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UN SENSO DI PACE

Post n°103 pubblicato il 05 Gennaio 2010 da fittavolo

Il lungo viale stava per essere avvolto dal buio. La luce dei lampioni a fatica giungeva sull’asfalto, gli alberi che coronavano la strada, erano ostacoli difficili da penetrare. L’umidità emergeva dal suolo formando una coltre bianca alta un metro. Da lontano pareva una coperta d’ovatta e mi impediva la visuale, in lontananza distinguevo solo la sommità del monumento. Proseguivo lentamente assorto nei miei pensieri. Mi è sempre piaciuto passeggiare col freddo, nel buio, verso una meta non precisa. Ormai era passata un’ora da quando lasciai casa. Erano le 17.00 del primo giorno dell’anno corrente, 2010, ma poteva essere benissimo un capodanno qualsiasi, tanto per me sono stati tutti uguali, da quando è nata mia figlia. Sette anni fa, ero in ospedale accanto a mia moglie, a sorridere con lei per il lieto evento. Era un fagottino dal peso di tre chili e rotti, tutta raggomitolata come se stesse ancora nella pancia di sua madre. Ricordo il nostro primo incontro, me la porse un’infermiera, mentre ero accanto a Luisa, dolente per il cesareo subito. Aveva i capelli neri e ricci, gli occhi di un nero luminoso, il viso era tondo completamente arrossato, sembrava mia suocera in miniatura. Al principio ebbi un attimo di sconforto, avrei voluto tanto che assomigliasse a sua madre, la più bella donna che avessi mai conosciuto. Ho pensato ad uno scherzo della natura, e mentre lo pensavo, già mi ero rassegnato a quel visino tanto simile a sua nonna. Invece sono bastati pochi giorni, il tempo di permanenza in ospedale, per cambiarle completamente aspetto. Le similitudini che richiamavano con prepotenza la madre di mia moglie, si dissolsero nell’aria: ad ogni ora la sua faccia cambiava, mutava e assomigliava sempre di più a quel viso scolpito dai miei desideri nella mente e aveva la stessa grazia di Luisa. Ma erano piccoli particolari insignificanti, la nuova arrivata aveva già un suo spazio nella mia vita.
I pensieri volavano lungo il viale, mentre il freddo si faceva pungente. Stretto al mio cappotto proseguivo, passo dopo passo, verso l’ingresso del camposanto. Crespi d’Adda era un bel borgo, tanto frequentato d’estate quanto deserto d’inverno, era un luogo che non aveva mezze misure, ma mi è sempre piaciuto. Il suo piccolo cimitero, per via di una costruzione posta al suo centro che richiamava un tempio Maya, era una dei posti più visitati. Giunsi all’ingresso che ormai era buio. Due enormi fari situati al lato opposto, illuminavano il luogo. Puntavano direttamente sul cancello e ne ero abbagliato. Prima d’entrare notai sulla cancellata un’insegna con scritto “chiusura automatica”. Allora controllai l’orario di chiusura, le 17.30. Ero già stato altre volte in quel posto, però sempre d’estate. Spinto da chissà quale forza sentivo il bisogno di entrare, era un impulso irresistibile che non sapevo spiegare. Non avevo né parenti né amici sepolti lì, ma ricordavo di tante lapidi con dei nomi e delle date, date molto ravvicinate. Alcune avevano anche la foto. Erano la culla eterna di tanti bambini. Erano i primi defunti che incontrai in quel cimitero, seppelliti direttamente nel terreno, forse con delle semplici casse o addirittura senza, e le lapidi ne precisavano il posto esatto. Tutti deceduti all’inizio del secolo scorso, tanti dopo pochi mesi di vita, qualcuno dopo pochi anni. Figli di operai e contadini, gente povera. Notai con stupore qualche vasetto con dei fiori ai piedi di qualche lapide, un segno di un loro lontano parente ancora in vita, un loro nipote figlio di qualche fratello o sorella più fortunati. Ma la cura della maggior parte dei pargoli defunti era affidata al Comune che periodicamente faceva tagliare il prato. Fissai una delle foto, era di un bambino di pochi mesi, era steso sul letto forse quello dei suoi genitori e aveva gli occhi chiusi. Allora immaginai tanta gente intorno a quel triste giaciglio, una madre e un padre schiacciati dal dolore, i nonni rassegnati dal tempo alla sofferenza, costretti ad accettare ancora una volta il peso di una perdita. Era già morto quando fu scattata la foto, chissà quanto costò questo inutile ricordo sbiadito. Ma il mio era solo un pensare senza conoscere, un’analisi fatta matematicamente, fredda. Forse quella foto era stata l’unica consolazione dei suoi genitori, tante volte pulita negli anni, come se fosse stato il caldo viso del loro figliolo; forse era stato l’unico motivo che aveva tenuto acceso il ricordo e dato loro forza. Mentre mi lasciavo trascinare dalle mie supposizioni su quelle vite annullate, sentivo un forte senso di pace. Non avevo più freddo e non avevo bisogno di nulla. La morte era al mio fianco e faceva sentire la sua presenza. La morte era la completa assenza del bisogno, un senso liberatorio di me stesso. Guardai le mani, le girai due, tre volte, volevo constatarne l’esistenza. Erano fatte di carne, io ero fatto di carne. La carne ha dei bisogni, ma in quel momento non ne aveva. In quel momento il corpo non esisteva, era annullato dal senso di leggerezza che percepivo nel stare in quel luogo, nel stare con i morti. La pace aleggiava intorno a me, ne percepivo la presenza e non la contrastavo in nessun modo. Stavo bene e non volevo più andare via.
Il rumore di passi nella ghiaia era netto e preciso. La persona che si stava avvicinando era una donna di mezza età, aveva lasciato al cancello un uomo, forse suo marito. Mi passò alle spalle e rallentò il passo quando mi girai a guardarla.
“Finalmente incontriamo qualcuno, Crespi sembra un paese fantasma” mi disse.
Osservai le sue mani, aveva i guanti, sulla testa un cappello e un’ampia sciarpa fasciava il suo collo. La fissai con stupore.
“Ma cosa dice! Questo posto è così popolato” le dissi.
Si fermò e resto in silenzio il tempo necessario per mettere insieme le parole e replicare, poi indicando le tombe disse “Magari! Purtroppo qui sono tutti morti. Lei è l’unico, come me, che cammina ancora”.
“Cammino, ma chi le dà la certezza che sono vivo. Io sono morto, come loro” le dissi.
Alzai la mano per salutarla e mi avviai verso l’uscita. Nell’aria quiete del camposanto distinguevo nettamente i miei passi nella ghiaia e centinaia di risate lontanissime di bimbi divertiti che mi salutavano.

 
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