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La pace ritrovata

Post n°359 pubblicato il 14 Aprile 2007 da noteinblu
Foto di noteinblu

E capita di arrivare alla fine di una giornata e sentirsi abbruttiti, stentandosi quasi a riconoscersi, a provare dolore per se stessi.
Ero sul muletto, ieri mattina e stavo spostando il bancale di turno.
L’orario indicato dal display luminoso del macchinario indicava la 12.00, terra di libertà provvisoria e il sapere di quel pranzo, dimenticato nel freezer a non scongelare, con l’indispensabile contorno di pane pugliese da gustare col condimento, mi avevano spinto a chiedere ad Ivan il permesso di andarmene via.
Daniele, il capo-filiale, non c’era e lui diventava il logico comandante in seconda, richiamo al dovere molto bonario e più di facciata che altro.
Arrivavo davanti mentre i computer mi rispedivano qualche minuto indietro per ragioni di sincronia mancata. Il cellulare, affidabile, confermava il mio anticipo e la correttezza mi imponeva di restare ad aspettare, cercando qualsiasi cosa a cui dedicarsi per riempire quell’inutile scarto.
La voglia di uscire da quel portone mi portava alla prima bugia
- “E’ un problema se esco 5 minuti prima che devo scappare?” (questo sottintendeva un’urgenza che, a parte il pranzo e la palestra, non esisteva).
Nessuno ha niente da dire, alla fine siamo colleghi senza padrone e l’anticipo è veramente ridicolo.
Max: -“Se l’hai chiesto a Ivan per me non ci sono problemi”
Me stesso: -“Ivan ha detto che posso andare”
Se non una bugia, sicuramente non la piena verità, che equivale, secondo quell’etica che considero giusta, ad una bugia. Rimango ad aspettare dietro il bancone qualche minuto, interdetto in un limbo di verità perduta e di sbalordimento per quel gesto inutile che mi toglieva qualcosa di così prezioso, la mia integrità, senza capirne il perché.
Salgo in macchina e l’ennesimo display segna il mezzogiorno in punto.
La bugia non è stata sfruttata e ritrovo un po’ di sollievo, lasciando intatto il gesto.

Alle 14 sono di nuovo a marcare presenza.
Max mi chiede spiegazioni visto che una battuta ha rivelato il mio inganno.
Scopro di essermi già assolto da solo durante la pausa facendo scomparire ogni traccia di qualcosa con cui non volevo avere a che fare.
Ritrovo il mio comportamento, sul piatto freddo dell’analisi di un pensiero a cui costringermi e mi faccio schifo da solo.
Cerco una strada che mi aiuti a capire ma, come mi fa notare Max, di spiegazioni non ce ne sono.
Chiedo scusa, è il minimo, per la fiducia gratuitamente tradita che rende ancora più insostenibile il gesto.
Ma il problema più difficile da affrontare è il confronto con me stesso, un guardarsi dentro a cui devo prestarmi per forza, nella solitudine della cabina, mentre guido e torno per l’ennesima consegna.
Scopro di essere impantanato nella bugia dal momento in cui ho capito che quel lavoro, quello stile di vita non mi apparteneva, dal momento in cui avevo deciso di andarmene e salutare tutti con un mese di anticipo sulla fine di giugno, per dare il rispetto di un degno preavviso.
La scelta di aspettare era stata condivisa a tavola da tutta la famiglia, visto che i precedenti rapporti di lavoro avevano portato sempre tanta diffidenza verso il datore di lavoro.
Capivo che tutto questo periodo, passato con la consapevolezza di trovarmi li solo per lo stipendio, comportava un’evidente presa in giro nei confronti di chi lavorava al mio fianco, cercando di aiutarmi sulla strada della più completa autonomia.
Io volevo solo risparmiare più energie possibili, soprattutto mentali, e questo non poteva essere compatibile con un veloce e affidabile apprendimento.
Il costante scivolare su una bugia di fondo, imposta per convenienza, ero convinto di arrivare a gestirlo e riuscirci e convivere, cercando di limitare il più possibile i danni, con il ragionamento.
Adesso, potevo vedere chiaramente quelle piccole licenze che mi avevano spinto ad oltrepassare il limite della sincerità una volta di più.
Ho sempre fatto della mia parola qualcosa di cui chiunque non potesse dubitare e adesso ritrovavo il mio fallimento anche in quell’unica cosa, una qualità che mi aveva sempre aiutato a superare anche i momenti più difficili della vita.
Disperso, senza soluzione.
Al mio ritorno ritornavo sull’argomento, sempre più prostrato e avvilito nel perdono che chiedevo, soprattutto a me stesso.
Avevo perso il controllo e la situazione era diventata insostenibile.
Altre consegne e il camion da caricare.
Due fasci di tubo e la mia consueta domanda inutile perché basterebbe guardare nel documento di trasporto:
- “Per chi sono?”
Max mi risponde piccato, con quell’atteggiamento a cui ho sempre opposto un sorriso e un menefreghismo di fondo, mentre Ricky offre un’altra versione.
Colgo l’occasione per accendere gli animi
- “Basta che vi mettiate d’accordo”
Sapevo che sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto traboccare quel vaso che volevo traboccasse
Max: - “Come hai detto?” Il tono che accompagna il resto delle parole si fa più aggressivo ma invece di un sorriso gli rispondo con tutta la rabbia che mi porto dentro.
Me stesso: -“Guarda che ti ho fatto solo una domanda, mica ti ho pestato un piede!” come sempre conta più il tono delle parole.
Lui lascia cadere il fascio in mezzo al piazzale e inizia a venirmi incontro promettendomi un pugno in faccia.
Io abbandono il mio dovere per accorciare la distanza tra di noi. 
A circa due metri nessuno dei due si è ancora fermato e allora alzo le mani per prendere le sue e difendermi da un eventuale coerenza da riscontrare nei fatti.
- “Prima di tutto non permetterti di alzare le mani con me”, arriviamo a petto contro petto ma nessun pugno arriva e quasi mi dispiace.
Lui continua a promettere e ad offendere e gli faccio notare che è l’unica cosa che è capace di fare.
Mi da del viziato, dello sfigato e qualcos’altro ma non rispondo se con un:
- “Mi dispiace, mi dispiace per te”.
Lui è vicino alle assi di legno che teniamo da parte per il camino di Ivan e mi promette di tirarmene una.
A quel punto penso di non sollecitare oltre lo scontro perché il rischio di non combattere alla pari è reale.
– “Prega che non ti becchi fuori perché ti riempio di botte!”
Su questo ritorno sul camion e inizio il giro delle ultime consegne.

Quando rientro ho avuto modo di calmarmi e ripensare a tutto quello che era successo.
Lo ritrovo nel retro del magazzino. Gli vado incontro.
Me stesso: -“Se vuoi stasera ci possiamo vedere da qualche parte così risolviamo la faccenda.”
Max: - “Io stasera ho altro da fare.”
Se devo vivere aspettando di incontrarlo da qualche parte è meglio togliersi subito il pensiero.
Alla mia rinnovata richiesta per chiudere, in un modo o in un altro il discorso.
Max: - “Ma tu ti rendi conto di quello che stai dicendo?”
Da quel momento i toni scemano a favore del confronto che dovrebbe sempre essere la naturale conclusione di uno scontro e delle incomprensioni.
Mi offre la possibilità di dire finalmente quello che mi stavo tenendo dentro e che non riuscivo più a considerare giusto.
- “Ho pensato di riprendere gli studi e iniziare l’università. A fine giugno me ne vado. Non ho detto niente per paura di rimanere senza lavoro.”
Mi consiglia di parlarne con Daniele e che non ci sono problemi e di non preoccuparmi perché di gente ne è passata tanta e l’unica cosa che gli scoccia è che dovrà ripetere tutto daccapo a chi arriverà dopo di me.
Gli basta poco per convincermi ad uscire da quella bugia che sento non fare parte di me.
- “Lunedì gliene parlerò, sperando che mi tenga fino alla fine e se così non sarà ne accetterò le conseguenze.”
Max: -“Non sentirti obbligato, da parte mia ti prometto che non uscirà niente.” Me stesso: -“No, è giusto così. L’avrei dovuto fare subito. Ho sbagliato.”
Ritornavo a fare pace, soprattutto con me stesso.

La serata mi spingeva fino al Sax Pub di Lugo (Ra) per l’ennesimo concerto Jazz a cui prestare attenzione, accompagnato da una spianata e da una coca-cola piccola, alla spina, con ghiaccio, senza limone.

Sabato

Finalmente faccio visita a Silvia, nel primo pomeriggio e ritrovo una Gaia cresciuta, che ha passato da pochi mesi il suo primo anno di vita.
È una bella giornata di primavera e stiamo un po’ di tempo, tutti e tre insieme, sul balcone.
La bambina è piena di sorrisi e sopporta senza difficoltà l’onere del nome che indossa.
È una bella sensazione quella che mi avvolge.
A metà pomeriggio ricevo quell’sms che sapevo sarebbe arrivato, supportato dalla solita grazia.
Y**: - “Penso tanto il tuo cazzo…”
Sono libero da impegni sentimentali e mi ritrovo davanti ad un bivio da cui ero già passato in precedenza.
Marialaura l’avevo incontrata esattamente due anni fa, sul treno del ritorno da Milano e ci eravamo frequentati per un anno, nell’assenza di troppo sentimento e nell’abbondare della dedizione all’arte del piacere.
Tornavo a dover scegliere, di nuovo.
Me stesso: - “Credo sia meglio non frequentarci anche se mi dispiace ma ho deciso di cercare l’amore ed evitare storie solo di sesso. Scusa”
Il letto non può bastare ad alleviare quel bisogno d’Amore che continua a sfuggirmi dalle mani.
Mi aiuterebbe solo a sentirmi un po’ più squallido e, sinceramente, non ne ho voglia.
Sono uscito in bicicletta e, sotto il sole, in direzione contraria, sono andato a sbattere in un bel sorriso, sotto quel paio d’occhiali da sole.
Giulia, la mia vicina di casa, tornava dal suo dovere di maschera a teatro.
Scambiamo due parole mentre lei mostra un po’ d’imbarazzo per quello spacco nella gonna d’ordinanza che le scopre le gambe, ricoperte da calze scure.
Accenno il desiderio di un’uscita ma purtroppo so a cosa è obbligata la sua impossibilità a rendersi disponibile.
Vorrei esserle d’aiuto, il sentimento d’impotenza è così forte, ma nessuno può fare niente per portare un po’ di quel peso che la vita ha deciso di buttarle addosso.
La lascio con quel “Sai che sono sempre qui, quando hai bisogno.”
La mia disponibilità, rinnovata nel tempo a venire che mi fa piacere e che voglio sappia essere, una volta di più, li ad aspettarla.

 
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