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« Teatrino della POLITICA ...Il bosco maledetto( parte 2) »

Il bosco maledetto( parte 1)

Post n°2828 pubblicato il 12 Ottobre 2021 da paperino61to

 

 

Ho appreso una cosa negli ultimi anni della mia vita, che la paura di morire non è poi così orribile, ci sono altre cose peggiori, credetemi sulla parola. I medici mi dicono che mi rimane poco tempo, questione di giorni o settimane se sono fortunato.

Buffo, ho usato la parola fortunato, forse in qualche modo lo sono stato. Non ho mai fatto cenno nel corso degli anni a quello che vi sto per raccontare, ma sappiate che è stato come un macigno per tutta la mia vita. Ho provato a raccontare come si erano svolti i fatti in quel maledetto luglio del 1947 ma nessuno ha mai voluto credermi, neanche i miei genitori.

Ho cercato di rimuovere le cose che avevo visto, ma inutilmente; non passava giorno o notte che vedessi davanti ai miei occhi quell’orribile faccia sporca di sangue e denti aguzzi. Dopo un paio di anni i miei decisero finalmente di trasferirsi dalla cittadina di Farlay distante poche miglia da Coney Island per andare a vivere a Boston perché mio padre aveva trovato un nuovo lavoro.

Dentro di me speravo avessero capito che continuando a restare in quella cittadina sarei diventato pazzo o peggio ancora mi sarei suicidato. Ammetto di averci pensato ma ero troppo codardo per farlo, l’importante in ogni caso era andare via, essere distanti il più possibile da quel maledetto mostro; poco importava il motivo.

Scusatemi, non mi sono presentato, mi chiamo Lewis Daltrey, ho ottantaquattr’anni compiuti da poco, sono nato e vissuto a Farlay fino all’età di dodici anni. Ho studiato al college di Boston e mi sono laureato in ingegneria. Ovviamente mi sono sposato e altrettanto ovviamente mi sono separato. L’unico figlio che ho vive a Dalton nell’Iowa, ogni tanto viene a farmi visita. Della mia ex moglie non ho saputo più nulla dopo la separazione, tranne che sia lei che il figlio si erano trasferiti a New Orleans negli anni seguenti alla mia uscita di scena famigliare. 

Da una parte è meglio sia andata così’, non so come avrebbero vissuto con un uomo accanto che ogni notte si svegliava urlando come un forsennato o che camminava per strada in maniera guardinga per la paura di essere aggredito da chissà chi o da che cosa.

Tutto iniziò come ho detto a Farlay in quella dannata estate del 47’. La scuola era finita da quasi un mese e io assieme a Carl Bonney, Giad Smith e Alfred Corley formavano il quartetto dei moschettieri della cittadina. Come tutti i ragazzini di quell’età eravamo un po’ monelli, ma nulla di che. Ci piaceva fare degli scherzi, specialmente al signor Glendal che gestiva l’emporio sulla Bates street.

“Se vi acchiappo maledetti voi…!” urlava con quanto fiato aveva in gola, ma subito dopo la sua risata risuonava alle nostre spalle. Il signor Glendal era un brav’uomo, verso il 59’ seppi che era stato ucciso durante una rapina e piansi per un giorno intero.

Ebbene, noi quattro ragazzini quel giorno decidemmo di andare a fare un tuffo nel fiume che passa appena fuori da Farley. La giornata era già afosa fin dal primo mattino.

“Allora siamo pronti? Forza andiamo” esclama Giad con quella sua voce stridula.

Il fiume distava un paio di miglia dalla cittadina, si era deciso di andare a piedi. Mia madre aveva preparato i panini per tutti e Alfred aveva portato l’acqua per bere.

“Fai attenzione Lewis, mi raccomando, il fiume può essere pericoloso”.

“Si mamma. Promesso che faremo attenzione!”.

Con questa frase lasciai la mamma sull’uscio di casa, mi voltai a salutarla di nuovo prima che svoltassi l’angolo di casa. Nel tragitto, ricordammo gli episodi dell’anno scolastico appena finito e di come la signorina Haley era acida come una mela andata a male.

“Spero che il prossimo anno se ne vada. Non la sopporto con tutta quella sua arroganza!”.

“D’accordo con te Carl, poi è pure brutta, ma l’avete vista quando indossa quel completo color viola? Sembra una prugna”.

“Una prugna marcia” aggiunse Giad.

La risata risuonò nella strada solitaria che portava al fiume. Osservai il cielo non c’era una nuvola ma sole cocente.

“Ragazzi, fermiamoci un momento, vi prego”. Alfred non era abituato a camminare, era, come posso dire in sovrappeso, anche se a quei tempi si usava il termine “grassone o ciccione”.

L’accontentammo, la sosta durò mezz’oretta se non ricordo male.

Il caldo si faceva sentire: “Prima arriviamo al fiume e meglio è…almeno ci rinfreschiamo tuffandoci dentro” esclamai mentre mi alzavo.

Il sentiero che porta alle rive del fiume è stretto e nascosto tra un filare di alberi, sbuca poi sulla sponda abbastanza larga e lunga da poter fare un picnic. Infatti alla domenica la gente di Farlay si riversa in massa in quel luogo, l’ideale per noi ragazzini è andare in settimana.

“Eccoci arrivati, l’ultimo che entra in acqua paga i gelati per tutti” urlò Giad Smith che fu il primo a tuffarsi nel fiume che scorreva lento, l’acqua non era calda, ma dopo che sei dentro per alcuni minuti il corpo si abitua.

 

Come sempre Alfred era l’ultimo e si lamentava che non era regolare la scommessa, trovava tutte le scuse possibili per non pagare:” Dovevate darmi un piccolo vantaggio”.

Ci sentivamo i Re del fiume di Farlay. C’era un tronco d’albero che giaceva sulla sponda e noi lo usammo come canoa, lo mettemmo in acqua, ci salimmo a cavalcioni remammo fino all’altra sponda usando dei rami robusti caduti per terra.

“Bene, io Capitan Lewis vi dico che il tesoro sepolto è qui…forza miei pirati alla ricerca…dobloni e coca cola per tutti ci aspetta!”.

Le risate accompagnarono le ricerche di questo fantomatico tesoro, se solo avessi saputo che passare sull’altra sponda sarebbe stato l’ultimo giorno di vita per i miei amici non lo avrei mai proposto. Quante volte ho chiesto perdono a loro, ovunque si trovassero.

“Tra una decina di minuti ci ritroviamo di nuovo qui, va bene?”.

“Possiamo anche fare mezz’ora Lewis…dai in fondo che pericolo vuoi che ci sia?”.

Si saliva una piccola riva e si vedeva una distesa enorme di alberi innanzi a noi, il sole non riusciva a penetrare dentro quella selva di foglie. I rami sembravano si abbracciassero tra loro, e un brivido mi corse lunga la schiena. Le chiome alte e folte non facevano filtrare i raggi del sole, non mi resi conto che c’era un silenzio irreale, nessun canto di uccello, nessun rumore di animale che vagava. Il cuore pulsante di quel bosco non batteva, era silente. Pur essendo estate quel posto era pervaso dal freddo. In quel momento non tenni a mente ciò che mio padre mi diceva sempre: “Figliolo, se non senti rumore provenire nel bosco è perché c’è qualcosa che non quadra, tu non andare tieniti alla larga!”.

Ma quando si è giovani ai pericoli non ci si pensa, non parliamo poi se si dà la caccia a un fantomatico tesoro.

“Allora ragazzi mi raccomando, non allontaniamoci troppo e soprattutto torniamo subito qui”.

“Di cosa hai paura Lewis? Credi che ci sia il fantasma di capitan Barbanera?” domandò Giad seguito a ruota dalle risate degli altri due amici.

“O forse il buon Lewis ha paura del mostro che si aggira nel bosco!” esclamò Alfred.

Non risposi alla loro presa in giro, e me ne andai inoltrandomi nel bosco; quando mi voltai non vidi più i miei amici.

Dopo mezz’ora o forse anche meno tornai al punto di partenza. Per primo arrivò Carl e poi Alfred.

“E Giad?” domandai.

“E’ andato da quella parte, ma arriverà, allora trovato questo tesoro?”.

A quella parola ci dimenticammo del nostro amico ed iniziammo a fantasticare su come abbiamo combattuto contro gli spagnoli, mercanti di uomini, coccodrilli e sabbie mobili per impossessarci del tesoro che ovviamente erano dei sassi o ghiande raccolti nel bosco.

Dopo parecchio tempo, non so dirvi di preciso quanto tempo passò, incominciammo a preoccuparci del mancato arrivo del nostro amico.

“Dobbiamo andare a cercarlo!”.

“Si ma dove?”.

“Avete visto dove si dirigeva?”.

“Da quella parte Lewis, volevo andare con lui ma non ha voluto” rispose Alfred.

“Bene andiamoci tutti insieme”.

Ci inoltrammo nel bosco chiamando ad alta voce il nostro amico, ma solo il silenzio ci faceva compagnia.

“Credi che gli sia successo qualcosa?”.

“Non lo so Carl, spero di no”.

“Ragazzi guardate là!” Alfred indicò con il dito un punto distante una ventina di metri. Era un rovo e vicino a quel rovo trovammo un brandello di costume.

“E’ quello di Giad!”.

Con voce ancora più forte ricominciammo a chiamarlo. Il buio del bosco ci metteva paura ma non potevamo lasciare lì Giad e andarsene senza sapere dove fosse finito.

Percorremmo un centinaio di metri quando vedemmo del sangue su un albero. Era fresco.

“Mio Dio…Giad…” esclamò Alfred.

Risposi che non potevamo sapere se fosse il suo: “Cerchiamo di stare calmi ragazzi”, ma dentro di me ero terrorizzato, avrei voluto scappare a gambe levate e tornare sull’altra sponda da dove eravamo partiti.

(Continua)

 
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