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Schwed Racconta

Su e giù per la tastiera

 
 

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JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED

 

Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.

 

 

 

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Da Jiga Melik del Male ad Alessandro Schwed de La via del pavone

Post n°94 pubblicato il 16 Febbraio 2014 da Jiga0
 

 

Il viaggio di più scritture

di Angelo Pasquini

Cominciamo parlando di umorismo. Perché è stato l’umorismo che ha legato Sandro e me per parecchi anni. Un’epoca un po’ lontana, parliamo del decennio tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta. A quei tempi, per me, per la mia famiglia, per i nostri amici, Sandro era solo ed esclusivamente Jiga Melik, lo pseudonimo con il quale firmava i suoi pezzi sul “Male”. L’umorismo ci legava nel lavoro –scrivevamo spesso insieme per il “Male”, dividevamo la stessa stanza in redazione, formavamo una di quelle strane coppie di scrittori umoristici appunto, che si incontravano e si incontrano spesso nella commedia cinematografica, nel varietà, nella satira.  In certi casi acuti, e il nostro lo era, succede che l’affinità umoristica finisca per creare un legame più forte, esclusivo e settario di quello che deriva dal militare nello stesso partito o dal partecipare della stessa confessione religiosa.  Una battuta ben riuscita, una battuta “perfetta”, aveva per noi il valore che può avere l’illuminazione per un filosofo o la scoperta per uno scienziato. Avevamo talmente alzato l’asticella nei parametri di valutazione di ciò che poteva essere definito davvero “umoristico”, che poco si salvava, oltre a quello che facevamo noi sul “Male”, nel panorama della comicità e della satira di quel tempo. Erano anni di estremismo, e il nostro era umorismo estremo.

1.     Questa premessa serve a chiarire che quando leggo un nuovo romanzo, un racconto o un articolo di Sandro Schwed mi sento in un territorio familiare. Riconosco gli stilemi del suo umorismo e mi compiaccio di poter intraprendere un nuovo viaggio  in un paesaggio apprezzabile fino in fondo solo se si è forniti di lenti speciali, una sorta di visione piacevolmente allucinatoria, come quella che si ottiene con gli occhiali assistendo ai film in 3 D. “La satira –diceva pressappoco William Thackeray- è lo sviluppo coerente di un assunto assurdo.” Quando la satira è efficace, il paradosso diventa credibile, il falso s’invera.  L’assunto più o meno assurdo della storia che si racconta in questo romanzo è la fuga di un pavone dalla terrazza di un attico di un condominio romano. Da qui inizia il viaggio del protagonista e dei lettori in una Roma contemporanea, nella quale però a tratti si intravedono barlumi di un’epoca molto cara all’autore, quella degli ultimi decenni del secolo scorso.  Su Roma, sui romani, e sul romanesco, inteso come lingua gergale parlata da molti personaggi del libro, con sfumature differenziate e colorite con molta grazia e acume, vorrei soffermarmi perché si tratta non del fondale della storia, ma di una specie di super-personaggio collettivo, un Idra con migliaia di teste, che  spuntano da ogni anfratto per partecipare all’epopea della fuga del pavone, e del suo inseguimento da parte dell’imprevidente affidatario, l’architetto Giulio Campenni, fiorentino come Sandro Schwed. Non è un caso che il carattere romano, l’ironia tagliente,  la maschera cinica e beffarda, l’umorismo sardonico o bilioso, siano stati compresi e rappresentati con grande efficacia da scrittori non romani. Vengono in mente naturalmente i grandi del Novecento: Gadda e Pasolini. Ma anche gli autori del cinema e della commedia in particolare, convenuti a Roma nel dopoguerra da tutta Italia: Flaiano abruzzese, Sonego veneto, Risi lombardo, Monicelli toscano.  Quella Roma -palcoscenico o set cinematografico permanente, abitato da due milioni e passa di caratteristi e di comparse, veri professionisti della gag e della battuta- l’ho ritrovata con grande piacere in questo libro. Anche Sandro Schwed ha sciacquato con successo i panni nel Tevere. Creando una sua galleria di personaggi, come il gigantesco ebreo romano Elvio Spizzichino, di mestiere centurione al Colosseo. Il rimpianto è che a volte Roma non sembri più così, ma che attualmente stia passando,  come succede ogni tanto a tutti noi, un periodo intermittente di cattivo umore.

2.    Oltre che all’ispirazione comica che nasce da Roma e dai romani  mi sembra che questo libro sia debitore anche a un altro aspetto importante della formazione umoristica di Sandro, quella pertinente alla cultura e all’ambiente ebraico. Nella “Via del pavone” campeggia la figura di Nelly Terracina, detta “Napoleone”, figura che il protagonista fatica ad associare alla parola “mamma” (è la mamma di sua moglie), ma che piuttosto, secondo l’autore, “è plausibile associare a “cactus”, “Tagliola” e onestamente anche a “Soda caustica”. Un personaggio che sparisce di scena quasi subito, in viaggio con la figlia verso una meta di vacanza, ma che, come legittima proprietaria del pavone scomparso,  incombe sul resto del romanzo come una spada di Damocle, ossessionandone il protagonista. Questa minacciosa e divertentissima super-matriarca ricorda la mamma tirannica del lunatico Woody Allen che, in un episodio del film collettivo “New York Stories”, ricompare dopo la morte come fantasma nel cielo di Manhattan, continuando a tiranneggiare il figlio con i suoi consigli non richiesti.

3.    Maternità avvolgente, paternità sfuggente.  Nel mondo de “la via del pavone” le proprietà, il denaro e il potere si tramandano di madre in figlia. Gli uomini, esclusi da questo cerchio magico, sono sfuggenti, o letteralmente in fuga. Sradicati, deterritorializzati, prolificano ma sfuggono alla paternità. Uno addirittura riparato da decenni in India, per scelta esistenziale, il padre del protagonista;  quest’ultimo invece vive a Roma, dopo aver lasciato un figlio a Firenze, nato da una relazione giovanile e cresciuto senza di lui. L’apparizione di questo personaggio è la sorpresa dell’ultima parte del romanzo. All’inizio della storia c’è infatti una telefonata misteriosa, qualcuno con cui Giulio parla sottovoce, per non farsi sentire da moglie e suocera, e che chiama affettuosamente “amore”. Il lettore smaliziato pensa subito a un’amante segreta da incontrare nella più completa libertà, come da copione, quando la moglie è in vacanza. E invece ecco comparire il figlio di Giulio, Riccardo, ormai giovanotto. Un figlio tenuto segreto alla suocera, per non esserne ripudiato e soprattutto per non perdere i benefici economici che spettano alla moglie, e di conseguenza anche a lui.  Oltre che un calcolo meschino, un rifiuto di crescere, il crogiolarsi fuori tempo massimo in una beata irresponsabilità, che forse è la chiave del protagonista, e che l’umorismo dell’autore giudica con un sorriso. Ma non preoccupiamoci, dopo una giornata passata alla ricerca del pavone, si riscatterà anche lui.

4.    Già, ma il pavone? Il pavone svolazza più che volare per la città e si sottrae a ogni tentativo di cattura. Mi piace pensare che sia ancora in giro tra noi e che, nel suo esibizionismo, faccia la ruota a sorpresa a beneficio di qualche perfetto sconosciuto. Come un vero romano il pavone è vanitoso, menefreghista e amante della libertà. Ho scoperto su wikipedia che è originario dell’India e che è stato importato, manco a  dirlo dai romani, che lo mangiavano volentieri, e, senza preoccuparsi della contraddizione,  lo ritenevano divino e immortale.

 

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