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Messaggi di Marzo 2019

La festa del papà

Post n°278 pubblicato il 18 Marzo 2019 da pasquale.zolla
Foto di pasquale.zolla

 La festa del papà è una consuetudine del 19 marzo, legata a San giuseppe, il padre putativo di Gesù, e fu inserita nel calendario romano da Papa Sisto IV intorno al 1479. Nel 1870 Papa Pio X elevò San Giuseppe a Santo Patrono della Chiesa universale e Leone XIII lo nominò Santo Patrono dei padri di famiglia e dei lavoratori nel 1889. La festa del papà si celebra il 19 marzo dal 1968. Le rose rosse sono il simbolo della festa, se il genitore è ancora in vita; bianche, in caso contrario. Due tradizioni caratterizzano questa festa: i falò e le zeppole. Poiché la celebrazione di San Giuseppe coincide con la fine dell’inverno, le celebrazioni rituali religiose si sovrappongono a quelle pagane come i riti di purificazione agraria, di antica memoria. In questa occasione si bruciano i residui del raccolto sui campi, ed enormi cataste di legna vengono accese ai margini delle piazze. Quando il fuoco sta per spegnersi, alcuni lo scavalcano con grandi salti, e le vecchiette, mentre filano, intonano inni per San Giuseppe. Le zeppole sono un dolce tipico della cucina italiana e derivano da una tradizione antica risalente all’epoca romana. Sono due le leggende che ne parlano. Secondo la tradizione dell’epoca romana, dopo la fuga in Egitto con Maria e Gesù, San Giuseppe dovette vendere frittelle per poter mantenere la famiglia in terra straniera. Proprio per questo motivo le zeppole divennero i dolci tipici della festa del papà, preparati per festeggiare e celebrare la figura di San Giuseppe. La seconda leggenda è legata alle Liberalia che venivano celebrate nell’antica Roma il 17 marzo, feste in onore delle divinità del vino e del grano. Per omaggiare Bacco e Sileno, precettore e compagno di gozzoviglie del dio, il vino scorreva a fiumi, e per ingraziarsi le divinità del grano si friggevano delle frittelle di frumento. ‘Na vucelluzze èsse vularrìje ‘Na vucelluzze èsse vularrìje pe scelljà ‘n’avete, sèmbe chjù ‘n’avete, è arrevà fin’ò’ Règne d’i Cile p’addengrazjà u papà mìje pe m’avè nzengate a krèsce, a rire, a ausà i manuzzèlle, a m’avè pegghjate mbrazze, a me luà ògnè pavure, a ghèsse lustrèzze k’u ammòre suje è ka m’have nzengate ‘a strate da fà. Appure mò, chjù ka uttandènne, kuanne l’ucchje nghjude sènde a mana suje appujarze ngulle a mè kume pe me dà prutezjune, a me fà sènde krjaturille è arrumanè ‘n’attése de sènde i passe suje è u vedè trasì dinda kase p’u zumbà ngulle è i fà sènde akkume vatte fòrte d’ammòre pe ghisse u kòre vècchje mìje! Vorrei essere un uccellino Vorrei essere un uccellino per volare in alto, sempre più in alto, per raggiungere il Regno dei Cieli per ringraziare il mio papà per avermi insegnato a crescere, a ridere, ad usare le manine, ad avermi preso in braccio, a togliermi ogni paura, ad essere luce con il suo amore e che mi ha indicato la via da percorrere. Anche adesso, oltre gli ottanta, quando chiudo gli occhi sento la mano sua posarsi sulla mia spalla come per darmi protezione, a farmi sentire bambino e restare in attesa di sentire i suoi passi e vederlo entrare in casa per saltargli al collo e fargli sentire come batte forte d’amore per lui il mio vecchio cuore!   La festa del papà La festa del papà è una consuetudine del 19 marzo, legata a San giuseppe, il padre putativo di Gesù, e fu inserita nel calendario romano da Papa Sisto IV intorno al 1479. Nel 1870 Papa Pio X elevò San Giuseppe a Santo Patrono della Chiesa universale e Leone XIII lo nominò Santo Patrono dei padri di famiglia e dei lavoratori nel 1889. La festa del papà si celebra il 19 marzo dal 1968. Le rose rosse sono il simbolo della festa, se il genitore è ancora in vita; bianche, in caso contrario. Due tradizioni caratterizzano questa festa: i falò e le zeppole. Poiché la celebrazione di San Giuseppe coincide con la fine dell’inverno, le celebrazioni rituali religiose si sovrappongono a quelle pagane come i riti di purificazione agraria, di antica memoria. In questa occasione si bruciano i residui del raccolto sui campi, ed enormi cataste di legna vengono accese ai margini delle piazze. Quando il fuoco sta per spegnersi, alcuni lo scavalcano con grandi salti, e le vecchiette, mentre filano, intonano inni per San Giuseppe. Le zeppole sono un dolce tipico della cucina italiana e derivano da una tradizione antica risalente all’epoca romana. Sono due le leggende che ne parlano. Secondo la tradizione dell’epoca romana, dopo la fuga in Egitto con Maria e Gesù, San Giuseppe dovette vendere frittelle per poter mantenere la famiglia in terra straniera. Proprio per questo motivo le zeppole divennero i dolci tipici della festa del papà, preparati per festeggiare e celebrare la figura di San Giuseppe. La seconda leggenda è legata alle Liberalia che venivano celebrate nell’antica Roma il 17 marzo, feste in onore delle divinità del vino e del grano. Per omaggiare Bacco e Sileno, precettore e compagno di gozzoviglie del dio, il vino scorreva a fiumi, e per ingraziarsi le divinità del grano si friggevano delle frittelle di frumento. ‘Na vucelluzze èsse vularrìje ‘Na vucelluzze èsse vularrìje pe scelljà ‘n’avete, sèmbe chjù ‘n’avete, è arrevà fin’ò’ Règne d’i Cile p’addengrazjà u papà mìje pe m’avè nzengate a krèsce, a rire, a ausà i manuzzèlle, a m’avè pegghjate mbrazze, a me luà ògnè pavure, a ghèsse lustrèzze k’u ammòre suje è ka m’have nzengate ‘a strate da fà. Appure mò, chjù ka uttandènne, kuanne l’ucchje nghjude sènde a mana suje appujarze ngulle a mè kume pe me dà prutezjune, a me fà sènde krjaturille è arrumanè ‘n’attése de sènde i passe suje è u vedè trasì dinda kase p’u zumbà ngulle è i fà sènde akkume vatte fòrte d’ammòre pe ghisse u kòre vècchje mìje! Vorrei essere un uccellino Vorrei essere un uccellino per volare in alto, sempre più in alto, per raggiungere il Regno dei Cieli per ringraziare il mio papà per avermi insegnato a crescere, a ridere, ad usare le manine, ad avermi preso in braccio, a togliermi ogni paura, ad essere luce con il suo amore e che mi ha indicato la via da percorrere. Anche adesso, oltre gli ottanta, quando chiudo gli occhi sento la mano sua posarsi sulla mia spalla come per darmi protezione, a farmi sentire bambino e restare in attesa di sentire i suoi passi e vederlo entrare in casa per saltargli al collo e fargli sentire come batte forte d’amore per lui il mio vecchio cuore!

 
 
 

La pentolaccia

Post n°277 pubblicato il 16 Marzo 2019 da pasquale.zolla

 

 

 

La pentolaccia, ai tempi della mia fanciullezza, era una festa che si svolgeva, generalmente, nelle case la seconda domenica di Quaresima, dove si ballava prima di rompere la pignata, riempita di noci, fichi secchi, fave e lupini.

 

Era una tradizione molto sentita a Lucera e lo è tutt’oggi soprattutto da chi, come me, è avanti negli anni. Tra l’altro molti miei ricordi sono legati al cortile di Santa Caterina dove il nostro amato Servo di Dio Padre Angelo Cuomo in detta ricorrenza faceva trovare delle pentole di terracotta appese ad un filo con dentro segatura e caramelle.

 

Un ricordo a me tanto caro perché la prima volta che vi partecipai c’erano un centinaio di ragazzi e, nel vedere quelle poche caramelle cadere ad ogni pignata rotta, pensai ad un miracolo perché per terra alla fine c’erano caramelle molto più che sufficienti per tutti.

 

Noi ragazzi, a turno, venivamo bendati e armati di bastone e su indicazione dei presenti che gridavano: Acqua, fuocherello, fuoco, ad indicare la distanza e la vicinanza della pignata da colpire, menavamo colpi a casaccio e a volte colpivamo dei ragazzi che non si distanziavano di qualche metro dalla corda con le pignate.

 

Oggi tale gioco lo si usa nelle feste dei compleanni dei bambini per rendere più movimentata e divertente la festa del bimbo festeggiato, perché per i bimbi vedere rotta una pignata colma di cioccolate e caramelle significa tuffarsi per terra per accaparrarsi la maggior quantità.

 

Ma vediamo quali sono state le origini di tale festa!

 

Per alcuni affondano nella storia della scoperta dell’America: si narra che, all’inizio del XVI secolo, i missionari spagnoli arrivati colà, utilizzarono la pignata per attirare i nativi alle loro cerimonie.

 

Sembra, invece, che gli indigeni avessero già una tradizione simile per celebrare il compleanno della divinità della guerra. Infatti alla fine dell’anno i sacerdoti aztechi collocavano nel tempio un recipiente di argilla adornato di piume colorate e pieno di piccoli tesori. Quando la pignata veniva rotta i tesori in essa contenuti cadevano ai piedi degli dei.

 

I Maya, invece, usavano praticare un gioco molto simile a quello della mia infanzia: i partecipanti al gioco, con gli occhi bendati, dovevano colpire un recipiente di argilla sospeso con una corda.

 

Furono, comunque, i missionari a trasformare questo gioco dandogli un significato religioso: il recipiemte di argilla decorato rappresentava Satana che doveva essere distrutto.

 

La pignata, che aveva sette coni, rappresentava i sette vizi capitali, ed era riempita di dolci e frutta che rappresentavano le tentazioni di abbondanza e i piaceri terreni.

 

Il partecipante bendato, invece, rappresentava la fede che, seppur cieca, vince il male e il bastone utilizzato per romperla simboleggiava la virtù.

 

Con il gioco della pignata la gente che vi partecipava era costretta ad alzare lo sguardo verso il cielo per vederla colpita, mentre era sospesa da una corda, aspettando il premio di ciò che in essa era contenuto. Una volta sotto il recipiente, le caramelle e la frutta che cadevano giù rappresentavano la giusta ricompensa per la fede mantenuta.

 

La festa della pignata venne introdotta in Europa nel XIV secolo e venne adattata alle celebrazioni della Quaresima.


 

 
 
 

8 Marzo: il mondo dice DONNA

Post n°276 pubblicato il 07 Marzo 2019 da pasquale.zolla
Foto di pasquale.zolla

 

 

L’8 marzo, giornata internazionale della donna, serve a ricordare le conquiste politihe, sociali ed economiche della donna  e le violenze che hanno subito nella storia e che continuano ancora oggi a subire.

Sono molti gli avvenimenti  che hanno dato origine all’istituzione della Giornata internazionale delle donne. Il primo evento importante fu il VII Congresso della II Internazionale socialista  svoltosi a Stoccarda dal 18 al 24 agosto 1907, in cui si discusse della questione femminile e del voto alle donne e che, con la Conferenza internazionale delle donne (26/27 agosto), portò ad istituire l’Ufficio di informazione delle donne socialiste, alla cui segreteria fu eletta Clara Zetkin.

Alla fine del 1908 il Partito socialista americano decise di dedicare l’ultima domenica di febbraio del 1909 (23 febbraio) all’organizzazione di una manifestazione per il voto alle donne.

Il 26 e 27 agosto 1910 si decise di seguire l’iniziativa istituendo una giornata internazionale dedicata alla rivendicazione dei diritti delle donne.

L’8 marzo 1917, a San pietroburgo, le donne manifestarono per chiedere la fine della guerra e, per ricordare questo evento, durante la Seconda Conferenza delle donne comuniste, svoltasi a Mosca nel 1921, fu stabilito che l’8 marzo fosse la Giornata internazionale dell’operaia.

In Italia la prima giornata della donna si svolse nel 1922, il 12 marzo.

Oggi la festa della donna ha un po’ perso il suo valore iniziale, anche se molte organizzazioni femminili continuano a sensibilizzare l’opinione pubblica su problemi di varia natura che riguardano le donne: dalle violenze subite al divario salariale rispetto agli uomini.

L’8 marzo, comunque, è una festa della donna che serve a farci riflettere sulla condizione sociale delle donne che continuano ad essere usate come oggetto dagli uomini.

E io, come sempre, voglio dedicare alle donne, specchi che possiedono il potere magico e delizioso di riflettere la figura di un uomo a due volte la sua grandezza naturale, un’ode in vernacolo lucerino:


A tè ka lakreme kume brellòkke ngulle tine

Dònne, dóce è senzibbele kumbagne

de nu kambà ka sckitte tu rènne saje

akkussì uneke è speciale; munne

de bbellizze, de ‘murèvele durcèzze,

u tutte nghjuse nda cinghe maravegghjòse

lèttre: D-ò-n-n-e, k’annande mannene

u munne è sustènnene ‘a metà d’u cile.

Tu sì u pirne andò tutte arróte,

u circhje kumbléte. Dind’a tè ce stace

u putére de krjà, dà da magnà è kagnà.

U kòre tuje sekréte ne ndéne,

ma sckitte kammarèlle ammakande

k’aspèttene d’èsse spalazzate

è skuvèrte. Kuanne de tè se skrive

besugna bbagnà ‘a pènne nd’u ‘rkuvaléne

è ‘a pagene asciukà k’a pòvele

d’i scille d’i fraffralle. A tè ka

ngulle tine lakreme akkume

brellòkke, p’a fèsta tuje i gurje

te vògghje fà pe nu kambà ka pòzza

sèmbe ghèsse chjìne chjìne d’allerìje,

akkume ò’ jalligne d’i memòse

è dóce è ndinze kum’a ‘ddòre suje!

 

A te che indossi lacrime come gioielli

Donna, dolce e sensibile compagna

di una vita che solo tu sai rendere

così unica e speciale; universo

di bellezza, di amorevole dolcezza,

il tutto racchiuso in cinque meravigliose

lettere: D-o-n-n-a, che muovono

il mondo e sostengono la metà del cielo.

Tu sei la vite su cui tutto gira,

il cerchio completo. Dentro di te c’è

il potere di creare, nutrire e trasformare.

Il tuo cuore non ha segreti,

ma solo stanze vuote

che aspettano di essere spalancate

e scoperte. Quando si scrive di te

bisogna intingere la penna nell’arcobaleno

e asciugare la pagina con la polvere

delle ali delle farfalle. A te che

indossi lacrime come

gioielli, per la tua festa gli auguri

voglio farti per una vita che possa

sempre essere colma d’allegria,

come il giallo delle mimose

e dolce e intensa come il suo profumo!

 


 


 

 
 
 

Il Mercoledì delle Ceneri

Post n°275 pubblicato il 06 Marzo 2019 da pasquale.zolla
Foto di pasquale.zolla

 

 

Il Mercoledì delle Ceneri dà inizio alla Quaresima ed è il giorno in cui si entra nel periodo penitenziale.

Le Ceneri sono una ricorrenza mobile e la data cambia di anno in anno in base al calcolo della Pasqua, ricorrenza che cade la domenica successiva all’equinozio di primavera. Esse sottolineano la precarietà della vita umana e i limiti degli uomini rispetto alla grandezza di Dio.

Sono ricavate bruciando gli ulivi benedetti, ormai secchi, della domenica della Palme. Di anno in anno vengono bruciati i rametti per ricavare le Ceneri benedette da imporre sulla testa dei fedeli.

Il Mercoledì delle Ceneri si osserva il digiuno per pregare per la Pace. Non si tratta di un digiuno totale, è ammesso consumare un pasto leggero e non consumare carne.

Spargersi il capo di cenere è, nella Bibbia, un gesto di umiliazione e di pentimento di fronte al Signore per i peccati commessi.

In un antico testo delle luturgia morava si trova un altro gesto legato alle ceneri. Esse non sono poste sul capo come segno di pentimento, ma nelle mani del penitente per ricordare a lui ciò che Dio fa dei suoi peccati quando egli invoca il perdono, e come essi sono purificati dal fuoco della sua misericordia.


… È pòvele arreturnarraje

… È pòvele arreturnarraje!

Arrepènze a kuilli paròle

d’u prèvete kuanne ngape me mettéve

’a cènere è acchjare, mò ka

vècchje sònghe, u sinze m’arrive

d’u kagnamminde d’u jì mìje;

‘a kunzapevulèzze me danne

k’a presunzjòne, i seduzjune,

i magaggìje sònne kum’a kacchje

d’agarde. Sckitte abbruscianne

i kòse malamènde d’u spirde mìje,

‘a dubbulèzze mìje, ‘a nulletà mìje,

u kaòsse ka s’éje ammundunate

dind’u kambà mìje, arresblennarrà

u lustrekòre d’u ghèsse mìje.

Me rènne kunde ka l’ucchje mìje

ne mbònne uardà u sóle è l’abbete

mìje sònne tutte skarabbucchjate

è strazzate, pekkuje necessarje éje

k’abbrusce tutte i kacchjetille

p’arrevà ke l’alme addulurate

è kòre sengére ò’ Segnòre Gesù,

‘mminze bbellizze è bbunnà, ka me

aspètte p’arredà fòrze è ajì ò’ spirde m’ìje!

 

… E polvere ritornerai

… E polvere ritornerai!

Ripenso a quelle parole

del sacerdote quando m’imponeva sul capo

la cenere e chiaro, adesso che

sono vecchio, mi giunge il senso

del cambiamento di direzione;

mi danno la consapevolezza

che la vanità, le seduzioni,

gli incanti sono come scorie

da ardere. Solo bruciando

le negatività del mio spirito,

la mia debolezza, la mia nullità,

il disordine accumulati

nella mia vita, risplenderà

la luminosità del mio essere.

Constato che i miei occhi

non possono guardare il sole e gli abiti

miei sono tutti macchiati

e laceri, per cui è necessario

che bruci tutte le scorie

per giungere con animo contrito

e cuore sincero al Signore Gesù,

immensa bellezza e bontà, che mi

aspetta per ridare forza e slancio al mio spirito.


 

 

 


 

 
 
 

Morte e funerale di Carnevale

Post n°274 pubblicato il 03 Marzo 2019 da pasquale.zolla
Foto di pasquale.zolla

 

La morte e il funerale di Carnevale

Il Martedì, ultimo giorno di Carnevale, è detto grasso, come il precedente giovedì, semplicemente perché in questi giorni, prima ancora della mia fanciullezza, si mangiava in abbondanza, per eliminare cibi come la carne, per entrare nel periodo della penitenza alimentare.

È il giorno, infatti, precedente il Mercoledì delle Ceneri che segna l’inizio della Quaresima che porta alla Pasqua.

È, quindi, il giorno in cui si chiudono i festeggiamenti carnevaleschi.

A Lucera, ai tempi della mia fanciullezza, il mattino ben presto, in molti rioni comparivano tavole imbandite, ad indicare il godimento delle gioie terrene,  con un fantoccio fatto di paglia con un corpo immenso, una pancia enorme per l’abbondanza del cibo ingoiato, gambe ciondoloni e grosse,  un cappello e il viso sporco di sugo e sporcizia di indigestione, ma che denotava pace, riso e allegria.

Era rivestito con abiti comuni dalle più svariate fantasie: c’era anche chi gli faceva indossare un frac con fiore all’occhiello, chi un abito consumato o  un pigiama o abiti di lavoro.

Alcuni mettevano anche un calamaio a fianco alla mano destra che aveva una penna con la quale aveva stilato un testamento, scritto con particolari progetti e speranze futuri che si dovevano rispettare. In esso c’era scritto ciò che lasciava, quasi niente se non le misere cose che indossava e le misere cose poste sulla tavola: scodella, cucchiaio, occhiali, pipa… affinché la gente del rione o del quartiere potesse dirgli di riposare in pace per quanto aveva loro lasciato e lo terminava sperando di avere reso tutti felici e contenti.

La sera, con l’accendersi dei lampioni, per le strade e le piazze veniva portato in spalla da quattro baldi giovanotti, incappucciati e vestiti a lutto, il fantoccio sdraiato su di una tavola, qualcuno usava la bara per rendere più veritiero il corteo funebre, accompagnato dal lamento funebre delle prefiche.

C’era chi lo portava anche seduto su di una sedia o usava come carnevale un baldo giovanotto avente in bocca spicchi d’aglio che, con la testa che usciva dal feretro, camminava con i suoi piedi, per cui si vedeva solo la testa.

Il feretro era seguito da ragazze e giovanotti vestiti a lutto che imprecavano e lanciavano urla di dolore per la morte di carnevale e spesso facevano finta di strapparsi i capelli.

Poco prima della mezzanotte veniva letto il testamento e poi lo si bruciava, come capo espiatorio di tutti i mali.

Il mattino dopo per tutti i quartieri e le piazze comparivano le quarantane, con quattro piume di gallina, che venivano tolte ogni dieci giorni, ad indicare il tempo della Quaresima!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


U nzengaminde de Karnuale

 

Martrdì grasse! Karnuale mòre!

 

Vèrze u tarde d’u dòppemagnà

 

i fèmmene appreparene u murte

 

sóp’a ‘na tavele de nireve

 

vestute  è subbete dòppe

 

k’i kapille sciute  ò’ katafarke

 

s’avvecinene è, vattènnese

 

mbitte, a lukkule sciambrate

 

de delòre s’abbannònene,

 

a kuje siguete fanne, kuanne

 

u katafarke ngulle véne misse

 

a kuatte juvenòtte ngappucciate

 

pe jì p’i strate è i chjazze

 

d’u pajése, i lagne funerarje

 

chjìne de delòre p’a perdute

 

d’u lòre amate bbundembòne.

 

“Karnuale mìje kare pekkè

 

sì murte? Ne nde mangave ninde

 

è sì murte k’a freccine ‘m’mane

 

tramènde t’abbuffave. Fòrze

 

ngurpe sì sckattate p’ u tròppe

 

magnà nguzzate. È mò ìje

 

kume fazze sènze i skèrze

 

è l’allerìja tuje?” Chiagne

 

è se desespére ‘a gènde

 

tramènde akkumbagne u murte

 

vèrze ‘a fanòje pe ghèsse arze.

 

Kuannèkraje, p’u suvravvenì

 

d’a Kuarèsme, gnune a kambà

 

arreturnarrà penzanne ò’ ‘vvenì

 

è skurdannese d’u inzengaminde

 

d’u murte Karnuale de “Kambà

 

nd’u presènde pe nen murì kume

 

si ne nze fusse maje kambate!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’insegnamento del Carnevale

 

Martedì grasso! Carnevale muore!

 

Verso il tardi pomeriggio

 

le donne preparano il morto

 

su di una tavola a lutto

 

listata  e subito dopo

 

con i capelli sciolti al feretro

 

si accostano e, battendosi

 

il petto, a disordinati gridi

 

di dolore si abbandonano,

 

a cui seguito fanno, quando

 

il feretro viene issato sulle spalle

 

di quattro giovanotti incappucciati

 

per attraversare strade e piazze

 

della città, i lamenti funebri

 

colmi di dolore per la perdita

 

del loro amato buontempone.

 

“Mio caro Carnevale perché

 

sei morto? Non ti mancava nulla

 

e sei morto con la forchetta in mano

 

mentre ti abbuffavi. Forse

 

sei schiattato in corpo per il troppo

 

cibo ingoiato. E ora io

 

come faccio senza i lazzi

 

e la tua allegria?” Piange

 

e si dispera la gente

 

mentre accompagna il morto

 

verso il rogo per essere bruciato.

 

L’indomani, col sopraggiungere

 

della Quaresima, ognuno a vivere

 

tornerà pensando al futuro

 

e dimenticandosi dell’insegnamento

 

del morto Carnevale di “Vivere

 

nel presente per non morire come

 

se non si fosse mai vissuto!”

 

 

 

 

 

 

 

Il Martedì, ultimo giorno di Carnevale, è detto grasso, come il precedente giovedì, semplicemente perché in questi giorni, prima ancora della mia fanciullezza, si mangiava in abbondanza, per eliminare cibi come la carne, per entrare nel periodo della penitenza alimentare.

È il giorno, infatti, precedente il Mercoledì delle Ceneri che segna l’inizio della Quaresima che porta alla Pasqua.

È, quindi, il giorno in cui si chiudono i festeggiamenti carnevaleschi.

A Lucera, ai tempi della mia fanciullezza, il mattino ben presto, in molti rioni comparivano tavole imbandite, ad indicare il godimento delle gioie terrene,  con un fantoccio fatto di paglia con un corpo immenso, una pancia enorme per l’abbondanza del cibo ingoiato, gambe ciondoloni e grosse,  un cappello e il viso sporco di sugo e sporcizia di indigestione, ma che denotava pace, riso e allegria.

Era rivestito con abiti comuni dalle più svariate fantasie: c’era anche chi gli faceva indossare un frac con fiore all’occhiello, chi un abito consumato o  un pigiama o abiti di lavoro.

Alcuni mettevano anche un calamaio a fianco alla mano destra che aveva una penna con la quale aveva stilato un testamento, scritto con particolari progetti e speranze futuri che si dovevano rispettare. In esso c’era scritto ciò che lasciava, quasi niente se non le misere cose che indossava e le misere cose poste sulla tavola: scodella, cucchiaio, occhiali, pipa… affinché la gente del rione o del quartiere potesse dirgli di riposare in pace per quanto aveva loro lasciato e lo terminava sperando di avere reso tutti felici e contenti.

La sera, con l’accendersi dei lampioni, per le strade e le piazze veniva portato in spalla da quattro baldi giovanotti, incappucciati e vestiti a lutto, il fantoccio sdraiato su di una tavola, qualcuno usava la bara per rendere più veritiero il corteo funebre, accompagnato dal lamento funebre delle prefiche.

C’era chi lo portava anche seduto su di una sedia o usava come carnevale un baldo giovanotto avente in bocca spicchi d’aglio che, con la testa che usciva dal feretro, camminava con i suoi piedi, per cui si vedeva solo la testa.

Il feretro era seguito da ragazze e giovanotti vestiti a lutto che imprecavano e lanciavano urla di dolore per la morte di carnevale e spesso facevano finta di strapparsi i capelli.

Poco prima della mezzanotte veniva letto il testamento e poi lo si bruciava, come capo espiatorio di tutti i mali.

Il mattino dopo per tutti i quartieri e le piazze comparivano le quarantane, con quattro piume di gallina, che venivano tolte ogni dieci giorni, ad indicare il tempo della Quaresima!

 U nzengaminde de Karnuale

 

Martrdì grasse! Karnuale mòre!

 

Vèrze u tarde d’u dòppemagnà

 

i fèmmene appreparene u murte

 

sóp’a ‘na tavele de nireve

 

vestute  è subbete dòppe

 

k’i kapille sciute  ò’ katafarke

 

s’avvecinene è, vattènnese

 

mbitte, a lukkule sciambrate

 

de delòre s’abbannònene,

 

a kuje siguete fanne, kuanne

 

u katafarke ngulle véne misse

 

a kuatte juvenòtte ngappucciate

 

pe jì p’i strate è i chjazze

 

d’u pajése, i lagne funerarje

 

chjìne de delòre p’a perdute

 

d’u lòre amate bbundembòne.

 

“Karnuale mìje kare pekkè

 

sì murte? Ne nde mangave ninde

 

è sì murte k’a freccine ‘m’mane

 

tramènde t’abbuffave. Fòrze

 

ngurpe sì sckattate p’ u tròppe

 

magnà nguzzate. È mò ìje

 

kume fazze sènze i skèrze

 

è l’allerìja tuje?” Chiagne

 

è se desespére ‘a gènde

 

tramènde akkumbagne u murte

 

vèrze ‘a fanòje pe ghèsse arze.

 

Kuannèkraje, p’u suvravvenì

 

d’a Kuarèsme, gnune a kambà

 

arreturnarrà penzanne ò’ ‘vvenì

 

è skurdannese d’u inzengaminde

 

d’u murte Karnuale de “Kambà

 

nd’u presènde pe nen murì kume

 

si ne nze fusse maje kambate!”

 

 L’insegnamento del Carnevale

 

Martedì grasso! Carnevale muore!

 

Verso il tardi pomeriggio

 

le donne preparano il morto

 

su di una tavola a lutto

 

listata  e subito dopo

 

con i capelli sciolti al feretro

 

si accostano e, battendosi

 

il petto, a disordinati gridi

 

di dolore si abbandonano,

 

a cui seguito fanno, quando

 

il feretro viene issato sulle spalle

 

di quattro giovanotti incappucciati

 

per attraversare strade e piazze

 

della città, i lamenti funebri

 

colmi di dolore per la perdita

 

del loro amato buontempone.

 

“Mio caro Carnevale perché

 

sei morto? Non ti mancava nulla

 

e sei morto con la forchetta in mano

 

mentre ti abbuffavi. Forse

 

sei schiattato in corpo per il troppo

 

cibo ingoiato. E ora io

 

come faccio senza i lazzi

 

e la tua allegria?” Piange

 

e si dispera la gente

 

mentre accompagna il morto

 

verso il rogo per essere bruciato.

 

L’indomani, col sopraggiungere

 

della Quaresima, ognuno a vivere

 

tornerà pensando al futuro

 

e dimenticandosi dell’insegnamento

 

del morto Carnevale di “Vivere

 

nel presente per non morire come

 

se non si fosse mai vissuto!”

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 

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