Schwed RaccontaSu e giù per la tastiera |
C'ERA UNA VOLTA MONTALCINO
JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED
Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.
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Scarpe bucate (8 gennaio, Il secolo xix / Huffington Post)
di Alessandro Schwed (Jiga Melik)
Le scarpe della Satira sono scomode, bucate e strabucate: ad andarci in giro fanno male. Bisogna avere qualcosa da dire per metterle ai piedi. I ragazzacci con la matita morti ieri erano gli ultimi con le scarpe rotte decisi a camminare lo stesso. Del resto, parafrasando il poeta Verlaine: la Satira è un brivido, il resto è intrattenimento. Ma era una giusta sfida creare vignette su un mondo ferale? Che dire: la Satira è un vizio strepitoso, un irrinunciabile condimento. Cabut, 77 anni, Charb, 47 anni, Wolinski, 80 anni, Tignous, 58 anni, loro e altri redattori lavoravano a Charlie Hebdo, se vogliamo limitarci a chiamare lavoro quella cosa meravigliosa che è irridere il potere. Wolinski, gli altri, erano monelli attempati. Ragazzi permanenti avvezzi ad architettare pernacchi, a togliere peso a qualsiasi peso, a non tollerare lacci, maschere, veli, chiese e minareti - la satira non conosce limiti. È la bellezza sfrontata di un mestiere non augurabile. E così ieri mattina, mentre in una stanza di Parigi i ragazzacci con la matita sono lì che disegnano caricature e congegnano motti di spirito come in un romanzo di Balzac, due tizi entrano col volto coperto e li ammazzano. Poi scendono di corsa le scale e giunti per strada finiscono con il kalasnikov un uomo moribondo. Ciò, intorno al Palazzo dei Monelli. Sono queste le scarpe della Satira. Un coltivato, educatissimo senso di irresponsabilità, una tagliente eleganza, l’essere sia consumati che limpidi, fuori mercato e fuori registro - non lo sapevate? Chi fa satira incontra sbarramenti, le frasi sibilline di chi comanda e di chi serve. L’arte della satira, in Italia da tempo sconosciuta, vuole grande tempra e grande leggerezza. Fare abitudine al pericolo, ai nemici sparsi, ai giochi di parole, ai difetti da raccontare, alle intimidazioni, a un presidente che non gradisce una copertina e lo fa sapere in un ufficio, dal sibilo di un funzionario. Il satirico deve essere pronto a scavalcare le diverse ere di poteri diversi e tutti implacabili, e intanto illustrare la stupidità, la menzogna, il cinismo, coglierli in tutta la fragrante debolezza e marciume. La satira non è mica quel semolino a cui ci ha abituato la Tv, le risate finte preregistrate che indicano il binario dove ridere, le parodie che finiscono a tarallucci e vino. E adesso vi prego, non vantiamo come nostra un’arte che nel nostro paese è obsoleta per quanto di origine latina: la Satira è un taglio che ridendo ti apre in due. Può benissimo non divertire, può raggelare, può commuovere, far ridere sino alle lacrime. Ho lavorato negli anni Settanta all’ultimo giornale satirico italiano, il Male. Avevamo rapporti con i fogli satirici francesi, Charlie Ebdo, il Canard, Harakiri. Alcuni degli artisti morti ieri mandavano disegni, venivano a trovarci. Abbiamo riso insieme, ci siamo guardati negli occhi, ragazzacci con ragazzacci. Vi vedo sdraiati in una pozza di sangue, e un poco piango e un poco sorrido di un vecchio scherzo. Scarpe rotte, eppur bisogna andar.
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