Schwed RaccontaSu e giù per la tastiera |
C'ERA UNA VOLTA MONTALCINO
JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED
Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.
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di Jiga Melik (Huffington Post 09/03/13)
Ho oltrepassato da ben undici anni quello che pudicamente chiamo mezzo secolo, e adesso sto come quando mi morì Jimi Hendrix. Ieri all'alba, mi è morto anche Alvin Lee. Sai, la chitarra rossa dei Ten Years After a Woodstock.
Per quanto mi riguarda, il palco di Woodstock è rimasto vuoto. Alvin Lee suonò quel pezzo a folate di rock'roll, fraseggi rapidi, e ritmati, e con la voce nasale ripeteva: "I'm goin' home...going home baby, lock at me, baby, I'm comin' and get you, one more time". Vado a casa...vado a caso piccola, ti vengo a prendere... - si girava, guardava il gruppo, e sotto con la Gibson a riprendere il riff, a manciate: "Dai, un'altra volta", one more time, come quando bisogna riprendere lena e il pezzo ricomincia - cose del rock.
Il film del concerto di Woodstock fu un evento imperdibile, mi sembra che uscì l'inverno del '70. Entrai al cinema Ariston di Firenze alle tre del pomeriggio di un lunedì, primo spettacolo, e primo giorno di programmazione. Avevo diciotto anni, i capelli arrivavano fino alle spalle nonostante i divieti di mio padre. Nelle orecchie, avevo i Cream e Hendrix, da ogni mattino a ogni mattino dopo. Venne il film di Woodstock, e fu una benedizione, lì non ero potuto andare.
Lo avevo vagheggiato, discusso, adorato ed ero rimasto a Firenze. Era talmente lontano, Woodstock, da essere una mitologia nella mitologia. Lo avevo intravisto in un telegiornale in bianco e nero e nelle foto a colori delle riviste musicali. Ripeto, erano le tre del meriggio, al cinema non c'era nessuno, solo il profumo delle poltrone di velluto. Mi misi a sedere. Non conoscevo i Ten Years After e questo loro Alvin Lee, se non forse dal Melody Maker, la rivista inglese di musica rock e pop che andavo religiosamente a comprare sotto i portici del centro. Insomma, dal punto di vista dell'emozione musicale, andare a vedere Woodstock per me era andare a vedere per la prima volta nella vita Jimi Hendrix in azione, perché allora non c'era YouTube, e così entrai nel cinema vuoto pensando solo a questo, che ero andato per Jimi che suonava il suo inno americano e Purple Haze.
E avrei visto la mia nazione, accampata e gioiosa, proprietaria balorda dell'eterna giovinezza. Mi misi a sedere. I Santana, Richie Havens ruggisce Freedom, e Joe Cocker, la voce roca, i movimenti convulsi e irregolari, le braccia fuori schema che sembrano tracciare una scritta obliqua nell'aria. Magnifico, non c'è altro da dire. Poi arrivarono i Ten Years After. E c'è questo qui, capelli lunghi, biondi, un tono inglese pacato. Credo che farò I'm goin home, sussurra. Come se dicesse, va bene, ora faccio merenda. Uno è lì al cinema, è l'inverno del 1970, danno Woodstock, i Ten Years After non li conosce, non lo sa quello che sta per succedere. E mentre accavalla le gambe, parte una tempesta di rock'n'roll da far drizzare i capelli i testa come aculei.
La poltroncina rossa al cinema Ariston diventa una sedia elettrica. La chitarra di questo Alvin Lee scarica note a dozzine, rudi, veloci. Guardavo l'orologio, volevo sapere quanto tempo avessi ancora per presenziare a un fatto inesplicabile; e a quanto pareva il tempo proseguiva, l'assolo proseguiva, e Dio come ero fortunato che non avesse mai fine, undici minuti di quella pazzia, sembrava che smettesse, invece ricominciava. Da dove veniva questa energia, da dove veniva? Parlavo da solo nel cinema vuoto, quella chitarra era una centrale elettrica che illuminava il ventesimo secolo. Io proseguivo a trasecolare, la bocca spalancata. Gioia furiosa.
Gettavo uno sguardo di lato, il cinema irrealmente vuoto e sullo schermo settecentomila ragazzi coi capelli lunghi facevano una festa finita mesi prima, ma la festa faceva il giro della terra e arrivava sino al cinema Ariston di Firenze, e in sala c'eravamo io e il Magro. E basta. Semmai c'era anche la maschera e avrà chiamato la cassiera: "O Luisa, vieni a vedere, questi sono bischeri spanati". L'unica delusione, il cinema vuoto. Del resto, era il primo spettacolo del lunedì pomeriggio, i normali erano a casa a fare i compiti: gente esangue. Morti, pensavo, siete morti.
E così, vi dico, c'eravamo solo io e questo ragazzo coi capelli castani lisci fino a tre quarti della schiena. Lo conoscevo. Era così magro che mi chiedevo se fosse per povertà e perché proprio era magro. Portava sempre il gilet e sotto niente neanche a gennaio. Camminava le braccia di lato, inarcate come molle come quelle dei cowboys che stanno con le mani accanto alla fondina. Apriva la bocca e spuntava un fiorentino sguaiato. Solo che parlava poco. Mi sorrideva perché eravamo della stessa famiglia, e allora che fai, non saluti tuo fratello? E sorridevo. Neanche sapevo come si chiamasse, col sorriso sguincio sempre acceso.
Ci vedevamo ai concerti, sotto il paracadute dello Space Electronic, il primo locale underground nato in Italia, una ex officina per riparare le auto. Lì venivano i grandi gruppi americani e inglesi: I Canned Heat, Brian Auger, Rory Gallagher. Lampeggiavano e sparivano. Vite da irregolari, mostrate ad altri irregolari. Poi, uno dei Canned Heat era ispanico e mezzo indio, mi sembra, finì fatto a pezzi e messo in una valigia, e ne parlammo affascinati. Rory Gallagher, altro straordinario chitarrista, era irlandese e suonava con i Taste. A Firenze, cadde dal palco alto dello Space Elettronic durante un assolo furioso. Mai visto qualcuno rimanere così allegro mentre forse muore.
Per qualche interminabile istante, dei minuti, rimase sospeso in aria, impiccato al cavo della chitarra senza che nessuno si decidesse ad aiutarlo - rideva con il cavo elettrico intorno al collo e la Fender in mano, eravamo ipnotizzati e nessuno faceva niente. Lo salvò Tony Sidney, grande chitarrista italo-americano, che poi suonò nel Perigeo. E così, al cinema c'eravamo io e il Magro. E quando Alvin Lee finisce l'assolo che lo lancia nella Storia del '900 e se ne va formidabile dal palco, in mezzo al grido felice di settecentomila, in spalla porta un trofeo, quel gigantesco cocomero della campagna di Woodstock.
La nazione hippie batte le mani, lui sorride, la giovinezza gli fa scintillare i denti, e lui sa di aver fatto l'impresa, diciamo un orlando furioso con una Gibson rossa fine anni Cinquanta, con sopra il simbolo di facciamo l'amore non la guerra. E sono in piedi nel buio del cinema e mormoro mamma mia, mamma mia, e so di aver partecipato alla Storia anche se qualche mese dopo, e per sicurezza, e per gioia, rimango al cinema fino all'una di notte, e rivedo Woodstock penso quattro volte. Il cinema si popola, si affolla, e ci sono gli applausi, Alvin e Jimi Hendrix, Jimi Hendrix e Alvin.
E come certe volte della mia giovinezza, anche lì al cinema Ariston mi agguanta un presentimento di totalità, che io possiedo la vita e la cavalco come niente e so che non è affatto vero e non dura, è una bugia meravigliosa, e nel buio rido e piango e penso che me ne devo ricordare perché invece la vita è breve e queste cose capitano due volte o tre. Ed ecco, l'ho appena fatto. Ho ricordato. E infatti, caro Alvin nato a Nottingham, ma più che altro nato a Woodstock, oggi che sei morto all'alba e lo so stasera, sono triste tutto di un pezzo, come quando mi morì Jimi Hendrix. Sei uscito, e in spalla avevi la nostra giovinezza come un magnifico cocomero fresco. Il sette aprile dovevi suonare con Johnny Winter all'Olympia di Parigi. Sarebbero state scintille. Alzo il bicchiere, alla salute.
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