetti il regalo più grande che la vita potesse farmi, mia figlia Arianna.
|
Post n°23 pubblicato il 29 Ottobre 2013 da pmarogna
Alla fine il gran giorno è arrivato: sei nata alle 10.38 di venerdì 4 ottobre, mentre un generoso sole riscaldava l’aria che avvolgeva una Roma insolitamente quieta, nella ricorrenza di San Francesco, al quale abbiamo voluto tributare un simbolico ringraziamento, accompagnando il tuo “Arianna” con la variante femminile del nome del santo. Pesavi 3,110 kg ed eri lunga 48 centimetri. La tua nascita ha rapidamente scalato l’hit parade dei miei momenti memorabili anche se, personalmente, ho realizzato l’importanza di ciò che stava accadendo nella mia vita solo quando ci siamo finalmente guardati negli occhi. Il cesareo mi, infatti, ha impedito di assistere al tuo prodigioso avvento del quale conservo un solo fantastico scatto regalatomi dall’ostetrica. E' una foto in cui la luce arriva appena, di quell'oscurità un po' mistica che fa sembrare le forme dipinte, che lascia intravedere il "miracolo" pur lasciandolo avvolto in una sorta di mistero, come se la sua grandezza fosse inaccessibile. Un angolo di mondo in cui oltre alle dita si stringono dolore e gioia, amore e vita, la storia di due persone, tu e tua madre, e l'infinita storia dell’umanità che si ripete. L'attimo tra il passato e il futuro che con il tempo sfugge, pur essendo quello in cui tutto cambia e si trasforma. Di quel punto di non ritorno che è stata la tua nascita non ho molti ricordi “scenografici”, eppure ci penso spesso. E' stato come se lo avessi vissuto dietro ad un vetro, da spettatore: mentre tu vedevi la luce io ero ancora avvolto nell’oscurità di un buio ed anonimo pianerottolo nel quale mi era stato ordinato di attendere, ostaggio di un’ulteriore appendice narrativa di una storia che, evidentemente, doveva ancora raccontare di me. Su quella piastrellata superficie, come una piccola zattera che, incerta, ondeggia su un profondo ed inquieto oceano, ho oscillato fra miriadi di pensieri e sentimenti. Ho camminato nervosamente lungo le pareti, stringendo al petto la borsa con dentro i tuoi primi cambi, accarezzando quell’unica nota di roseo colore nel grigio che mi avvolgeva, mi sono seduto sulle scale ed ho respirato profondamente mentre tremavo per l’agitazione e mi sono nascosto fra le ombre appena qualcuno usciva dal reparto per celare quelle irrefrenabili lacrime che mi facevano vedere tutto appannato. Avrò trascorso secoli su quei due metri quadrati, al buio, fra lucciconi ed isterici andirivieni, da solo, o meglio, in compagnia di un altro me che mi stava abbandonando per sempre. Mi sono sentito perso, debole, ancora acerbo, nonostante le mie 36 primavere, per un simile passo ed ho rivisto una buona porzione della mia vita recente sintetizzata in un’esplosione di rapidi flash. Mi sono visto scendere le scale spinto dal costante istinto di fuga da quel momento, come se fosse stato possibile, sperando fino all'ultimo di poter esercitare il controllo sugli eventi che stavano correndo da soli in modo irreversibile e premere "stop". Così è stata un po' tutta la mia lunga “attesa”. Intensamente sognata e desiderata, ma anche vissuta, a tratti, come una finzione o un gioco, quasi convinto che non stesse accadendo davvero, non sentendo mai un calcetto dentro di me, non vivendo stravolgimenti biologici, non ricevendo mai dagli altri una vera attenzione sui sentimenti di un personaggio così poco intrigante in questa “favola”, un viaggio vissuto giorno per giorno tra negazione ed accettazione della mia incapacità di dare risposte alle mie tante domande. "E' umano", mi dicevo con indulgenza, salvo poi scoprirmi sfasato rispetto alla mia stessa esperienza ed in affanno nel vano tentativo di recuperare. Quell’ultimo addio è stata la mia ultima vera prova: volevo riattaccarmi sul corpo i brandelli di quella muta che mi aveva strappato di dosso un altro po’ di spensierata identità, la inseguii su quel pianerottolo e mentre stavo per posare il piede sul gradino delle scale è giunto il tuo pianto, forte, distinto e così sorprendentemente familiare. Nella lotta, impari, fra te ed il mio passato, che forse mi avrà anche lanciato un sorriso beneaugurante, è stato istintivo puntare verso il mio domani, spingendomi a curiosare oltre la porta del reparto, socchiusa, attendendo il tuo arrivo. Quando l’ostetrica è uscita dal reparto gridandomi ho cominciato a prendere coscienza della situazione, del mio ruolo, della mia importanza, ho dato il cellulare alla mia improvvisata staffetta che è tornata con quella meravigliosa immagine delle mie donne che si accompagnano verso il futuro tenendosi per mano, il momento in cui si è consumato il vostro salto. Lo stesso in cui, da qualche parte dentro di me, era finalmente giunto il coraggio. La “mia gravidanza”, nei miei pensieri, è come quella di un altro uomo, non la mia. Forse io ero davvero un'altra persona. Io sono nato come papà insieme a te. Non prima, ma ancora adesso ed ogni giorno. Così, quando sei uscita dal reparto, trasportata in una culla trasparente e coperta da un asciugamano, è scoccata la scintilla, il colpo di fulmine che ti fa quasi stramazzare al suolo e che ti toglie il respiro. Silenziosa hai alzato gli occhi e ci siamo guardati. In un attimo tutte le tensioni dei mesi passati sono esplose in un impeto di commozione e non ho trovato di meglio che presentarmi con un banalissimo ma dietro quelle semplici parole c’era tutta la consapevolezza di un ruolo, di una missione, del più grande onore da difendere con coraggio. Ci hanno portato in un laboratorio dove ti hanno lasciata nuda come un verme mentre bardavano il tuo papà come se dovessi atterrare su Marte. Non ti ho tolto lo sguardo di dosso un solo istante. “Ma l’acqua è fredda?” “la pettinate? E le fontanelle?” “Piano le rompete le ossa”, inconsciamente avevo già sviluppato l’istinto protettivo del genitore e fra quei poco sensibili ed estranei infermieri ti ho sentito parte di me volendo frappormi, a mo’ di scudo protettivo, fra mia figlia e quel mondo già così ostile. “Papà è qui Arianna, non piangere”. <<Ed ora il papà la prende in braccio"! <<Come scusi?>> <<Si, noi qui abbiamo finito, la può tenere per un pò mentre registro i dati" <<Guardi io non ho mai preso in braccio un bambino ed anche al vostro corso...>> <<Tenga papà>>! Eri appoggiata al mio petto, avvolta in un telo profumato, così leggera che temevo di spezzarti, una calda luce ci illuminava mentre l’intero universo svaniva. Nel mio primo abbraccio ci stavi meravigliosamente bene. Hai aperto i tuoi bellissimi occhi, mi hai guardato, quasi intimidita hai distolto lo sguardo, silenziosa e poi di nuovo mi hai guardato e siamo rimasti a contemplarci fino a quando non ti ho posato un umido bacio sul nasino. Fuori dalla porta del laboratorio sentivo un continuo ciarlare, i tanti parenti di Maria Luisa correvano lungo le scale della clinica come un’indisciplinata scolaresca, depistati dalle indicazione degli infermieri che avevano loro anticipato il nostro imminente arrivo al piano inferiore. L’istinto del genitore tuttavia aveva trattenuto qualcuno dietro quella porta, su un altro pianerottolo si era consumata un’altra muta ed una neononna fece allegramente capolino sull’uscio. Ecco la bambina del suo bambino! Ammonita dall’infermiera mia madre è rimasta ferma ad contemplarci sulla porta e così, nel silenzio e separati da qualche metro, ci siamo guardati commossi e ci siamo abbracciati con gli occhi. Chissà se anche lei in mi ha visto forte e grande come mi sentivo in quel magico istante. Poco dopo, al piano inferiore, furono i grandi e felici occhi di tua madre a completare il mio suggestivo e commosso abbraccio alla metà femminile del mio mondo, unendo passato presente e futuro in un delicato fiocco rosa. Fianco a fianco e mano nella mano, rimanemmo per ore ad ammirarti in silenzio mentre un raggio di sole circondava di una luce divina il frutto del nostro amore. L'amore. Anche ciò che si pensa essere accaduto improvvisamente non è altro, in realtà, che il culmine di un processo graduale ma sento che l'amore per te è "esploso" in un salto, con il passare dei pochi minuti in cui ho camminato su un ideale trampolino, attraversandolo, fino a quando il passo è aumentato di falcata e velocità per culminare, infine, in quello slancio che dal prima mi ha condotto al dopo. Amore può essere sinonimo di coraggio, l’ho capito mentre ero in volo, perché in quel salto, io, ho abbandonato a terra ogni paura. |
Post n°22 pubblicato il 21 Ottobre 2013 da pmarogna
Alcune notti sono capaci di incidere così profondamente la memoria al punto di sopravvivere al cinico logorio del tempo e rimanere perfettamente inalterate nei ricordi; baleni passati avvolti in un buio che non oscura e copre ma che, al contrario, rende nitido ogni singolo contorno. Siano esse notti romantiche punteggiate di distanti lumini argentati o notti di dolorose lacrime che piovono dal cielo, notti di lattescenti lune danzanti o notti di abissi tenebrosi che trascinano nelle profondità, ognuna, memorabile a modo proprio, con decisione, conquisterà una porzione del tuo cuore. Notti di leggeri sussurri, di chiassosi silenzi, di mani che si sfiorano, di battiti che echeggiano nell’infinito…tutte favole che rileggerai nei tuoi domani con rinnovata nostalgia. Questa notte scura ed immobile, sono certo, la porterò per sempre nel cuore. Il momento è giunto, ci siamo, stai per nascere. Questi nove mesi che, per lungo tempo abbiamo percepito lenti come un’era intera, ora, paiono esser volati via in un impalpabile istante. Gelida paura e vibrante entusiasmo si affrontano in un duello senza vincitori né vinti mentre i pensieri pigiano insistentemente sulle tempie come questo primo vento autunnale che preme sulle finestre del salone. Un gonfio valigione rosa attende impaziente davanti alla porta di casa, i nostri vestiti sono ordinatamente ripiegati sulla sedia e le cartelle cliniche sono accatastate sul tavolo mentre uno scatolone contenente la tua culla riposa scaramanticamente in un angolo. Tutto è ormai pronto. Io sono qui, seduto a gambe incrociate sul divano, investito da un cono di luce bluastra che assorbe le mie emozioni, a contare ogni secondo di una notte che pare una vita intera. Dalla camera giunge un debole fruscio di lenzuola, Mary è tormentata da inquieti sogni. Sono in pena per tua madre, mi sento così inutile: ha visto il suo corpo trasformarsi in un’incontrollata mutazione che ha stravolto le sue normali abitudini, con coraggio ed orgoglio ha affrontato le tante battaglie di questi mesi e, a volte, sono stato proprio io a mancare, a non essere al suo fianco quando ne aveva bisogno, a sorreggerla per non affondare nello sconforto…ed è sul suo immacolato corpo che sarà disegnata un’indelebile cicatrice, perché tu, mia piccola stella, hai preso dal papà il comodo immobilismo di chi non schioda dai tranquilli lidi; “su questo, piccola mia, dovremo lavorare molto entrambi!” Mi risolleva il ricordo dei caldi momenti vissuti in questa lunga attesa: i racconti letti ad entrambe mentre scivolavate addormentate sul mio petto in altrettante memorabili dolci notti; le passeggiate pomeridiane mano nella mano scandite da sogni e confidenze rivelati, i baci e le divertenti canzoni regalati alla nostra zucca magica e gli abbracci bagnati da commosse lacrime e le lunghe confessioni di due spaventati futuri genitori. Non è stato facile, è vero, ci sono stati momenti in cui abbiamo temuto di aver sbagliato, si lo ammetto, di aver corso e di non aver ragionato abbastanza su ciò che realmente ci attendeva, abbiamo dubitato delle nostre capacità ed a tratti abbiamo pensato di aver compromesso quell’idilliaco equilibrio che assieme avevamo costruito col tempo venendo assaliti dallo sconforto. Ma si è sempre trattato di timori spazzati via da quella fiamma incandescente che arde dentro di noi. Mi viene da pensare ai tanti momenti in cui ci siamo stretti l’uno all’altra riemergendo da quelle paurose paludi sempre più convinti di noi e sempre più forte. Ti abbiamo voluta intensamente, coronando quell’amore che, certo, poteva essere ancora per un po’ speso egoisticamente solo per tuo padre e tua madre ma che in fin dei conti era così grande da poter avvolgere anche questo miracolo che ora attendiamo con grande emozione. Ripenso a questa incredibile favola, ai suoi tanti speciali passaggi, il sorriso di tua madre che mi mostrava il tester, le carezze a quella pancia sempre più tondeggiante, la corsa in quel maledetto pronto soccorso, le mie lacrime nascoste e le tante lotte con me stesso e che hanno visto il trionfo di una persona che ancora non conoscevo ma che sono felice di regalarti come padre. Ora tutto cambia, guardo il mondo con altri occhi, le priorità sono altre e sento di avere un preciso compito da assolvere con spontanea dedizione ed amore incondizionato. Sto per diventare padre e ripeterlo mi emoziona sempre di più, lo sarò per il resto della mia vita ed oltre: per tutta la tua esistenza verrò ricordato come “papà”…ed è un’eternità che non spaventa ma che inorgoglisce e mi riempie di grande fierezza. Questa è la notte in cui tu sei ancora un sogno piccola mia, rimarrà indelebile nella mia mente e non mi stancherò mai di raccontartela. Fra poche ore ci abbracceremo, sono curioso di scoprire chi sei…sto per vivere un miracolo mentre sospeso su questa lancetta di orologio osservo il mio passato e scruto il mio avvenire…. ….la sveglia suona, è ora di diventare papà! |
Post n°19 pubblicato il 05 Settembre 2013 da pmarogna
In queste ultime giornate estive gli scarlatti sipari del tramonto anticipano sempre più rapidamente l’arrivo della sera tinteggiando di calore i palazzi e laccando di cromo fuso i vetri delle finestre, mentre lunghe ombre fuggono attraverso le vie della città, ancora rallentata, dopo il letargo agostano…nel rosso del crepuscolo intravedo già l’autunno. E’ forse la prima estate della mia vita che si chiude senza un tuffo in mare. Per noi questa stagione è come se non sia mai esistita….almeno non nella sua accezione più “iconografica”. Gli ombrelloni e le sdraie sono rimasti, infatti, chiusi, parcheggiati nella polvere della soffitta, al pari del finto albero di Natale, insolitamente passato in pole position nello schieramento degli scatoloni di cartone che la affollano….la sensazione è proprio quella di aver mancato un importante rito annuale o di aver osservato la rotazione terrestre da una navicella spaziale. La città deserta ed un silenzio sconosciuto ci hanno accolti nelle nostre uscite serali, in quelle che parevano le timorose esplorazioni, in un paesaggio postbellico, di due superstiti ad un attacco nucleare. Il tempo è trascorso lentamente e con velocità diametralmente opposta giungevano stanchezza, noia e nervosismo. Il fiato corto non consentiva lunghe passeggiate e la tortura dell’ascolto obbligato del ticchettio delle lancette dell’orologio ha finito per farci esplodere. Diversi sono stati i litigi, tanti i pretesti a cominciare dalle rispettive abitudini familiari, inversamente proporzionali a quelle del proprio nucleo di appartenenza: l’affetto genitoriale manifestato con rispettoso distacco del mio ceppo di provenienza e l’ossessiva presenza di quello di Maria Luisa, così difficili da comprendere ma comunque sopportati per necessità nei giorni estivi. Per me è davvero faticoso sostenere il peso di queste continue ingerenze difficilmente rinvenibili presso le latitudini metropolitane nelle quali sono cresciuto. Per quanto riconosca le eccellenti qualità della famiglia di Mary e per quanto veda la vita di mia figlia come l’allegro furgoncino giallo di “little miss sunshine” che deve esser necessariamente spinto a turno dagli strambi membri di una famiglia eterogenea all’estremo, mi auguro che Arianna possa affrancarsi da questa visione arcaica della famiglia e sappia sentire forte dentro si sé il senso di appartenenza pur spiegando le ali oltre l’orizzonte. Si, lo ammetto, in questo spero con tutto il cuore che lei sia più simile a me come spero che questo momento magico non veda scalfita la nostra esclusività da un affetto che travalichi pericolosamente i confini delle rispettive posizioni. Gli scontri sono stati anche alimentati dalla paura di aver perso un’importante fetta del NOI inteso come coppia, sacrificato sull’altare di un noi “trino” se non, addirittura, il terrore di aver per sempre smarrito la nostra identità individuale…per non parlare del solito timore di non essere all’altezza del compito che ci attende…un gorgo di terrore legato al raffronto fra due dimensioni (quella di allora e quella di oggi) non sovrapponibili che ci ha trascinato negli abissi dello sconforto. Ci siamo fronteggiati su un ring di ansie accumulate, fra lacrime ed urla e, come due pugili stremati, ci siamo stretti l’uno all’altra in un abbraccio utile non per affossare l’avversario ma necessario a mantenere entrambi in piedi. Proprio quando abbiamo toccato la parte più intima di quel NOI coltivato da quando le nostre strade si sono incrociate abbiamo acceso la solita scintilla capace di squarciare le tenebre. Per quanto possa essere più breve rispetto alla nostra storia individuale c’è una favola fatta di noi due, di me e Mary e voltandomi indietro vedo i tanti ostacoli superati e rivivo le forti emozioni che solo la nostra vita al plurale è stata capace di regalarci. Mia madre spesso dice che stare insieme, col passare degli anni è un vero impegno. In passato forse ho inteso il concetto contestualizzandolo solo in un quadro poco romantico, quasi dovesse essere un sofferto sforzo. Oggi, al contrario, interpreto quelle parole come la più nobile delle sfide. Si è vero, forse quella magica cortina di polvere di stelle dei primi appuntamenti si dissolve quando si discute per il latte lasciato fuori dal frigo o per lo straccio da passare in bagno, quando senti la continua condivisione divenire opprimente fino a voler evadere di casa e respirare a pieni polmoni…tuttavia, combattere per il “bene comune” arrivando ad ignorare il proprio esclusivo interesse e raggiungere la felicità elevata al quadrato rimane la battaglia più orgogliosa da affrontare. Lottare per amore, per quella “piantina” che si è voluto coltivare assieme, proteggendola dalle intemperie, favorendone il germogliare, apprezzandone i frutti…fino a trovare riparo sotto i sempre più resistenti rami di ciò che è divenuto un grande albero. Abbiamo corso assieme e, per ogni volta che qualcuno di noi è caduto, l’uno è tornato indietro a sorreggere l’altro per riprendere abbracciati la marcia. Il mio IO esiste ancora e si nobilita continuamente in questo NOI che va preservato, a maggior ragione oggi che quel plurale diventa più ricco e prezioso e mi sento fortunato nel poter ammirare che, in un’epoca nella quale molti abbandonano ciò che è guasto invece di tentare di ripararlo, le nostre ginocchia presentino le stesse cicatrici mentre quel fuoco in noi, che sia fiammella agitata dal vento o pira che fa della notte alba, non si spenga mai. L’altra sera era la luce di un monitor ad illuminarci: Maria Luisa era stesa su un letto della clinica nella quale dovrà partorire, sprofondata nel sonno dopo le tante analisi effettuate e la sua mano era nella mia; sulla pancia due fascioni ed altrettanti elettrodi a scandagliare la frequenza delle contrazioni che l’hanno anzitempo condotta nella struttura nei primi giorni di settembre. La bambina è ancora podalica, manca più di un mese alla prevista nascita, ho una grande paura per entrambe ma al tempo stesso nutro quella fede che mi ha portato a credere che un aquilone rotto possa tornare a volare, che le stelle mi ascoltino quando parlo loro nel cuore della notte, che sia possibile annientare le mostruose creature che si nascondo in un tetro labirinto e che il caso non esista, infatti, guarda un po’, la stanza che ha cullato i sonni delle mie due donne è proprio quella che ci mostrò l’ostetrica in primavera quando visitammo per la prima volta la struttura. Stamattina Mary è tornata a casa, i farmaci hanno placato le contrazioni e forse siamo riusciti a guadagnare un altro po’ di tempo necessario alla piccola per assumere la giusta posizione. Negli occhi ho ancora quel flash della scorsa sera: la luce verde che illumina la pancia di Maria Luisa, il suo respiro profondo che alza e abbassa l’addome di tanto in tanto deformato da colpettini e calcetti. Io che allungo la mano posandola sul pancione, mentre l’altra stringe quella di Mary, il nostro girotondo ad esorcizzare quel momento difficile, è stato uno dei fotogrammi magici di questa favola che porto dentro di me. Nel ricordo subentrano i soliti deliri onirici di questo periodo, sarà che un mio amico mi ha detto che sua moglie ha iniziato il travaglio mentre giocava a calcio ma mi immagino con i guantoni infilati – che sia un altro “caso strano” che da quando mi sono operato giochi in porta?! – pronto a prendere mia figlia dopo una capriola. Una sola capriola piccola mia, chissà quante ne farai dopo, non avere paura, ti prende papà che oggi è diventato fortissimo a parare i rigori…la vita è un gioco, spero tu sia capace di concepirla sempre così e non ci sarebbe modo migliore per presentarti ad essa…una capriola sola Arianna e sono sicuro che poi non vorrai più smettere di vivere questo divertente gioco.
|
Post n°18 pubblicato il 25 Luglio 2013 da pmarogna
Fino a poco tempo fa pensare a cosa giocare con quello che credevamo esser il nostro ometto non mi preoccupava affatto: mostri ripugnanti, macchinine fiammanti, robot supersonici, scarpini da calcio e pallone…ero ferratissimo in materia ed ero certo che sarei divenuto facilmente il migliore compagno dei suoi avventurosi viaggi, poi il mio orizzonte si è improvvisamente tinto di rosa ed ho dovuto urgentemente prendere ripetizioni dalla nipotina di Maria Luisa e fare del reparto infanzia della Feltrinelli di Largo Argentina la mia personale biblioteca, nella quale fiondarmi a studiare nelle pause pranzo; ormai è anche svanito l’iniziale imbarazzo nel farmi vedere dai commessi della libreria, seduto, giacca e cravatta, su qualche micro sgabello colorato, intento a sfogliare libroni adatti ad aspiranti principesse…devo assolutamente recuperare il tempo perso! Nelle mie approfondite ricerche ho scoperto che, oggi, il mito dei nanerottoli di tutto il globo è la Peppa Pig! Se i nostri bimbi ora saltano nella prima pozzanghera che vedono con le scarpine nuove di tela lo dobbiamo a questa specie di porcus erectus in gonnella che peraltro grugnisce di continuo e, se non hai mai visto una sola puntata del cartone in tv, nel seguirla per la prima volta potresti addirittura credere di essere al cospetto di un gruppo di rosei ruttatori seriali! Tranquilli, si tratta solo di una famiglia di porci….oddio, detta così….di male in peggio…“Tutti amano saltare nelle pozzanghere!” Dovrò abituarmi a questo mantra ed esser per nulla irriverente nei confronti di questo nuovo Montezuma suino che arriverò sicuramente a venerare durante l’ora della pappa di Arianna e al momento della sua messa a letto…mai più a Natale oserò mangiare il cotechino con le lenticchie, sia sempre lodata la Peppa! Il mondo di questa Peppa è colorato, accogliente, minimalista ed anche le sue storie sono talmente semplici ed allegre che non lasciano mai trapelare valori ambigui o sbagliati…già, i valori…ora che sto per diventare padre di una femmina sento il concetto ancora più liturgico e solenne. Noi che siamo padri, i primi – fuorvianti – rappresentanti di quel genere maschile che inevitabilmente le farà soffrire e piangere, cosa dovremo insegnare alle nostre figlie, donne e madri del domani?! Soprattutto in questo periodo di grande sensibilizzazione delle donne nei confronti della violenza subita, dei maltrattamenti e contro la pacifica rassegnazione a tutto questo, come possiamo, noi, ritagliar loro un ruolo di attiva affermazione?! E' passato il secolo in cui l’altra metà del mondo si doveva subordinare in virtù della superiorità maschile, è passata l'epoca del sacrificio a prescindere, eppure molte donne, anche giovanissime, non riescono a capire la differenza tra amore e violenza, tra amore e dipendenza, tra amore e stronzaggine e cattiveria e vigliaccheria e piccolezza e abuso. Su internet ultimamente sta circolando il pensiero di un anonimo autore che, sul tema, pare dare un illuminante supporto pur nella sua banalità, dicendo più o meno questo: Dobbiamo insegnare alle nostre figlie a riconoscere la differenza tra un uomo che la sta adulando e uno che si sta congratulando con lei un uomo che spende soldi per lei ed un uomo che investe in lei un uomo che vede lei come una proprietà e un uomo che le osserva attentamente un uomo che la desidera e un uomo che l'ama un uomo che crede di essere un dono per le donne e un uomo che crede che lei sia un dono per lui e poi dobbiamo insegnare ai nostri figli maschi a diventare questo tipo di uomo! Mi auguro di potervi riuscire, di certo io sarò lì sulla riva ad insegnare a mia figlia come navigare ma sarà poi lei a prendere il mare, ad intraprendere la sua rotta seguendo la corrente che riterrà più favorevole…dovrò limitarmi a vederla diventare un puntino lontano e sperare di esser stato un valido insegnante. Questa sera Mary è a cena dai suoi genitori ed io, solo a casa, me ne sto comodamente seduto sul parquet al centro del salone – gambe incrociate e palmi appoggiati al pavimento – mentre mi guardo attorno fra il malinconico e il divertito sulle note di un rilassante motivo lounge. Sembra ieri che sono entrato nel mio piccolo reame, pronto per affrontare quella sfida che mi fece diventare qualche mese dopo avvocato. In quel periodo vissuto in solitario, crebbi come uomo e sentii che quello era il posto giusto per cambiare pelle, mi innamorai quasi subito di questa casa e di ogni suo angolo. Sembra ieri eppure sono passati sei anni da allora. Sei anni nei quali a tratti siamo diventati complici io e la mia casa. Il re ed il suo castello, il predatore e la sua tana travestita da golosa esca, lo scrigno e il suo tesoro. A volte mi sono sentito il Richard Gere di American Gigolò quando, in boxer ballavo come un pazzo per le stanze un pezzo rock, altre invece il capitano Achab che scruta l’orizzonte dal ponte della sua Pequod quando nelle notti insonni aprivo le finestre ed appoggiato al davanzale interrogavo le stelle. Chi me la vendette disse “questa casa porta bene” ed io…bè, non so come dirlo, sin dal principio l’ho percepita come il mio porto sicuro ed è come se captassi un benevolo calore che risponde al mio affetto nei suo confronti. Ci sto davvero bene qui dentro. Poi un giorno in questa casa entrò chi più di ogni altra sembrava tagliata per essa, lo sentii e, forse, lo sentì anche il mio piccolo regno che improvvisamente divenne ancor più accogliente del solito. In poco tempo le sue stanze cominciarono a colorarsi grazie a qualche morbida stoffa, a dei cuori di legno dipinti a mano, a dei gatti in ceramica infiocchettati con nastrini ricamati….e grazie a tanti nuovi sorrisi….si addolcì la mia casa e si addolcì la mia vita e ci ritrovammo in due a salutare i caldi tramonti che indoravano il parco che si apre davanti alle finestre del salone e a rimanere a bocca aperta mentre, avvolti in una coperta di lana, ammiravamo, attraverso quegli stessi vetri, la neve che imbiancava il viale di casa. Lentamente un esercito di scarpe armate di tacco e sfavillanti vestiti conquistò i miei spazi in una rovinosa avanzata costellata di catastrofici incidenti domestici che hanno poco a che fare con quella che dovrebbe esser la tipica delicatezza femminile…ma siamo comunque sopravvissuti, io e la mia casa, che ora culla anche le notti di Maria Luisa, la illumina con il suo calore salutandola al mattino e ride con lei mentre ballo una sigla televisiva o scimmiotto qualche famoso cantante. Mi volto a sinistra ed una pigotta dai capelli rossi mi sorride da una sedia, poi mi volto a destra, una tutina rosa si stiracchia sul tavolo, e laggiù, sulla cassapanca c’è un paio di calzettini bianchi ricamati a mano, infine, non riesco a trattenere un rassegnato sorriso quando vedo il fasciatoio di Arianna che ormai ben si sposa col resto dell’arredamento del salone. E’ incredibile, riflettere su tutto quello che sta accadendo, ancora oggi non mi pare vero, la mia vita continua a mutare in maniera imprevedibile ma sempre su questo caldo palcoscenico, ancor più addolcito dal rosa-donna, che presto sarà calcato da nuovi piccoli piedini. Ora però la radio sta mandando Glory Days di Bruce Springsteen e sono i miei di piedi a reclamare le luci della ribalta, alzo il volume, come ai vecchi tempi e mi lascio invitare al ballo da questo piccolo castello del quale resto pur sempre il sovrano indiscusso e allegramente brindo ai miei giorni gloriosi, da quelli di ieri trascorsi a studiare nel cuore della notte, fino a quelli di oggi scanditi dai passi di una dolce fiaba. Ballo da solo come uno scemo, ridendo, abbracciando il me che fui e il me che sarò, ballo e canto da solo ma non sentendomi solo, mi muovo con le proiezioni del mio mondo, scherzo con Arianna mentre Mary ci applaude dal divano ed i miei ci sorridono divertiti. Ballo e canto col sorriso di questa casa che mai mi ha abbandonato e che tanto somiglia al mio sorriso. Il re balla solo nel suo castello stanotte….si sente felice il re….viva il re!
|
AREA PERSONALE
CONTATTA L'AUTORE
Nickname: pmarogna
|
|
Sesso: M Etą: 47 Prov: RM |
Inviato da: Mamma_Aua
il 08/07/2013 alle 19:34
Inviato da: LaTuaMamma5
il 13/06/2013 alle 09:54
Inviato da: pmarogna
il 12/06/2013 alle 18:12
Inviato da: LaTuaMamma5
il 12/06/2013 alle 17:17
Inviato da: gaza64
il 27/05/2013 alle 22:09