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Un blog creato da Jiga0 il 21/11/2010

Schwed Racconta

Su e giù per la tastiera

 
 

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JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED

 

Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.

 

 

 

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MAREMMA MORSICATA

Post n°86 pubblicato il 24 Settembre 2013 da Jiga0
 

Come il gatto ma non è il gatto

In Maremma gira una pantera. Lo fa nottetempo. Non è che passeggi come un turista a quattro zampe al parco dell’Uccellina, oppure che ne so, faccia un giretto a guardare il tramonto al faro di Castiglione della Pescaia, o nella tarda mattinata si acciambelli addosso a un pattino di salvataggio sul bagnasciuga di Marina di Grosseto. La pantera della Maremma abita nel mistero: non si fa vedere, ma intravedere: guizza nell’ombra. Non passeggia, scivola; non frequenta, si aggira. Non ha famiglia, è un’evasa.  Divaga nella macchia mediterranea come se andasse a tentoni per un pianeta sconosciuto: si farà le unghie sugli ulivi secolari, sbuccerà i sugheri. E quando è ora di avere un pasto, non è un’ora certa  - la pantera non ha orologio, ha ritmi di appetito, divagazione e caccia – lo stomaco si fa vivo e uccide. E’ questo che preoccupa grandemente, la sua fame. Per esattezza, la quantità della sua fame e se la sua fame comprenda carne umana, o applichi una risoluzione dell’Onu e mangi strettamente i pennuti e  i quadrupedi. Mi trovo in Maremma, e so di lei dai giornali e dai tiggì locali. La pantera esiste davvero: è stata fotografata, l’organizzazione della sua cattura si sviluppa di ora in ora, ma ora le notizie su di lei stanno svanendo.  Si sapeva che gli uomini della Forestale avessero costruito quattro gabbie, le avessero collocate a Prata, frazione della bella Massa Marittima, e nelle gabbie avessero messo delle esche  di carne. Chissà lei dov’è, adesso che la notizia evapora. I felini poi sono abitudinari sino a un certo punto, dopo scatta la personalità, ve lo confermo attraverso l’esperienza con Pepino, il mio gatto. Potrà sembrare paradossale, ma in questi giorni di pantera lui è una sorta di parametro. Un raffronto. Penso: se Pepino fa così, la pantera fa lo stesso moltiplicato trenta. Il gatto Pepino, analizzo scrutandolo da una panchina mentre si fa le unghie su un tiglio, è in tutta evidenza un felino proprio come Baghera (la vox populi ha immediatamente battezzato la pantera, richiamandosi al romanzo di Kipling). Il felino, se grande o se semplice micio, ha consuetudini ferree. Il mio  gatto esige di prendere i pasti accanto all’ombrelliera, è lì che mangia i croccantini e niente può apparire inevitabile come la  sua abitudine di mangiare in quell’angolo di casa. Invece non è così. Quando un giorno di due inverni fa ha cominciato  a scostare inorridito i croccantini  al salmone, che secondo me devono essere buonissimi, e a digiunare per giorni, la situazione è divenuta illeggibile. Credevo che stesse diventando anoressico. Rifiutava tutte le nostre offerte, le ali di pollo, la corteccia di groviera e il lattuccio. Come in un racconto biblico, all’alba del settimo giorno mi sono alzato dal giaciglio della mia apprensione  e ho controllato la ciotola del gatto: colma, coi croccantini inerti. Ho guardato l’ombrelliera, e ho capito: dopo l’ultima pioggia non avevo rimesso a posto l’ombrellino rosso. Grave inadempienza. Prima di mangiare, il nostro gatto passa a strusciare la testa sul manico piacevolmente zigrinato dell’ombrellino rosso; eseguito il rituale, probabile ringraziamento all’ombrello, inizia a mangiare i croccantini. Forte di questa deduzione psicologica, perchè io gli animali li intuisco, sono corso alla macchina a prendere il grattatore: pregustavo quello che stava per succedere. Pepino avrebbe strusciato la testa sul manico, il suo appetito sarebbe tornato e tutti avrebbero intuito quanto io sappia intuire. Ma quando salgo a salti le scale di casa brandendo trionfale l’ombrellino, una gelida visione dissolve la mia teoria. Sul nostro pianerottolo, alla porta della vicina, Pepino sta mangiando un cospicuo pezzo di pollo lesso. Spunta la vicina e mi fa: “Il vostro gatto ha un appetito! Ieri gli ho fatto il polmone alla veneziana e l’ha rivoluto”.                Così come adesso so che il mio gatto mi è ignoto, figuriamoci che succede con una pantera mai vista. Ma che ne sappiamo di lei? Magari viene dalla villa di un collezionista di fiere che si chiama Mario e ha debuttato con le linci. O forse si chiama  Alberto, o Enzo, o Gianna, e assembla cuccioli di animali esotici: elefantini, caimanucci, panterelle. Quando crescono, il sordido li molla. Ma io sento che Baghera è profondamente buona e se potesse ascoltare il richiamo della voce di Mario, o eventualmente   anche Alberto, Enzo, Gianna, la marcia fantasma in Maremma si fermerebbe. Baghera si calmerebbe, se qualcuno pronunciasse il nome del padrone tiranno che tuttavia ama.  Nei dintorni di Prata, un capitano della polizia urlerebbe verso il bosco: “Vieni Baghera, c’è uno: o è Mario, o è Alberto, o Enzo, o Gianna”. Lei sortirebbe lenta dalla selva, magari getterebbe un grido di offeso dispiacere e si farebbe grattare la pancia. Ma come nessuno conosce il nome del suo padrone, allo stesso modo la pantera di Maremma non conosce nessuno nel vasto mondo  al di fuori della sua ex villa - la villa poi sarà vuota, il padrone all’estero a comprare un cucciolo di nasica, e la possente Baghera cammina senza sosta per la Maremma: è sola e non vorrebbe. Rigetta la nuova vita, l’emancipazione dello spazio aperto la spaventa. Sta nella selva e non si fa vedere. “Ma chi li conosce - si starà dicendo -  questi trenta uomini in verde che sistemano pezzi di agnello crudo dentro alle scatole con le righe che loro chiamano gabbie, quando basterebbe dire scatole con le righe”. La pantera ha contato bene: sono esattamente trenta le persone che le danno la caccia. Si tratta di quelli del Corpo della Forestale, sono loro che le hanno fatto la foto, hanno sistemato le esche, sparso il sangue fresco intorno alle gabbie. Per ora lei non abbocca, si serve al ristorante del bosco. La cosa certa è, sarebbe, che Baghera si aggira nella campagna di Gretaia, dove permangono segni del suo passaggio: rami rotti, unghiate sui tronchi, escrementi. Un sabato mattina l’ha vista un signore che era fuori col cane e se ne intende: per l‘appunto è vissuto sei anni in Africa e la sua descrizione di Baghera concorda con le foto della forestale: “Aveva la coda lunga, gli occhi gialli e le orecchie a punta. Non ho detto niente perché nessuno credeva alla pantera”. E’ chiaro che la zona intorno agli spostamenti felpati di Baghera è blindata: possono transitarvi unicamente i residenti, che piuttosto di convivere con lei avrebbero passato l‘estate al Polo. Ma la Maremma è grande, non si sa dove lei sia, e mentre le notizie affievoliscono come un fuoco morente, galleggio nell’inquietudine. Prendiamo la semplice descrizione della pantera: nera, occhi gialli, orecchi a punta, coda lunga. Il suo identikit  mi disorienta. Mutatis mutandis,  è il ritratto del mio gatto. Lei grande e lui piccolo, lei mangia un agnello alla volta, lui trenta grammi di croccantini; ma lei è nera e lui è nero, e come se non bastasse entrambi hanno quegli orecchi e gli occhi gialli fosforescenti.  E così, quando guardo Pepino, penso che se fossi uno di quei gechi sul muro a cui lui dà la sua caccia crudele, lo vedrei come una pantera, per cui anche se non sono un geco, quando vedo Pepino, è più forte di me,  ho un lieve tremore. Capisco come possa sentirsi la vittima di un felino: il fatto di diventare il suo gioco crudele ed entrare in una lunghissima morte. Adesso che di lei non ci sono notizie, la notte faccio solitari turni di guardia. Mi alzo nelle ore del sonno profondo, le tre, le quattro, mi affaccio alla finestra di camera, guardo e a volte il buio pare sospirare. A quell’ora, ho pienamente paura.  Mi inquieta immaginare i suoi passi armoniosi, e che dunque la mia morte potrebbe essere armoniosa, anestetizzata dalla forza meravigliosa che si aggira nella pianura perché da qualche parte si sono stufati di lei. Qualcuno è andato col camper fino alla macchia,  l’ha lasciata lì come una scatola  - e Baghera si aggira stordita. Che se ne può fare di questo esilio chiamato libertà? Mi domando se sia una semplice fatalità che di tanto in tanto, con la ciclicità dei giri di un orologio, le nostre sciatterie si affaccino sul pianeta, la natura liberi le sue forze e noi se ne cada in balia: sia lo tzunami che scortica una centrale atomica di prima generazione, o discendendo a precipizio la scala dei pericoli, una pantera abbandonata che si aggira per la Maremma come in un irriconoscibile giardino, l’uomo appare inadeguato ad amministrare la natura.  Non solo non ne sa niente, ma non lo interessa. E’ un’immensa crisi culturale, e la crisi economica è conseguenza della più immane crisi culturale. Qui in Maremma, la pantera in libertà non desta reale timore, ma un poco duraturo  interesse mediatico: il passaggio del felino fantasma è uno spettacolo antico, non si può vedere da uno schermo, è uno show è senza orario. I giornali non annunciano la sua programazione: “Ore 17, passeggiata ungulata al Parco dell’Uccellina. Ore 23.30, Baghera è a Grosseto. Azzanna a piazza del Duomo”. Certo, se ne è letto qualche giorno  sulle locandine davanti ai giornalai. Accanto al Vernacoliere, c’era quel titolo a caratteri di scatola: AVVISTATA LA PANTERA. La gente passava oltre, sigillata nella bolla delle vacanze. La paura è della Borsa, non di Baghera. E’ la Borsa che fa: ahm, ora ti mangio. A Baghera chi ci pensa. Anche io inizialmente non pensavo alla pantera, ma ora che è scomparsa dai titoli, al mattino sfoglio i giornali e la sera chiudo la porta a doppia mandata. Dicono: non c’è da preoccuparsi. Ma che ne sappiamo di cosa debba preoccuparci di Baghera, o in genere della natura? Ieri c’è stato il terremoto a Gavorrano, tre virgola sei della scala Richter: in due case ce ne siamo accorti,   al ristorante accanto no perché la macchina del caffé sibilava. Una scossa leggera, perché tutto è leggero, indolore: siamo sedati. Dicono che una pantera possa fare dieci chilometri al giorno. Ho consultato la guida Michelin: da dove mi trovo a dove in linea  teorica si trova lei, ci sono decine di chilometri. Ma che vuol dire? Non è che quando il gigantesco felino si sposta, lascia un messaggio in segreteria: “Sono io, qui ho finito i cervi. Vado ad Alberese”. La pantera gira di notte, nero su nero, magnifico silenzio in magnifico silenzio, pedinata dai versi degli animali sbalorditi da quell’apparizione color carbone. Si ciba di lepri, fagiani, cinghiali, il cui unico nemico erano i cacciatori o i bracconieri, e ora c’è la rapida cosa nera. Certo, la lettura sui giornali dell’attuale dieta di Baghera abbassa la soglia dell’allerta: quando una persona in vacanza legge la lista dei pranzi di Baghera, non pensa alla morte in agguato  sulla via di un povero fagiano, ma che col fagiano ci starebbe bene una bottiglia di Morellino di Scansano; e poi che non è giusto che la pantera mangi gratis.  Sa cosa dico, Baghera mia, anche se tu fossi vicinissima, macché, sei lontana: filtrata dalla discontinuità delle notizie e dal nuovo istinto  onnipotente che ci ha abituato a guardare le guerre, i saccheggi e i terremoti dal salotto di casa. E poi, quando uno è stanco, spenge. Ma la pantera è qui, non se ne va premendo il tasto rosso.

   Giorni fa, in concomitanza delle apparizioni di lady Baghera, a qualche centinaio di chilometri dalla Maremma, nel capannorese, si è sviluppata un’altra apparizione kiplinghiana: un gigantesco serpente boa. Quando è stato avvistato, anche lui si aggirava, e naturalmente serpeggiava.   Anzi, non lui: lei. Una femmina di costrictor, imperator XI. Lunga due metri e ottanta, un esemplare di trenta chili, mica acciughe. L’hanno  catturata a mezzanotte, l’ora dei vampiri, delle pantere e degli immani serpenti boa. Il costrictor è stato individuato con un sistema di avvistamento satellitare: era sopra un masso, in mezzo a un torrente asciutto. Ci sono volute due persone specializzate, un erpetologo e una guardia ecozoofila che lavorano in zona, ma non è bastato essere organizzati, pianificare fino al dettaglio. Quando il boa era in gabbia, ha morso entrambi. Era particolarmente selvaggio, non avvezzo alla presenza umana, piovuto chissà come nel capannorese dove i costrictor sono spesso avvistati – per ragioni imperscrutabili, pare che in Toscana, abbondino i collezionisti di animali esotici. In ogni caso, il boa era lento ma si è avvolto rapido al braccio dell’erpetologo e lo ha stretto come se volesse farlo scoppiare. Un bambino sarebbe morto, ha detto.

   Sempre senza notizie: si vede che la pantera continua a girare.  Forse sul cielo di Maremma non gravitano i soldi per collegarsi ai satelliti. Ho telefonato a un amico della Protezione Civile che abita a Grosseto e mi sono procurato un binocolo a infrarossi. La notte mi apposto alla finestra e scruto i boschi. Dove sei? mormoro, nutrito dall’onnipotenza tecnologica della vista notturna. Le foglie degli alberi sono ferme, Baghera non risponde. Magari sta venendo da me. Ho cominciato a usare il binocolo anche al mattino presto, con il fresco, penso, girerà ancora. Stamani, saranno state le sei, ero di vedetta, noto un movimento davanti all’edicola dei giornali. Un’andatura armoniosa viene su per il paese:  è  un’enorme macchia nera e sta per balzare su un muro. E’ lei, non c’è dubbio. Oddio, grido, la pantera! In casa, non risponde nessuno. Quelli dormono. Che mortorio, penso, poi faccio le corna. “Svegliatevi – ansimo - la pantera!!...Dobbiamo andarcene di qui!”. “Che c’è?”, geme mia moglie. Il braccio di mio figlio, diciassette anni, mi cinge le spalle. “Calma”, sussurra. Mi prende il binocolo di mano e lo punta. Dopo un attimo lo allontana bruscamente dagli occhi. Mi guarda sconcertato: “Babbo  - sussurra - hai usato il binocolo alla rovescia!...Quello è Pepino che beve il latte sul terrazzo!”.

  Essermi sganciato dalla percezione della realtà, è uno scacco, e  questo scacco ha vibrato dentro di me tutta la giornata - e alla radio non dicevano niente, in Tv poi figurarsi. A metà pomeriggio non ce la faccio più e torno alla finestra: devo controllare se arriva. Non si scherza su certe cose, che cavolo.  All’imbrunire, il cuore mi salta nel petto. Una forma nera  familiare risale silenziosa il paese. “Oddio ci siamo - rantolo -  Mamma mia se la riconosco! Ecco, lo sapevo…Non dobbiamo assolutamente farci trovare! Presto, chiudete la porta, le finestre, tutto! E non fiatate!...Ma siamo pazzi??!…Forza, prendete le chiavi della macchina e usciamo dalla porta di dietro, ma zitti!…Erano giorni che me lo sentivo a fior di pelle: gli zii”.

  Mia  moglie  ammutolisce: “Gli zii?”.

  Altro che pantera. L’arrivo imprevisto da Torino di zio Marino e la zia Claudia è un segnale di grave pericolo. Farli entrare in casa, significherebbe creare una grave lesione alle vacanze. Zio Marino critica tutto quello che faccio e zia Claudia mangia tutto il pecorino. La decisione è immediata. Serriamo la porta, le finestre, e decidiamo di aspettare: quando poco dopo bussano alla porta e piantati davanti all’ingresso continuano a telefonare ai nostri cellulari, facciamo finta di non esserci. 

- Ehi, ci siete??...C’è nessuno??!...Aleeeee...

  Dopo dieci minuti l’assedio è levato, li sentiamo andare via.    

- Oddio - sussurro - quelli sono peggio di Baghera. Magari tornano.

 - Pa’ - bisbiglia il ragazzo - ho un’idea: andiamo a dormire a Grilli e torniamo domani pomeriggio.  

 Mia moglie è d’accordo: “Sì, scappiamo”.

  Ceniamo in silenzio, usciamo dalla porta sul retro e scappiamo  a Grilli. Forse ci salviamo.

  La macchina scende lenta, per prudenza tengo i fari spenti. Metti che passano gli zii e ci vedono.  Alla fine della discesa, accendo i fari. “Pericolo cessato”, scherzo.    

- Frena! - urla mia moglie.

Davanti a noi, in mezzo alla strada, si para un enorme gatto nero, non ne ho mai visto uno così. Gli occhi gialli e gli orecchi a punta. Sfila lentamente davanti alla macchina, si ferma e gira la testa verso di noi. Si avvicina felpato al mio sportello, comincia a strofinare la testa contro lo specchietto retrovisore. Ma è un gatto altissimo: sarà trenta volte Pepino. Ci guardiamo.  Il motore è al minimo, si sente il fruscio del vento. Sta ronfando.

- Frrr.    

  Buona fortuna, Baghera. Scappa anche tu.

  

 

 

      

 

 

 

 

 

 

 

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