Schwed RaccontaSu e giù per la tastiera |
C'ERA UNA VOLTA MONTALCINO
JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED
Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.
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Post n°12 pubblicato il 30 Dicembre 2010 da Jiga0
Forse gli anni Trenta. Una cittadina della provincia francese. Marie-Thérèse è entrata nell'adolescenza. Sua madre, la signora Plasse, è una vedova indurita da un matrimonio di ripiego: il vero amore le fu sottratto dalla sorella. C'è una religiosità arida e una casa dove le stanze sono fatte di ossessioni invece che di mattoni. Arriva Manuel, adolescente anche lui, figlio orfano del mancato marito della signora Plasse: ragazzo brutto, inquieto e sadicamente rimproverato dalla zia di essere brutto. Garzone in un tugurio che è la libreria del paese, ama in segreto la cugina, appena uscita dalla superficiale idea che lei sarà suora. A strapparla da una fede senza basi e da una falsa vocazione sono il cinismo autoritario della madre e lo scandalo derivato dalle avance indesiderate del cugino, tubercolotico come in un melodramma sprovvisto di sentimentalismi. Una passeggiata notturna chiesta dalla cugina fa deragliare la traballante salute di Manuel che tenta un timido approccio, ed è respinto. I due ragazzi sono sconvolti da qualcosa che non è minimamente avvenuto e ha fine quanto di spensierato era rimasto delle due infanzie. Sono i preamboli del romanzo quasi surrealista "Il visionario", di Julien Green, uscito ora in Italia, ma edito nel '34 in Francia, dove lo scrittore e drammaturgo americano visse tutta la vita, stimato da Breton e Benjamin, divenendo poi accademico di Francia. Dopo la passeggiata, Manuel si ammala e le pulsioni di eros sono poca cosa: dalle sue inadeguatezze nasce un'enorme sofferenza - è a lei, alla sofferenza, che siamo affacciati come ad una finestra, nella vita. Turbata, Marie-Thérèse si confessa da un gigantesco prete, una specie di commissario di polizia che trasfigura in colpa il suo turbamento per la passeggiata notturna col cugino, ma lei non avrebbe da confessare se non che non conosce la vita e che il ragazzo si è ammalato a causa della passeggiata. Ma vediamo che tutti sono come malati, schiacciati da un angoscia tossica: la signora Plasse ce l'ha con la vita, il confessore teme la colpa - l'angoscia è la nostra malattia terminale. Il religioso accusa la bambina della colpa che lei avrebbe potuto commettere se fosse avvenuto quanto non è avvenuto per un'inezia, e la sua paura genera la paura della bambina: una catena di paure che appare senza fine. E' l'inizio di un serrato tango romanzesco, danza con la morte e quanto la circonda: religione, paure, stanze sudice dietro le facciate normali; e spiare la morte degli altri per avere notizia di che proveremo e di cosa vi sia dopo. Ne "Il visionario" c'è la bellezza visionaria della letteratura, che racconta i turbini ravvisabili solo dalla letteratura: gli stati in cui viviamo, che vanno e vengono in noi, vestiti di normalità: scoppi d'ira, pulsioni sessuali inconfessabili, sublimazioni, fede fittizia. La voce narrante diventa quella di Manuel, e c'è il balzo del romanzo, un capitolo intitolato "Ciò che avrebbe potuto essere". La penna del ragazzo, ovvero di Julien Green, scrive nella terra di confine tra realtà e sogno - la doppia vita di chi immagina un mondo parallelo e ne scrive, la doppia vita di chi fa il romanziere. Manuel immagina sino a farci dimenticare che immagina, e l'immaginazione diventa realtà: va a vivere in un castello accanto al villaggio, in un sali e scendi di scale e torri che ricalca la tortuosità irrazionale dell'esistenza. Si emancipa oniricamente da schiavo, a valletto, a confidente, ad amante della contessa. Spia con gli altri l'agonia dell'anziano uomo recluso in una torre e che nessuno vede, ma di cui tutti sanno, come un relitto indimenticabile: il castellano, l'uomo che un tempo era potente. La sua esistenza ormai involontaria, designificata da una debolezza assoluta, dai dolori, dall'attesa impotente della morte, fa impazzire i figli e gli abitanti del castello perché questo è il futuro di tutti. Come scrisse Benjamin, "Proust evoca l'ora magica dell'infanzia, Green fa ordine nei nostri più remoti territori". Alessandro Schwed 30 dicembre 2010 , Il Foglio
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