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Un blog creato da Jiga0 il 21/11/2010

Schwed Racconta

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JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED

 

Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.

 

 

 

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IL TESTAMENTO DI TITUS

Post n°34 pubblicato il 23 Marzo 2012 da Jiga0
 

  Titus

 

La cerimonia funebre per il piu' famoso re gorilla ci ricorda che l'anello mancante è nel giardino della Natura

 

 

E' di poco tempo fa un insolito comunicato  dell'ufficio del turismo e dei parchi nazionali del Ruanda che annunciava la morte di un gorilla chiamato Titus. Il tono era di protocollare costernazione, come se fosse venuto a mancare un capo di stato molto popolare. In effetti era così. Titus era il re dei gorilla. Nato trentacinque anni fa con un fisico gracile per poi divenire un esemplare di duecento chili, con il suo dorso argentato e quella mole di dominatore  era assurto a celebrità mondiale come protagonista di un  film con Segourney Weaver.  Questo primate che ha avuto più figli di ogni altro primate censito, poi è fatalmente morto per il dispiacere causato da un figlio che gli stava portando via l'ultima moglie, in una scena quotidiana che lui seguiva nascosto tra gli alberi e umiliato. Titus era stato molto amato dal popolo dei gorilla. Nel 1983, durante la sanguinosa guerra civile in Ruanda, aveva condotto il suo clan in salvo, lontano dai massacri. Dopo quindici anni di eccezionale stabilità per un regno di primati, il trono fu rovesciato da uno dei figli, forse lo stesso che lo ha fatto morire di infarto. Titus dal dorso d'argento accettò di buon grado di non essere più re, rimase nella tribù la quale continuò ad essergli devota, il che significa che ogni giorno gli hanno portato il cibo nella tana o sugli alberi. Ma la cosa più  importante che lo riguarda, è accaduta dopo la morte. I membri della famiglia, mogli, figli, nipoti, sono arrivati sul luogo dove giaceva il corpo, si sono messi a rispettosa distanza e hanno fatto la guardia, impedendo agli esseri umani di avvicinarsi alle spoglie. Poi, alcuni di loro lo hanno lavato. Nel corso della riunione, il figlio maggiore, quello che gli ha causato l'infarto, ha alzato la testa e ha lanciato grida prolungate e cupe, e così hanno fatto gli altri familiari. La quale cosa assieme a tutte le altre assomiglia a un che di luttuoso. Abbiamo la libertà di immaginare che i lamenti dei gorilla abbiano chiesto a cielo, aria, alla foresta, agli spiriti della Natura-Dio, dove fosse finito re Schiena d'Argento, che li aveva tanto protetti e che prima era sempre vivo. Anche se presso i primati esiste una cerimonia di solenne rispetto e tristezza così simile a delle esequie di stato, non è una prova che gli uomini vengano dalle scimmie; di certo, si percepisce nei gorilla la consapevolezza della morte e che la morte esige rispetto e un congedo  - il punto è quanto possa estendersi la memoria di Titus nei primati: a questa generazione e basta, o prosegue?  Siamo propensi a credere che si fermi in questa generazione. Ma si percepisce un'antica epoca comune di uomini e gorilla, un patrimonio su cui è calato un oblio violento; una cancellazione ascrivibile al tempo infinito trascorso, e magari a un trauma collettivo. E se i gorilla fossero errori di costruzione genetica, se la selezione naturale avesse bloccato i rapporti fra uomini e primati, essendo i primati una specie dalla crescita bloccata per mancanza di una memoria che oltrepassi la singola generazione? Una specie senza mai un futuro? Se fra le due comunità ci furono rapporti e poi gli uomini decisero di porre fine all'unione, magari per la nascita di creature mostruose, non lo sappiamo per una rimozione o per un deficit di memoria che la scienza oggi non sa colmare.  Solo i  miti ricordano quello di cui un tempo ci si ricordava; ma i miti non hanno voluto costruire memoria su tale punto che assomiglia a un giallo dai risvolti agghiaccianti. Di oggettivo, rimane l'aspetto  meravigliosamente equivoco della natura. In ogni caso, dopo le "esequie" di Titus mi sono messo a pensare agli animali, che sempre ci danno notizie, ci rinviano a qualcosa. Mi sono messo a pensare come uno che stia fermo e a un tratto riceve una spinta,  e così, volente o nolente, si muove - traballando, ma si muove. Potrebbe esserci stato un tempo in cui uomini, scimmie, cavalli, anatre, lupi, ma tutte le bestie di cielo terra e mare erano fluidamente una società; prima che si frantumasse l'unità della vita, e che i mitologici primi uomo e donna, Adamo ed Eva,  aprissero gli occhi e si vedessero reciprocamente nella cosiddetta nudità; deve esserci stata una fratellanza con gli animali, prima che l'uomo si accorgesse della tremenda povertà della sua condizione. Durante l'infanzia del mondo, allegoricamente descritta in Genesi, noi e gli animali ci  capivamo: sapevamo chi fosse il Re generatore e con il serpente discutemmo anche di politica. Questo accadeva prima che noi, e loro, cacciati tutti per un terribile errore umano, scoprissimo la fame, la sete, il dolore, e peggio ancora, la morte. E così, prima che la necessità sviluppasse la conoscenza come violenta discontinuità con l'armonia, noi e gli animali ci frequentavamo. 

Oggi, consideriamo gli animali singolarmente: il cavallo mentre tira la carrozzella con sopra i turisti che ridono; il cane che corre nel parco e quasi ride riportando il bastoncino al padrone; al  telegiornale, la balena arenata sulla spiaggia.  Eppure, per quanto nelle nostre città noi li si incontri solo uno alla volta ed essi  vivano in esilio dalla natura e separati tra loro, gli animali riescono a mantenere una sorta di unità politica dentro di noi. Sono depositari dell'idea di istinto. Portano impresso lo stile iniziale. Lasciano intravedere che tra noi e loro corre qualcosa come tra i membri  di una nazione. Davanti a noi, ora, gli animali domestici sono come sonnambuli; assumono inerti le conseguenze dell'esilio dalla natura; subiscono le nostre abitudini e il nostro ego. Dormono in attesa che torniamo a casa; davanti al frigorifero, miagolano e chiedono il latte che possono avere solo tramite noi, invece di andarsi a procurare una lucertola come i loro avi. Gli animali selvatici poi sono remoti, dall'altra parte del mondo. Corrono su un altopiano; volteggiano su cime di montagne innevate; scivolano sul fondo degli oceani e molti non sono mai stati visti. Se no, smembrati e cucinati sono parte irriconoscibile di un bue, di un suino, di un pollo, di un gran pesce esotico, di popolare tonno - animali come cibo. Animali in mezzo alla natura, come improvviso pasto di bellezza; simboli di Giuseppe il sognatore e di Giovanni l'apocalittico; inchiodati alla parete, teste o corpi di una collezione imbalsamata. Notizia del mondo primordiale dai graffiti di una grotta; depositi di vertebre per lo studioso e per il pubblico di un museo. Imbambolata proiezione psichica: "Lulù, pappagallino di mamma!". Oggetto di delirante conversazione in treno: "Guardi, gli animali son meglio dei cristiani!". Intontita osservazione davanti al televisore:  "Quel delfino sembra parli!". Poi gatti, cani, delfini non parleranno mai - ma sogniamo il tempo in cui lo facevano, sogniamo che lo facessero - ci servono per sognare. Nel simbolismo cinese, dove sono presenti gli animali selvatici e non i domestici, la tigre ha una luce che splende sulla testa e ha potere di  comprendere se un uomo è buono. Più sommessamente, vedo che il mio gatto torna subito a casa quando lo penso - è telepate. D'accordo, siamo uniti: ma a quale fine?  Ora che abbiamo classificato tutti gli animali, dal primate al mollusco, che trapiantiamo il cervello ai topi, ricacciamo nel buio impressioni che forse sono suggerimenti. Dice Filone l'alessandrino che quando gli animali furono nominati da Adamo, ricevettero il nome come segno di singole passioni umane, le quali sono paragonabili ad animali selvaggi, e vanno domate. E allora, quando l'uomo conosce ogni parte di sé, è ricco, e quando non la conosce, è debole. Ora che non conosciamo gli animali come ad esempio li conoscono i contadini, in modo familiare; che è svanita la sapienza dei bestiari e gli animali non fanno da specchio con il loro carattere,   non c'è da meravigliarsi se non sappiamo che compiti abbiamo nel posto chiamato mondo. Guardiamo un  gorilla: ride e piange, e chissà se davvero ride e davvero piange; lava un morto, o sembra che lavi un morto? E per quale motivo non dovrebbe avere il sentimento di lavarlo, per non perdere il nostro primato spirituale? Il nostro primato è dunque così miserabile da essere messo in discussione dal fatto che i gorilla piangono come noi, o c'è un lato della vita che è senza fine, scivola in avanti e non riusciamo a sfiorarne la comprensione?  In ogni caso, gli animali sono degli incompresi. Noi li abbiamo. Li collezioniamo. Non li conosciamo. Finiti nelle nostre mani, non sono più veri cani, veri gatti, veri canarini. Sono ombre. Camminiamo con loro, stiamo in groppa a loro, giochiamo con loro, parliamo a loro, ma ci rivolgiamo a prigionieri. Creature ignare di avere perso il proprio regno - come noi? Chissà che succederebbe, a scoprire gli animali. Ah - scoprire gli animali. 

 

Ventanni fa lasciai la città e con mia moglie andammo a vivere in una valle di fronte al monte Amiata, nei boschi e in mezzo alla natura. Entrammo in un altro ordine di vita. C'erano  templi naturali fatti di ulivi, fichi selvatici, giganteschi e improvvisi arcobaleni che andavano da una parte all'altra della valle, funghi e fiori  e  giacimenti di insalata selvatica e legna fine con cui avviare il fuoco. Poi affiorarono gli animali. La notte, da sotto le finestre di un vecchio tentennante podere nel cuore del bosco, pervenivano borbottii, un raspare alla porta che poteva essere turbinare di foglie secche. Al mattino, nei praticelli intorno casa c'erano tracce di rami rotti che il giorno prima erano interi, un minuscolo sterco, e il cibo che avevamo dimenticato su un piatto era sparito; e un giorno, un sasso che pareva un sasso appoggiato alla porta di casa si mosse ed era un porcospino: era lui che veniva a prendere il cibo che avevamo iniziato a lasciare ogni sera a un amico sconosciuto e fedele. A notte, venivamo con la macchina e incontravamo file di cinghiali che attraversavano pazienti la strada bianca; ci fermavamo e contavamo i piccoli cinghiali dietro la madre e una volta ne contammo tredici. Una sera, sulla cassetta della posta, davanti ai fari, turbinò il biancore di un gufo reale, come neve in volo nella notte. E c'erano daini che guardavano da lontano come se non guardassero, in tralice, e avevano la groppa già piegata per scappare; e aquile che calavano dagli altipiani e scendevano  fino a radere la campagna e forse a scrutare che facessimo dietro quelle finestre. I due giovani cani che avevamo tornavano felici da lontano, nei fianchi avevano i morsi fondi dei cinghiali e non uggiolavano - potenza della libertà. Quando uno dei cani morì, fu per lo sparo di un cacciatore.  

 

Ero ragazzo. Avevo un cane, si chiamava Vaniglia. Era una femmina di restone, bionda; anzi: gialla. Come accade spesso tra padrone e cane, mi somigliava. Veniva alla redazione del giornale dove lavoravo; si accucciava sotto al mio tavolo, e alla riunione di redazione sotto quello dei grafici. Il giornale era satirico e misi il nome del cane sul tamburino. In seguito, Vaniglia entrò anche nella sigla di un varietà televisivo. Ma ecco che successe la prima volta che la portai al mare. Non aveva neanche un anno. Si mise a riva, davanti alle onde - sotto i minuti spruzzi bianchi. Osservava le acque con rispetto. Il tempo passava, e composto e in silenzio, quel cane non smetteva di farsi uno col vento e col mare, come se a un tratto avesse visto casa e ci fosse finito dentro. Quello lì davanti al mare era il vero cane, non quello della sigla Tv. Ma continuai a non conoscerlo. Quando il cane fu vecchio, andai a vivere in campagna e lo lasciai libero di andare e venire. Senza collare, senza tavoli sotto i quali stare, fu incontrollabile, ridivenne animale: razziò un pollaio, era una piccola fiera. Sparì. Credevo fosse morta. La rividi da lontano, dopo un anno: era su un crinale, correva alla testa di un branco di cani randagi, di quelli persi dai cacciatori.  La chiamai: fu come se non sentisse. Corse avanti ancora. Era parte della natura.  Non la vidi più.

 

In Genesi 1-21, il testo dice: "...Dio creò i grandi mostri del mare e tutto quello che vive e guizza nelle acque. E Dio vide che era bello".  Il passo è abissale. Come può un grande mostro essere bello, anzi, giudicato bello? Eppure è vero, dato che risuona in noi. La bellezza animale dei mostri strega lo sguardo.  Una piovra che vortica in una giostra di spuma, lo sguardo vitreo del pescecane sopra l'abisso dentato e un colpo di pinna che taglia l'oceano come fosse burro. In questo v'è energia e allegria, una visceralità della vita che toglie il fiato. Nel quadro del Tintoretto, "La creazione degli animali" un Dio canuto  e gagliardo come un ragazzo temperamentoso, cammina nell'aria dato che è Dio. Lo vediamo di profilo, proiettato in avanti in un gioco di cui è entusiasta. Fiancheggiato da cielo e mare, il Padre-Ragazzo dell'Universo è colto nel grandioso gesto creatore degli animali. Uccelli e pesci appaiono già lanciati nell'aria, in volo come schiere di frecce. Alle spalle del Dio dell'entusiasmo e dell'energia, in mezzo a   poche fronde, premono il muso di un cavallo, di un cane e altri volatili ancora, tutti impazienti di partecipare al mondo nuovo di zecca. E' di questa immane famiglia che ci viene raccontato, dove il padre degli uomini è più di conduttore e guida, più di pastore: è padre generativo di ogni specie.  

 

Sul sito internet del parco nazionale del Ruanda c'è una foto scattata sulla tomba di Titus, subito dopo la sepoltura.  Si vede una lunga linea di persone. Sono gli inservienti del parco, in tute da lavoro blu oppure verdi. Una quarantina di persone di colore, e un bianco. Le loro espressioni sono meste e solenni, degne di un'occasione storica e di una giornata da ricordare. Sono gli amici di Titus ritratti accanto alla tomba del re che pesava duecento chili, che era morto a 35 anni, aveva regnato su un piccolo popolo che alla morte aveva lavato le spoglie e montato la guardia al suo corpo gigantesco. Sopra la tomba c'è un cartello con scritto "Titus riposi in pace. Nato il 24 agosto 1974. Morto il 14 settembre 2009". Se i fumetti sopra le persone esistessero anche nella vita, sopra le teste di tutte queste persone intorno alla tomba di Titus ci sarebbe un grandissimo fumetto con scritto il pensiero di tutti i presenti: "Che re era Titus, il nostro amico" e alla fine, un punto esclamativo. E proprio adesso penso che l'anello mancante che i darviniani cercano, è l'anello spezzato dalla fine dell'armonia; che uomini, gorilla e animali erano fratelli, e gli uomini  responsabili dell'intera natura - giardinieri. Poi la responsabilità fu lasciata cadere. Da quel momento tutto fu diverso. La foto intorno alla tomba di Titus illustra il mondo come era. Come era l'unione della natura. Ogni tanto si riesce a vedere tutto questo, stando di vedetta in mezzo alla nebbia. 

 

 ALESSANDRO SCHWED

IL FOGLIO, 19 OTTOBRE 2009

 

 

 

 
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