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Nessuna poesia nel volo ...

Post n°93 pubblicato il 25 Luglio 2008 da ilprincipedelcuore
 

Sigfrid lasciò la sua tana.
Poco più che un buco in una roccia.
Alcune pelli, qualche masso, un angolo con della legna.
No, non tronchetti tagliati a misura, non pelli di orso.

Rami spezzati, pelli mezze spelate, ciò che restava di qualche coniglio selvatico.

La tana era in alto, si arrampicavano su spuntoni di roccia, percorso impossibile per le belve affamate.
La luce dell’alba illuminava il paesaggio.

Una parete ripida, una ventina di buche, un intricato groviglio di vegetazione affannata a carpirsi fino all’ultima zolla di terra.
Massi accatastati alla rinfusa alla fine del loro precipitare rumoroso e scomposto dalla cima.

Poco più a destra un fiume, l’unica striscia ordinata, un’ansa in cui l’acqua trovava un po’ di pace.
Sigfrid era poco più di una figura irreale. Parte di un caos, come la barba irregolare, i lunghi capelli mezzi appiccicati, la carne scoperta, scura, sporca, striata di graffi, lividi, vecchie cicatrici..
Lungo la parete poche altre figure simili a lui scendevano, piccole macchie visibili solo per il loro movimento.

Nessuna poesia nel volo degli uccelli, nei suoni, rumori che arrivavano alle orecchie e alla mente di Sigfrid come informazione, da comparare con lo spartito impresso nella sua memoria.

Due giorni, accucciato in un angolo, scosso da tremiti, bagnato di sudore, senza forza, senza conoscenza, senza paura.
Lei l’aveva guardato, leccato, accarezzato, senza capire, senza sapere.

Si era mossa, da sola, seguita a distanza da due maschi soli.

Una distanza che nel secondo giorno si era dimezzata, la paura che avevano di Sigfrid, il suo unico mantello, si squarciava con le ore.

Brillavano i suoi occhi azzurri, brillavano d’amore. Striati di fierezza erano un richiamo irresistibile, come il suo muoversi attento, il corpo teso.
Aveva vinto, anche il secondo giorno, la paura. I maschi si limitarono a seguirla, sempre più vicini.
Lei era tornata con due uova e qualche frutto dolce strappato ai rovi.

Sigfrid la sentì arrivare, l’aveva seguita da prima, immagini di lei, del posto, dei maschi. Un sibilo, nella mente, il loro filo, un contatto fuori dai sensi, percezione.
Non avevano parole, gli uomini.

Nei gesti confluivano sensazioni, emozioni, istinto. Suoni inarticolati, fatti di toni, di fiato spinto dal diaframma fuori dai polmoni e di cui vibravano le corde vocali.

La guardò, Sigfrid, gli occhi cerchiati, lo sguardo spento, il corpo morto, lo spasmo di un emozione irrefrenabile, un suono gutturale denso di un tono straziato, impotente, immensamente dolce.

Lei era già su lui, gli occhi spaventati, accesi, le mani a cercargli la bocca, le dita sporche di uova, di frutta, sulla sua lingua, sulla sua bocca, nella sua bocca.

Ieri, prima della notte, passata a scambiarsi calore, odore, contatto pelle contro pelle.
Prima dell’alba.
Non sapeva come, non sapeva perché, non sapeva cosa.

Sigfrid si era svegliato nuovamente padrone del suo corpo.
Sentiva il calore di Lei.
Si volevano, si presero, l’uno nell’altra , tra carezze e gemiti e suoni e umori e il loro muoversi che cambiarono lo spartito di quella notte, cambiarono l’odore della tana, intrecciarono le pelli di coniglio, mischiarono istinto sensazione e sentimenti e saliva e mani e lingue e corpi.
Sigfrid lasciò la tana, Lei gli era accanto.

Toccarono l’erba, senza rumore.
Lei gli morse il collo, piano.

Sigfrid non guardò se ci fosse qualcuno.

Li avrebbe sentiti, uccisi.
I due maschi erano lontani, anche così ebbero un fremito di paura.
Istintivamente si portarono le mani al petto, alla gola.
Scorreva quel liquido rosso senza nome, si portava via la loro vita, sensazione di morte annusata nell’aria, percepita dalla mente.
Due macchie sul fiume, le mani colme d’acqua, due bocche che bevono, insieme.
A terra, vicino, carne e pelli, conigli.
Suoni, inarticolati, non c’erano parole, Sigfrid non aveva un nome.

 
 
 
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