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Un blog creato da Jiga0 il 21/11/2010

Schwed Racconta

Su e giù per la tastiera

 
 

ICONA RIVISTA IL MALE

 

JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED

 

Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.

 

 

 

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CARA PAURA, IO TI SCRIVO

Post n°81 pubblicato il 20 Marzo 2013 da Jiga0
 

 

Lettera di protesta a colei che esiste solo dentro di noi  (Il Foglio, 14 marzo 2013)

di Alessandro Schwed

Paura, il tuo cocktail ci sta ubriacando. Ricetta: una parte di realtà mondiale, due parti di irrealtà, e il ghiaccio della sorpresa. Facciamo così, Paura: adesso io approfitto di essere sobrio, mi faccio coraggio e ti scrivo. Non devi montarti la testa, qualcuno pensa a te anche ridendo. C’è chi ricorda per tutta la vita quando vide Psycho, di Hitchcock. Dunque: è il 1960, uno è al cinema. In una cantina su una sedia a dondolo c’è una donna anziana, i capelli bianchi. Non è vera vecchiaia, è la parrucca che si mette il giovane protagonista senza saperlo. Uno schizofrenico. Nel  buio dei cinema la gente strilla di terrore. Altri ridono. Perché avere o meno paura, è un fatto del carattere. Ma dimmi: dove abiti, Paura? Forse sulla luna. Lontana da acqua, aria, lontanissima dalla  speranza. Nel regno fantascientifico della marmificazione, dove la moglie di Loth ti vide e divenne di sale.  Non è scritto cosa fosse esattamente ciò che lei vide prima di cristallizzarsi - per non far sapere che fece in tempo a dire come sei. Ed eccoti di nuovo: qui. Emergi da un’insondabile palude, nerissima, col tuo volto di Paura. Ma come uscire di metafora, se accade adesso che un fantasma si aggiri per l’Italia ed è un’altra metafora? Come distinguere la fantasia torbida dalla disgrazia che potrebbe inverarsi? Come esprimere che la vecchia Paura va intorno col cappotto della nuova, vestita da Equitalia? Ti guardo con prudenza, Paura, discendente del buio. Ti incarni in una persona, poi  in un’altra, in una famiglia, contagi una nazione. Mastichi la giornata dei debiti e la rendi una polpetta, ma ti riconosco tra i frammenti: sei tornata da noi. Eri maturata, incubavi. Di recente era anche apparsa la tua sosia, una paura finta che non poteva fare paura. Una paura giocattolo, della lego e da legare, paura baby, vezzo della fine del mondo. Il vaticinio Barbie dei Maya. L’ammoina che dopo avere rotolato nelle ere sul panno seppia delle galassie, il mondo finisse per appuntamento in buca, come una pallina da biliardo. L’idea di morire per una profezia che è uno scoop e mettere all’incasso il thriller della fine, la musica della fine del mondo, i gadget e il rossetto della fine del mondo, i giochi di playstation e i film, i villaggi-vacanza della fine del mondo. Vi dico: la fine del mondo! Mentre la paura vera stronca. Quando sei tu, è buio, siamo nelle tue mani. Si accendono le luci e le mani che ci stringevano al collo erano le nostre. Bugiarda. Commediante. Maniaca seriale. Ora sei a poche centinaia di chilometri, rare immagini greche dal web, silenziate dalla campagna elettorale. C’è una calca, urla sotto a un camion dove distribuiscono arance. La ressa dei poveri. Si spingono, hanno paura di non riempire le borse, le mani, quello che capita. La Paura è che hanno giacche a vento, scarpe da ginnastica e allora sono come noi. Perché non farci vedere, mentre prima era un continuo farete la fine della Grecia? Paura di farci capire. E stai tornando. Ghiacciatrice. Terrorista. Giorni fa Pistorius uccide la fidanzata come in un film di Brian De Palma. Lui androide, lei bellissima - una notizia da paura. Di solito  ci visiti in brutti sogni, tra stanze in rovina. Scateni l’istinto di sospendere tutto. Saresti la paura di sempre, solamente che non ti conoscevamo nel dilagare della tua potenza, ma dai racconti sulla guerra dei nostri genitori. E adesso, che tu urli o mormori, noi sussultiamo.  Eravamo abituati a pattinare sullo specchio ghiacciato del cinema, ai missili intelligenti visti in Tv, da duemila chilometri. Mica all’evidenza di privazioni che non sopportiamo di chiamare povertà - ma anche se facciamo gli amabili  e alla domanda come va? rispondiamo con metafore: “è dura”, “in trincea”, “insomma” - che sono le privazioni se non povertà? Il fantasma del lavoro fa paura,  la spending review domestica fa paura, la conta delle monete nel borsellino come i poveri di Dickens, fa paura. Tutte le  notti a girarsi nel letto, pronti a impugnare le gocce di camomilla. Ti sento muovere, Paura. Fai cigolare porte, a un tratto scricchiolare mobili, muovi ombre per il gusto immortale di spaventarci. E anche quando la minaccia è vera, è teatro dell’inconscio. Ansimi, ma stai recitando: tu sei agilissima. Rantoli: non hai nulla. Lo speaker del telegiornale legge la notizia, sulla camicia bianca ha un vivace papillon: “…Brescia. Si impicca all’alba piccolo imprenditore”. Intangibile paura, ma soda come i tuoi proiettili cardiaci. Sei in forma. Ci insegui, corroborata dai nostri occhi sbarrati. Quando te ne andrai?  Derivi talmente dalla crisi che diciamo crisi, ma potremmo dire paura. E la paura è addentrarsi in un pericolo sconosciuto. Dante: “…Ahi quanto a dir qual era, è cosa dura 
esta selva selvaggia e aspra e forte 
che nel pensier rinova la paura!”. E quando il soldato Sc’veik viene arrestato all’osteria  per avere detto che c’è una cacca di mosca sul ritratto di Francesco Giuseppe, Hazek sostituisce la paura con una risata. Ma è una breve pausa. C’è stato l’attentato a Sarajevo e sta per iniziare la Prima guerra mondiale. Durante il bombardamento di Genova, mia madre ebbe paura di una cantina dove non voleva andare, ma poi dovette andarci e tornarci, impallidendo per   quella cantina più che per le bombe; e la notte dell’alluvione di Firenze, temette di rimanere sigillata con noi in una stanza al secondo piano, sopra a casa nostra invasa dall’Arno, mentre i camion per strada sbatacchiavano fra loro. Se no, Paura, metti vestiti normali e ti intrattieni col terrore domestico. Soffi il tuo vento sui matrimoni perché vadano fuori strada, ci suggerisci che i vicini faranno causa e vinceranno. Fai cadere a un passo la pentola dell’acqua bollente. Ma questo lungo giro che è in corso, è il giro della penuria: è diverso. Entri nelle case senza bussare. Nessuna bomba, annunci di licenziamento, bollette che sono colpi di cannone. Paura di non pagare l’assicurazione della macchina, dell’auto da riparare che giace non riparata accanto al marciapiede. Paura di non fare più viaggi. Di rimanere per sempre dove siamo, più alberi che persone. A  casa sua, il meccanico sogna l’officina vuota di vetture da riparare, una è proprio la tua, quella che non puoi portare ad aggiustare e il ponte delle riparazioni è deserto. E tu, Paura, sei un fantasma che ride. La notte, quando si sente il rumore dei pensieri, c’è un frastuono: sei tu invisibile che arrivi con le sincopi. Trascini la catena dei debiti, ti sollazzi a spaventare i debitori che non hanno i soldi per pagare i creditori, e a spaventare i creditori che non hanno i soldi per pagare i propri creditori. La catena sferragliante fa un lungo giro del mondo e si ricongiunge alla medesima catena da cui è partita. Quando le persone deglutiscono, sospirano, parlano da sole, è segno che sei arrivata e fai fremere con mutui insoluti, risse, uno stupro in galera,  la sterilità, il terremoto che fa diventare obliquo ciò che è piano, la malattia e  l’improcrastinabile morte.  Passa la tua ombra lunghissima, e subito un uomo cerca di guardare da un’altra parte. Va tutto bene per distrarsi da te,  una scalinata, degli alberi, quello che abbiamo dentro -  ma è inutile, il cielo di dentro si è chiuso. Sei la nostra ossessione, attraversi le pareti e piombi in appartamenti dove è accesa una sola luce, per non consumare. Suggerisci pensieri senza sbocco. Un uomo si chiede cosa succederà, e tu, in un orecchio: “Che suonano alla porta e prendono tutto quello che hai”. Vivi appostata davanti alle casse  dei supermercati, dove gli sguardi dei clienti adesso sono allertati. Un uomo scruta il display della cassa per vedere se la card contenga ancora qualcosa. Sta provando a pagare. Al bip positivo, deglutisce.  E’ salvo. Porterà a casa la spesa. Ma è terreo, lo ha sfiorato la penuria. Non sa di essere notato e mormora “grazie”, lo hai abituato a pensare a voce alta, a comportarsi come se fosse solo. E lì al supermercato, guarda grato il soffitto,  perché oltre il soffitto c’è il cielo. Le case sono gelide, particolare di cui non si parla per educazione e la scarsa familiarità col problema di non avere soldi e non sapere come dirlo. E che c’è da vergognarsi, se giorni fa a Napoli non giravano gli autobus perché non c’erano i soldi per pagare la nafta? La vita va avanti camminando di lato. Le pizzerie attendono i clienti, coi pizzaioli bianchi immobili davanti al fuoco acceso. Le librerie sono la luna con dei commessi. Le macellerie espongono tagli ignoti.  Su un cartellino, una mano ha scritto: “Carnetta. Tre euro!”. Chiedo che sia la carnetta, e il macellaio: “Tutto”.  Non serve Sherlok Holmes per capire che succeda, e che quello che succede a casa vostra succede anche a casa di molti altri. Venduti i gioielli, le stilografiche, le seconde macchine, i francobolli, le collezioni di giocattoli, la pelliccia. Invece la poltrona vibrante massaggiante, acquistata con anni di leasing, non la prende nessuno. E la paura è vederla solitaria, nella casa rimasta spoglia. La caldaia si accende a cena, per non prendere una congestione mentre inizia la digestione, poi di corsa a guardare la Tv con il playd sullo stomaco. Le famiglie siedono in punta a divani che potrebbero essere sequestrati il giorno dopo; nel salotto, i padri meditano in segreto dove nascondere il pianoforte nel caso venissero quelli a pignorare. Si guarda un telefilm, incuneati nella fila dei pullover messi uno sull’altro, ultimo strato la maglia della salute come Alberto Sordi nei vecchi film del ‘900 - il riscaldamento si accende tutto il giorno solamente la domenica, per fare festa con un caldo da milionari, il pollo fritto e un dito neanche di vino. La prima cosa sono le necessità: mettersi a tavola, telefonare, pagare la luce, poi vengono le elezioni. L’essenzialità è sopraggiunta rapida. Diceva Brecht che si ragiona bene a pancia piena.  Viene in mente con stralunante attualità il racconto di Bulgakov sull’inverno della rivoluzione. Qualcuno per scaldare la casa brucia i mobili in mezzo all’appartamento, il palazzo va in fiamme e ci si scalda allegri al tepore dell’incendio. Perché tu ci fai deragliare. Ossessioni e stanchi. Bisognerebbe minacciarti, riusciti a bucare con una speranza aguzza. Fare scoppiare te e la tua minaccia di vivere per decenni nel deserto di soldi e lavoro minacciato dagli economisti: le città vuote, abbandonate al selciato. Nelle estati che si rinnovellano, i turisti si aggirano senza italiani intorno, come per un’immensa Pompei brulicante di gente che parla inglese, tedesco e italiano no di certo. La vera popolazione è anziana, vive vergognosa in case di fortuna, anfratti. I figli sono all’estero. La vita come gli ebrei nel deserto con Mosè, solo che qui c’è il deserto senza Mosè. A essere sinceri, a essere crudi, a guardarsi nel fondo, la battaglia decisiva è sconfiggere febbraio, il mese più freddo. Febbraio è la nostra linea del Piave.     

          

Aiuto. Abbiamo perso l’indirizzo della speranza. Diteci dov’è: Non si trova da nessuna parte, non è neanche in qualche fortunatissimo sogno della notte. E quando è che abbiamo smarrito la speranza?  Paura e speranza vivono in luoghi indeterminati, ma se c’è da aspettarsi che la paura si nasconda sempre per saltarci addosso, perché la speranza non si mostra mai?  La speranza consisteva nello svegliarsi al mattino e avere davanti a sé una bella cosa da fare. E’ lì che abitava, ora chissà dove è andata. Come accade per la paura, anche la speranza è stata appresa dai genitori, che la impararono dai propri genitori, e anche loro l’avevano appresa dai propri genitori in una galleria di apprendimenti della speranza che portano all’inizio del mondo. E la speranza giunge scendendo dai tornanti del nostro sangue. E’ lì che viene dragata ogni giorno, proveniente dalle arterie degli antenati, dopo aver viaggiato nelle condutture dei secoli, lungo le micro-tubazioni del dna, a bordo delle emozioni di avi con la barba incolta che ridevano senza denti. Sulle mappe ataviche della speranza sono tracciate le strade per innamorarsi, le piazze da raggiungere per fare quello per cui siano nati: suonare all’estero, avere una casa col terrazzo, fare il giro del mondo a piedi. Lavorare alla radio, a teatro, in un giornale; avere un cavallino attaccato a un carretto e girare su strade di terra battuta. Però della speranza si sono perse le tracce. Un mistero. Da che potrebbe dipendere? Forse dall’eccessivo preponderare della realtà immateriale su quella materiale, adesso che alle poste chiamano dematerializzate le bollette pagate on line. Forse dipende dalla mutazione per cui si stanno affievolendo i modi degli ultimi ventimila anni e la parola viene inavvertitamente sostituita dalla telepatia. Il figlio piccolo entra  all’improvviso,  vuol sapere cosa sia “orchestra filarmonica”, e chi ha il tempo di dirlo senza ansia? E può darsi che l’assenza della speranza sia data dalla torsione inferta alle ventiquattro ore diventate come se fossero cinque. Senza fermarsi a tavola e parlare. Senza rallentare. Neanche il tempo di ricordarsi le tappe importanti. Per esempio la lettura ginnasiale di quel racconto di Ovidio degli dei altissimi che chinano la testa per entrare nella capanna di quei due sposi poveri. Percepii che l’umiltà brilla come un gioiello ed è  addirittura una qualità sontuosa. C’era tempo, ed ebbi tempo di capire bene che le cose stavano molto meglio di come apparisse. Fu una delle volte che vidi la speranza.

Se non è così, le emozioni vanno via senza salutare e rimaniamo sulla porta allibiti, senza sapere se stiamo entrando o uscendo. Allora rimangono le ossa e due pietre. Se il tempo non fosse un meraviglioso labirinto dove sfiorare i misteri e vederli come sono, destinati a brillare lontano, resteresti solo tu, Paura.  Senza l’onnipotenza della speranza, la paura è onnipotente, e impercepibile quel vento finissimo. Rimane di rigirarci inutilmente le mani in una stanza vuota, e dire: ah se avessi fatto questo, ah se avessi fatto quello.  E la speranza? La speranza è di chi vive in  ascolto. Un orecchio a terra lungo la ferrovia, vite come di Apache, a sentire il treno in arrivo, quando all’orizzonte ancora il treno non si vede.      

  E così, un giorno che la guerra è finita da poco, un uomo guida la  sua Topolino su una strada di montagna. Ha trentacinque anni, è un Robinson Crusoe scampato alla paura, ha un figlio piccolo e loro si sono salvati. La strada di montagna è spalancata, fa il dentista. Oggi lo hanno pagato con un sacco di farina, lo ha sistemato dietro al suo sedile. A una curva, raffiche di un mitra bucano la carrozzeria. Frena. Esce di macchina, grida “Dio” con un lungo grido. Si affida con tutto sé stesso a delle braccia che non vede.  Pensa a tutto. La sua speranza che inizia a quella curva di montagna, si solleva, si alza tra le nubi, vola su una ferrovia, sopra l’Appennino romagnolo, e giunge al mare, oltrepassa le macerie di Genova, altre montagne, il suo Danubio, le ciminiere di Auschwitz, le betulle della pianura russa coi morti di tutti gli eserciti, i contadini che falciano il fieno, sorvola piccole città sconosciute dove bocche che si erano ammutolite hanno ripreso a parlare,  delle volte a cantare, si baciano con altre bocche, e anche le gambe abituate a scappare e a marciare, adesso ballano il boogie, e la piccola speranza di uno solo che contiene speranze che sono di tutti, finisce in una curvatura dell’universo e torna ed eccola da lui davanti alla Topaolino, con le braccia alzate. Il mitra si inceppa. Gli spari ammutoliscono.  Lo sconosciuto che sparava, forse un bandito, lascia cadere l’arma e fugge nel bosco. Il dentista abbassa le mani. Dopo un po’ va alla macchina, la controlla. Vede che si è salvato per due volte: la prima quando il mitra si è inceppato; la seconda volta è stata la prima, quando passava con la macchina e le pallottole si sono fermate sul sacco di farina dietro al suo sedile. La speranza lo aspettava. E tu Paura, che non si vede ma si sente, non ci sei mai stata.    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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