Creato da anchise.enzo il 30/01/2012

Mondo contadino

Civiltà contadina molisana

 

 

IN COLONIA AL SEMINARIO VESCOVILE

Post n°53 pubblicato il 15 Marzo 2012 da anchise.enzo

Eravamo in duecento circa, ospiti del seminario di via Mazzini. La giornata di quel mese di colonia iniziava e finiva con l’alzabandiera, come in caserma, mentre in coro cantavamo l’inno di Mameli.

La corriera di Santoro ci attendeva al mattino, per condurci nel boschetto Barone, a ridosso del cimitero cittadino. Quattro signorine sorvegliavano le squadre formate da venti ragazzi ciascuna, lasciandoci liberi di giocare nel bosco. Certo non ci annoiavamo. Un giorno, sotto un albero, trovammo armi e bombe, sotterrate dai tedeschi in fuga. Tornavamo per il pranzo, imbandito nell’immenso refettorio con fagioli in scatola, farina, marmellata, biscotti, cioccolata…, tutti con il marchio a stelle e strisce del Piano Marshall.

Nel tardo pomeriggio si passeggiava per via XXIV Maggio, non ancora fitta di case e palazzi, oppure per la campagna, nei pressi del Foro Boario. In fila per due, il serpentone di bambini, con i curiosi vestitini da puffi, faceva tenerezza ai passanti. Ai più sfortunati capitava di ammalarsi di morbillo o scarlattina e di passare la colonia a letto, in quarantena, negli oscuri stanzoni del terzo piano.

Al rientro dalla passeggiata, assistevamo alla messa, nella cappella vescovile, fissi gli sguardi all’ampia vetrata istoriata dell’abside. Durante la guerra era stata mandata in frantumi dall’unica bomba che aveva colpito la città, uccidendo mons. Secondo Bologna, l’arcivescovo di Campobasso, proprio mentre celebrava la messa.

A sera, nell’angusto cortile quadrato dove a stento riuscivamo a vedere il cielo stellato, le signorine e i novizi ci raccontavano storie di santi, più o meno edificanti. Il vescovo Carinci, l’austero successore di mons. Bologna, se ne restava chiuso nei suoi uffici. Quando scendeva le ampie scalinate del seminario, non mancava mai di rimproverarci per il chiasso assordante.

Avevo solo otto anni quando fuggii dal seminario, in un torpido pomeriggio, per raggiungere il tabaccaio, comprare una cartolina postale e scrivere poche righe ai genitori, esortandoli a venirmi a liberare da quell’inferno.

Non poterono farlo. Me ne resi conto all’indomani quando la direttrice mi invitò nel suo ufficio. Mostrandomi la cartolina (nella mia ingenuità, avevo invertito gli indirizzi: in quello del destinatario avevo scritto quello del mittente), la matura e severa signorina Pasquale mi chiese perché avevo definito la colonia un inferno. Non voleva sapere altro. Arrossii e piansi, chiedendo scusa, ma non bastò.

All’inferno mi ci mandò davvero, per punizione. E lì, nel magazzino sotterraneo, dove scorrazzavano ratti enormi, piansi tutto il giorno, per colpa di quella cartolina che aveva preso la direzione sbagliata.

 
 
 

IL CAPRETTO DEVOTO

Post n°54 pubblicato il 15 Marzo 2012 da anchise.enzo

Era in uso in paese, almeno fino alla seconda guerra mondiale, benedire gli animali domestici. L’occasione canonica sarebbe dovuta essere la festa di sant’Antonio Abate, il 17 gennaio, e in questa data mi piace ricordarla, anche se i frati minori, sostituendo alla devozione per l’antico eremita quella per sant’Antonio di Padova, francescano come loro, la benedizione la impartivano il 13 giugno.

Sul sagrato del convento era tutto un tripudiare di capre e pecore, qualche maialino, asini, muli, cavalli… I contadini cercavano di tener quiete le bestie legandole con le corde agli anelli metallici infissi nel muro, o carezzandole con le mazze di "ranello", le cosiddette "sagliocche", che ammansivano anche le più irrequiete.

La cerimonia prevedeva che, durante la celebrazione della messa cantata, officiata da tutti i frati, il padre guardiano si affacciava sul sagrato e benediva tutta quella massa di povere bestie che con belati, ragli, nitriti, muggiti, scampanio dei campanacci al collo, unitamente ai latrati dei cani di guardia, creavano un’atmosfera assordante e caotica.

Mio nonno mi raccontava che da giovane fu testimone di un episodio singolare. Un ragazzo molto povero, approfittando della gran confusione, si era impossessato di un capretto che aveva nascosto nel confessionale. Per la fretta non era riuscito a imbavagliarlo opportunamente, sicché, dopo un po’ i belati disperati che provenivano dal confessionale richiamarono l’attenzione dei fedeli. Com’era giusto, dell’accaduto si rise e qualcuno coniò un nuovo detto: "U peccate du mariule l’ha cunfessate u crapitte!" (Il peccato del ladro l’ha confessato il capretto).

 
 
 

IL GALLO DEL CONVENTO

Post n°55 pubblicato il 15 Marzo 2012 da anchise.enzo

I monaci avevano una grandiosa cucina. Dal paese vi approdava ogni ben di dio e fra Nicola, il questuante, era particolarmente felice. Aveva avuto in dono un bel gallo, che il padre guardiano non volle cucinare subito ma ingrassare per poterlo gustare in occasione delle imminenti feste natalizie.

Ogni volta che fra Nicola mandava il figlio del fornaio a ritirare le uova nella stalla del convento era dura per quel povero ragazzo. Il gallo improvvisamente gli piombava in testa, beccandolo a sangue. Il poveretto tornava a casa piangente e terrorizzato. Il fatto curioso era che quel gallo non aggrediva nessun altro. Insomma ce l’aveva con lui.

Fu così che pensò di vendicarsi. Si munì di tagliola, vi pose l’esca di grano e attese. Dapprima la tagliola colpì una innocente gallina ma dopo qualche minuto scattò finalmente per il gallo, che cominciò a fare un baccano del diavolo. Impaurito per l’arrivo dei monaci, il ragazzo lo colpì alla testa con una pietra per zittirlo. Ma il gallo reclinò la testa esanime, lasciando stupefatto il ragazzo, che per non lasciare il corpo del reato in bella mostra, decise di infilarlo dentro un sacco di iuta e portarselo a casa. Tremava per l’accaduto e di più per i rimproveri che gli avrebbe mosso il padre. Costui, invece, lo elogiò con ironia: "Finalmente qualcuno provvede a farmi mangiare carne".

Qualche anno dopo il figlio del fornaio si preparò piamente alla prima comunione. Davanti al confessore, l’arcigno padre Alfonso, non seppe nascondere l’antico misfatto. Il frate, astutamente, per penitenza non lo obbligò a recitare le solite avemarie ma gli impose di riportare un gallo in convento.

Se qualcuno crede che il racconto sia frutto di fantasia, si accomodi: sono pronto a fargli vedere le vistose cicatrici lasciatomi in testa da quel gallo.

 
 
 

LINUCCIO NEL POZZO

Post n°56 pubblicato il 15 Marzo 2012 da anchise.enzo

A ridosso del muraglione del convento, nel mezzo del crocicchio di strade per il cimitero, vi era un pozzo in disuso, dove si buttava di tutto, anche prosciutti andati a male che galleggiando sul fondo emanavano miasmi insopportabili. Un giorno quel pozzo divenne meta di un frenetico via vai.

A noi ragazzi piaceva quell´area spaziosa dove, in mezzo a una fratta, avevamo costruito una "capanna" di rovi. Eravamo intenti a giocare a "gatta a nascondere", quando Peppe sentì un fragoroso tonfo provenire dal pozzo. Avendo già stanati gli altri dai nascondigli e rimanendo nascosto solo il fratello, il ragazzo ebbe un presentimento. Cominciò a supplicare ad alta voce: "Esci, Linuccio, ti scongiuro. Esci  fuori". Di qua, di là: inutilmente. Sicchè all’improvviso si mise a correre e a gridare come un ossesso: "Linuccio è caduto nel pozzo, Linuccio è caduto nel pozzo".

Sbalorditi dalle sue urla isteriche, noi a chiedergli se davvero l´avesse visto cadere nel pozzo, e lui a urlare che aveva sentito un gran tonfo. Allora demmo l´allarme tutti, attirando l´attenzione degli adulti che dal paese arrivarono numerosi, qualcuno munito di grappa, magari immaginando di ripescare Linuccio con quegli uncini.

Mentre si accalcavano intorno al pozzo, io non resistetti all’emozione e feci ritorno in paese in lacrime. Davanti alla casa dello sfortunato ragazzo, ebbi una visione. Intento a divorare una gran fetta di pane abbrustolito con olio e sale, Linucciò era lì.

Assalito dalla fame, aveva deciso di tornarsene a casa a fare merenda, senza avvertire nessuno, tantomeno suo fratello che, all’udire il gran tonfo, aveva pensato a una disgrazia  e non all´ennesimo contadino che si sbarazzava dell´ennesimo prosciutto andato a male.

 
 
 

LA PISCINA DELLA COSTRUENDA SCUOLA

Post n°57 pubblicato il 15 Marzo 2012 da anchise.enzo

 

 

Nei primi anni Sessanta, la scuola ricavata nel vecchio municipio dovette essere necessariamente chiusa. C’erano vistose crepe dappertutto. Fu per tale motivo che un anno scolastico, noi scolari lo trascorremmo, almeno fino a novembre, per le campagne di Toro. Ogni scolaresca si prendeva un proprio spazio: la signora Doretta prediligeva l’area sotto la vecchia quercia di Caranello, il maestro Paoletti immancabilmente vicino alla quercia di costei. Le querce non si cercavano ma i loro abitatori sì, sempre. Solo la maestra Giovanna amava appartarsi lontano, fino al casino dei Magno. Studiare all’aperto era molto bello ma ci si distraeva facilmente. Passavano i contadini presso le scolaresche all’aperto che pretendevano salutare i propri figli o nipoti, donando a volte anche della frutta da mangiare.

Fu questa singolare situazione ad accelerare la costruzione della nuova scuola, fuori dal paese, lassù, vicino al convento. Scavate le ampie fondazioni, la costruzione della scuola fu in seguito inspiegabilmente bloccata. Passarono mesi e quelle fondazioni si riempirono d’acqua. Non ci sembrava vero, a noi ragazzi, che potessimo avere delle piscine vicino casa e quelle pozzanghere divennero la nostra attrazione maggiore. Non era acqua corrente e pulita, perché stagnante, quindi anche maleodorante: ma a noi piccoli la cosa non interessava, a noi faceva comodo sguazzare nell’acqua per nuotare in qualche modo.

Avvenne un giorno che al figlio del fornaio furono sottratti tutti i suoi poveri abiti, mutande comprese, mentre felice era intento a nuotare. Appresa la notizia del grave furto, rimase nell’acqua fino a sera e non voleva uscirne perché si vergognava delle sue nudità. Intanto accorsero anche tante bimbe che lo prendevano in giro. Cominciava a far freddo ma lui non voleva saperne di tornare a casa ignudo.

Saputa dell’ imbarazzante situazione del nipote, la zia del nuotatore, impaurita che costui potesse ammalarsi in quelle condizioni, si precipitò presso la scuola in costruzione. Fu salutata dalle urla divertite dei ragazzi, che sempre più numerosi assistevano e alla scena inusuale. La zia ingiunse al ragazzo di uscire dall’acqua, ma il ragazzo non ne voleva sapere affatto di uscire nudo da quel pantano. Spazientita, la zia lo afferrò per i capelli e, presa una carriola dal vicino cantiere, lo caricò sopra e trionfalmente si avviò verso il paese. Lei alla guida della carriola, il nipote nudo sopra, e uno stuolo di ragazzi divertiti che seguivano in processione il curioso corteo. Inutile dire che quella oscena processione al ragazzo non faceva piacere perché non gli piaceva mostrarsi, ora da dietro, ora davanti, ignudo, sulla fredda carriola. Solo del fango lo rivestiva a tratti, ma non bastava a nascondere le nudità. La zia, esausta dopo il lungo e trionfale percorso, scaricò il ragazzo sul ballatoio di casa e con una potente pompa provvide ad irrorare e pulire dal fango il nuotatore, tra le risate della piccola folla.

Da quel giorno, il figlio del fornaio non avvertì più alcun pudore per le sue vergogne, ormai queste erano note a tutti in paese.


 
 
 

CONFERENZA COL PRESIDENTE REGIONALE

Post n°61 pubblicato il 15 Marzo 2012 da anchise.enzo

Toro (Campobasso): Mostra etnografica della civiltà contadina, Cantina Pietrantuono, via Sotto le Case, Toro, tel. 0874-69583. Aperta ufficialmente nella seconda quindicina di agosto ma a richiesta il signor Colledanchise è lieto di aprire la mostra anche negli altri periodi dell'anno. Ingresso gratuito.
Realizzata da Vincenzo Colledanchise, la raccolta privata ospita centinaia di utensili, attrezzi da lavoro, abiti d'epoca, santini, oggetti e statue di pietà popolare.

Le Giornate del Patrimonio a Toro tra molte luci (e qualche ombra)
 Sabato e domenica di fine settembre 2008. Organizzate anche a Toro iniziative valide per le Giornate Europee del Patrimonio. Sono state promosse da Ludovico Cutrone con il patrocinio del Comune e il coinvolgimento di associazioni e stuidosi toresi.

In particolare, sabato 27 settembre c'è stata la conferenza sui mestieri tradizionali, animata da Vincenzo Colledanchise cui ha fatto seguito l'inaugurazione della collezione etnografica di proprietà dello stesso Colledanchise, alla presenza del Sindaco di Toro, Angelo Simonelli, e del Presidente del Consiglio regionale, Mario Pietracupa.


Sabato 27 set 2008, al tavolo dei relatori Vincenzo Colledanchise, Angelo Simonelli, Mario Pietracupa e Lino Santillo


Lino Santillo, moderatore


Il sindaco di Toro Angelo Simonelli


Mario Pietracupa, Presidente del Consiglio Regionale


Vincenzo Colledanchise, relatore sui mestieri tradizionali


Parte del pubblico presente nell'Oratorio


Inaugurazione della mostra etnografica di Vincenzo Colledanchise




Vincenzo illustra la sua copiosa raccolta di utensili, attrezzi del passato e segni della pietà popolare



 
 
 

PELLEGRINAGGIO

Post n°65 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo

                                        

          I FEDELI  SI RIUNIVANO SOTTO LA GUIDA DI UN CAPO, DETTO 'U PRJIORE, SI METTEVANO 'N GOPPE 'I SPALLE 'A V'SAZZE  (SULLE SPALLE LA BISACCIA) PIENA DI PROVVISTE E PARTIVANO VERSO I SANTUARI.

                    LE METE ERANO SOPRATTUTTO IN PUGLIA: A S. MICHELE ARCANGELO SUL GARGANO, S. NICOLA A BARI E ALL'INCORONATA DI FOGGIA.

     OPPURE IN CAMPANIA: ALSANTUARIO DELLA  MADONNA DI MONTEVERGINE E A QUELLO DELLA MADONNA DI POMPEI .

         I PIU' POVERI, I PIU'  DEVOTI E I PIU' RESISTENTI ANDAVANO A PIEDI; I PROPRIETARI DI ANIMALI CAVALCAVANO  LE LORO BESTIE DA SOMA; GLI ALTRI ANDAVANO A PAGAMENTO SUL CARRO.

            'U TRAINE TRASPORTAVA FINO A 40 PERSONE SU 'I TAV'LUNE ( GOSSE ASSI DI LEGNO):          I PIU' GIOVANI SI SEDEVANO DIETRO CON LE GAMBE CIONDOLONI.

           IN TEMPI PIU' RECENTI SONO STATI UTILIZZATI PRIMA GLI AUTOCARRI, POI LE AUTOCORRIERE.

          DURANTE I PERNOTTAMENTI I PELLEGRINI DORMIVANO QUASI TUTTI NELLE CASE PRIVATE, SOPRA I SACCHI DI PAGLIA.

             IL VIAGGIO DEI PELLEGRINI CHE SI RECAVANO AL SANTUARIO DI S. MICHELE ARCANGELO DURAVA UNA SETTIMANA.

SI PARTIVA LA MATTINA PRESTO, DOPO AVER ASSISTITO ALLA S. MESSA E AVER RICEVUTO LA BENEDIZIONE. I PELLEGRINI SI METTEVANO IN PROCESSIONE E CANTAVANO LE LITANIE, POI, ALL'USCITA DEL PAESE, NEI PRESSI DELLA MASSERIA BENIAMINO, AVVENIVA LO SCAMBIO DEI SALUTI TRA CHI PARTIVA E CHI RESTAVA.

           LA PRIMA FERMATA ERA PRESSO LA TAVERNA DI PIETRACATELLA: I PELLEGRINI MANGIAVANO, MENTRE GLI ANIMALI RIPOSAVANO.

         SULLE SALITE RIPIDE 'I TRAINE POTEVANO TRASPORTARE SOLO LE PERSONE ANZIANE O PIU' DEBOLI.

GIUNTI AL SANTUARIO, SEMPRE COL CANTO DELLE LITANIE, FACEVANO TRE GIRI INTORNO ALLA CHIESA E DOPO AVER COMPRATO LE CANDELE DA DONARE AL SANTUARIO, IN GINOCCHIO ENTRAVANO DEVOTAMENTE.

    AL RITORNO DAI SANTUARI, I FEDELI FORMAVANO UNA PROCESSIONE, LE DONNE AVANTI, GLI UOMINI DIETRO. SI ANDAVA UNO PER FILA E OGNUNO PORTAVA UNA CANDELA, MOLTE VOLTE DIPINTA DI FIORI. INIZIAVA IL CORTEO UNA PERSONA CHE PORTAVA LO STENDARDO CON CUI DAL PAESE SI ERA VENUTI INCONTRO AI PELLEGRINI, SEGUIVA QUINDI IL CROCIFISSO  DELLA COMITIVA. SI CANTAVANO LE LITANIE, UNO CANTAVA DA SOLITA,TUTTI GLI ALTRI FEDELI RISPONDEVANO IN CORO "ORA PRO NOBIS".

    LE PERSONE CHE ANDAVANO AI SANTUARI ERANO SPINTE DALLE MOTIVAZIONI PIU' DIVERSE. PRIMA DI TUTTI VI ERANO LE GIOVANI COPPIE DI SPOSI, CHE ANDAVANO AD INVOCARE UNA BUONA FIGLIOLANZA, E I FEDELI CHE AVEVANO UN VOTO DA SCIOGLIERE. ALTRI PELLEGRINI SI DIRIGEVANO AI SANTUARI PER MOTIVI PIU' PROFANI.

        DOPO AVER SEMINTAO IL GRANOTURCO, IN ATTESA DELLA RACCOLTA DEL GRANO,SI CONCEDEVANO UNA "PAUSA DI PIACERE".

       NONOSTANTE LE SEVERE CONDANNE DELLE PERSONE PIU' DEVOTE, PER LA MAGGIOR PARTE IL VIAGGIO COSTITUIVA UN' OCCASIONE DI DIVERTIMENTO, ANCHE SE SOTTO AGIVA LA SPINTA  DI UNA FEDE PIU' O MENO RUDIMENTALE.

 

**********

          AL TRAINERE (GUIDATORE DEL CARRO) IL VINO  VENIVA OFFERTO DAI PELLEGRINI. SI RACCONTA CHE UNA VOLTA, LA COMPAGNIA DI MONTAGANO ERA TRASPORTATA DA 'NU TRAINERE DI NOME MICHELE. I SUOI COMPAESANI CANTAVANO "MICHELE ! VIVE SANT' MICHELE !", E LUI INTANTO BEVEVA…BEVENDO E BEVENDO SI UBRIACO' E INCOMINCIO' AD ANDARE FUORI STRADA.

   " E MO' CHE FAI" ?, GLI CHIESERO SPAVENTATI I PELLEGRINI. " E VVU' AVETE DITTE: VIVE MICHELE ! E I' V'VEVE.." RISPOSE ALLEGRAMENTE U' TRAINERE.

 

 

  

 

 

 
 
 

IL MALOCCHIO

Post n°66 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo

Il malocchio era l’azione malefica per eccellenza. Si manifestava con acuti e lancinanti dolori di testa. L’azione era spontanea e non legata alla volontà dell’individuo che lo emanava. Anche un complimento, non accompagnato dalla formula “Dio ti benedica”, poteva causare un malocchio. I rimedi più usati erano l’utilizzo dell’acqua e dell’olio, oppure acqua e carboni.
Nel primo caso si facevano cadere in un piatto pieno d’acqua delle gocce di olio e se queste si allargavano era in atto il malocchio. Nel secondo caso la presenza dell’azione malefica era indicata da carboni accesi che, immessi in una tazza colma d’acqua, andavano a fondo. In entrambi i casi la ritualistica imponeva che dopo la preghiera di accompagnamento il paziente sorseggiasse l’acqua utilizzata.
Il formulario delle preghiere poteva essere vario. Dalla lettura di carte d’archivio è possibile conoscerne alcune:
“Io Angelica Lombardo vedova d’anni quarantacinque in circa denuncio, e dichiaro con giuramento, come da molti, e molti anni in tempo che viveva il mio marito mi imparò un secreto su incanto contro il mal d’occhi, con le parole che seguono:
“Si e’ stat zitella iettala per terra, se è stata vedova iettala per la selva, se è stata maritata iettala per la casa”, e così dicendo con strisciare le dita agli occhi, con dire anche sette Pater, et Ave, e sette Gloria Patri, ad honore della Santissima Trinità, “senza spiegar altro passa il male d’occhi”… (Archivio Cattedrale di Campobasso - Documento citato).

 
 
 

LO STRANO MANIFESTO IN PIAZZA

Post n°67 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo


Un giorno , in tutte le piazze d’Italia, e quindi anche nella piazza di Toro, si ebbe a leggere uno strano manifesto che, a caratteri cubitali, riportava quanto segue:
“ Per l’adempimento della legge, nell’interesse della Patria in armi, vostro e dei vostri familiari, prendete visione degli affissi manifesti contenenti il testo del decreto 27/2/42 del Sottosegretario di Stato per le Fabbricazioni di Guerra relativo alla requisizione dei manufatti in rame.
Nel manifesto sono indicate la data e la gradualità alfabetica dell’ordine di requisizione nel Centro di Raccolta in questo Comune sito presso la Casa del fascio.
I detentori di manufatti di rame soggetti a requisizione che, non osservando i termini di consegna sopra indicati, venissero a trovarsi ancora in possesso dei manufatti stessi successivamente alla chiusura del Centro di Raccolta, verranno senz’altro deferiti all’Autorità Giudiziaria, a norma della legge 8 luglio 1941- XIX n. 645 ”.

La requisizione riguardava tutti i tipici oggetti per uso familiare: tine, conche,mestoli, caldaie da bucato e da mosto, bracieri,brocche, scaldini, ecc. ecc.,
Nella casa del Fascio, presso l’Annunziata, furono depositati quintali di oggetti in rame, ma qualche donna aveva astutamente celato la sua tina, qualcun'altra “u’ manire” , qualcun’ altra la cottora che serviva per la salsa e il mosto, che furono recuperate dai fondaci o dalle campagne alla fine del fascismo.

A Pietracatella ci fu una vera e propria sommossa popolare atta ad impedire la consegna della tina e del paiolo e solo l’intervento del Commissario Prefettizio scongiurò il peggio.
Da Montagano si domandava al Prefetto di specificare se la tina per attingere l’acqua dovesse effettivamente essere consegnata, considerando che i pozzi sono tutti a grande distanza dal paese.
Da Casacalenda il Podestà manda al Prefetto l’istanza della Signora Marietta Sensibile per “esonero consegna caldaia di rame” in quanto la donna svolge la professione di lavandaia e che quell’oggetto è indispensabile al mestiere che esercita, che rappresenta la sua unica fonte di sostentamento.

Un bando successivo permise che si requisissero anche le ringhiere in ferro, come quella di inizio di Via Roma, al cui posto fu installato un imponente ballatoio in legno, ma fu fortunatamente salvata quella lunga, robusta ed elegante montata sul Barbacane.
L’intervento diretto dei Trotta, che avevano la casa protetta da quella bella inferriata, costruita e montata dai bravi fabbri toresi, dovette essere decisivo per non doverla sacrificare per i cannoni della patria, e dobbiamo rendere merito a loro se ancora possiamo ammirarla.

 
 
 

IL MALOCCHIO

Post n°68 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo

IL MALOCCHIO

 

Il malocchio era l’azione malefica per eccellenza. Si manifestava con acuti e lancinanti dolori di testa. L’azione era spontanea e non legata alla volontà dell’individuo che lo emanava. Anche un complimento, non accompagnato dalla formula “Dio ti benedica”, poteva causare un malocchio. I rimedi più usati erano l’utilizzo dell’acqua e dell’olio, oppure acqua e carboni.

Nel primo caso si facevano cadere in un piatto pieno d’acqua delle gocce di olio e se queste si allargavano era in atto il malocchio. Nel secondo caso la presenza dell’azione malefica era indicata da carboni accesi che, immessi in una tazza colma d’acqua, andavano a fondo. In entrambi i casi la ritualistica imponeva che dopo la preghiera di accompagnamento il paziente sorseggiasse l’acqua utilizzata.

Il formulario delle preghiere poteva essere vario. Dalla lettura di carte d’archivio è possibile conoscerne alcune:

“Io Angelica Lombardo vedova d’anni quarantacinque in circa denuncio, e dichiaro con giuramento, come da molti, e molti anni in tempo che viveva il mio marito mi imparò un secreto su incanto contro il mal d’occhi, con le parole che seguono:

“Si e’ stat zitella iettala per terra, se è stata vedova iettala per la selva, se è stata maritata iettala per la casa”, e così dicendo con strisciare le dita agli occhi, con dire anche sette Pater, et Ave, e sette Gloria Patri, ad honore della Santissima Trinità, “senza spiegar altro passa il male d’occhi”… (Archivio Cattedrale di Campobasso - Documento citato).

 
 
 

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