Creato da senzaconfini2015 il 31/12/2014
Libero pensiero ed analisi dei fatti sono alla base del lavoro dei collaboratori di questo blog.
 

 

La scuola primaria di oggi in Italia

COME È LA SCUOLA ITALIANA DI OGGI?

Il punto di vista di un‘insegnante della scuola elementare

In Italia la riforma della scuola è un argomento sempre di attualità anche perché, pure quando c'è stata, essa è stata parziale e ha riguardato un solo ordine o categoria: la scuola dell'infanzia, quella primaria, l'università, il personale.
Ora si parla tanto di immissione in ruolo dei docenti precari e di organizzazione ma nessuno oltre agli addetti ai lavori sa né sembra preoccupato di conoscere qual è la realtà della scuola italiana, cioè il vissuto degli insegnanti, dei dirigenti, degli studenti, del personale amministrativo e ausiliario che in essa quotidianamente opera e apprende.
Sono andata perciò ad intervistare un'insegnante di una scuola elementare del centro di Trieste con 36 anni di esperienza, che mi ha dato la sua disponibilità ma desidera mantenere l'anonimato.

1. Vorrei che mi descrivesse innanzitutto qual è l'organizzazione adottata dalla sua scuola: insegnante unico (ma esiste ancora?), impostazione di tipo modulare, altro
Nella mia scuola non è mai stato introdotto il cosiddetto "insegnante unico", in quanto la Dirigente Scolastica ha ritenuto opportuno avvalersi delle professionalità acquisite dalle singole insegnanti. Una delle critiche più significative all'introduzione dell'insegnante unico era proprio il fatto che non teneva conto dell'acquisizione di specifiche competenze degli insegnanti, raggiunte dopo lunghi anni di lavoro in team nei moduli e conseguente ripartizione delle materie di insegnamento. Un insegnante che ha per anni insegnato matematica e scienze ha acquisito una elevata professionalità nella didattica di quelle specifiche materie e certamente si è aggiornata soprattutto o soltanto in quelle. La nostra dirigente ha cercato di valorizzare e mantenere queste competenze assegnando le insegnanti a 2 classi parallele e affidando l'italiano e altre 2 materie ad un insegnante e la matematica e altre 2 materie ad un secondo insegnante. Le materie rimanenti sono:
- l'ambito antropologico, affidato trasversalmente ad una insegnante che opera in verticale su più classi;
- l'educazione motoria, assegnata ad un'unica insegnante che insegna in tutte le classi della scuola, valorizzando proprio le sue specifiche competenze;
- l'inglese, assegnato alle insegnanti di classe, se provviste dei titoli specifici, o ad altri insegnanti della scuola, che "entrano" quindi in altre classi;
- la religione, come sempre, assegnata ad una insegnante nominata dalla Curia, affiancata da un'altra insegnante che copre le attività alternative.
Le precedenti riforme, oltre a ridurre drasticamente gli organici degli insegnanti hanno anche e conseguentemente ridotto l'orario settimanale delle lezioni. Di conseguenza, per mantenere un'offerta educativa adeguata e non penalizzare alcune materie a discapito di altre si è optato per un'organizzazione oraria articolata in 30 unità didattiche settimanali di 50 minuti da svolgersi da lunedì a venerdì dalle ore 8.00 alle 13.20. L'orario settimanale di lezione prevede l'assegnazione di 2 unità didattiche contigue all'italiano e alla matematica.

2. Nel rispetto del suo desiderio di anonimato, potrebbe descrivermi una classe tipica della sua scuola ?

Le classi della mia scuola sono ordinariamente formate da circa 20 alunni, più o meno metà maschi e metà femmine, 1/3 dei quali è generalmente straniero. In quasi tutte le classi è poi inserito uno o più bambini portatori di handicap (ex legge 104) e/o scolari con certificazione DSA (legge 170) e BES. In presenza di alunni portatori di handicap, nella classe operano pure uno o più insegnanti di sostegno e, in caso di handicap particolarmente gravi, c'è pure l'aiuto degli educatori.

3. Chi sono e come operano gli insegnanti di sostegno
Gli insegnanti di sostegno sono insegnanti in possesso di una preparazione nella didattica speciale per l'integrazione degli alunni "diversamente abili", conseguita attraverso alla frequenza di un ulteriore anno di studi post-universitari. Essi vengono assegnati alla classe e non - come erroneamente si pensa - all'alunno, per realizzare, assieme ai colleghi, l'integrazione scolastica dell'alunno diversamente abile e contemporaneamente collaborare alla gestione di tutto il gruppo classe, aiutando tutti coloro che ne hanno bisogno. Essi sono pertanto contitolari della classe in cui operano e come tali contribuiscono alla valutazione di tutti gli alunni e ne firmano i documenti. Loro compito specifico è la predisposizione di un Piano Educativo Individualizzato per ciascun alunno diversamente abile presente nella classe in collaborazione con gli operatori socio-sanitari, la famiglia, i docenti contitolari.
4. E gli educatori?
Le educatrici sono invece assegnate ai singoli bambini e li supportano nelle ore in cui sono presenti, alternandosi all'insegnante di sostegno.

5. A quanto mi dice, la realtà della scuola elementare di oggi è molto diversa da quella di un tempo, che era più omogenea, senza bambini handicappati e stranieri e con, al massimo, qualche alunno con difficoltà di apprendimento

La presenza di bambini stranieri, portatori di handicap, con bisogni educativi speciali, con disturbi specifici di apprendimento e bisogni educativi speciali, costituisce da tempo una realtà consolidata nella scuola per cui gli insegnanti di oggi devono avere la sensibilità psicologica e pedagogica e la preparazione didattica necessarie per operare in una realtà difficile e complessa. Le classi prevalentemente omogenee di un tempo sono un retaggio del passato.

6. L'inserimento in una classe di bambini stranieri quali difficoltà o problemi comporta?

Le difficoltà dell'inserimento in una classe di un bambino straniero sono di diverso genere, e non solo linguistico; esse dipendono innanzitutto dalla classe e dal periodo dell'anno in cui avviene la sua iscrizione, perché essere inseriti all'inizio dell'anno scolastico in una prima classe è diverso e presenta minori difficoltà che essere inseriti ad anno scolastico già iniziato in un gruppo-classe già costituito e magari in una III/IV classe. Ma si può generalmente dire che l'integrazione di un alunno straniero è molto legata a quella dei genitori; laddove intervengono fattori culturali che limitano o condizionano la frequentazione dell'ambiente esterno da parte delle famiglie, questi stessi fattori incidono anche sulla completa integrazione dei bambini.
7. Per comprendere meglio la situazione, ci spieghi, per favore, in che cosa consiste la legge 104 e cosa significano le sigle BES e DSA, che ha citato prima

La legge n. 104 del 5 febbraio 1992 riguarda l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, che devono essere riconosciute tali da un'apposita commissione. Negli ultimi anni, per il contenimento della spesa pubblica, è diventato sempre più difficile ottenere una certificazione di handicap; riescono ad averla soltanto i bambini veramente gravi, in quanto i disabili certificati presuppongono l'assegnazione dell'insegnante di sostegno e magari anche di un educatore. Questi parametri più ristretti hanno in realtà lasciato senza supporto un gran numero di bambini, che una volta sarebbero stati certificati. Per ovviare a questo inconveniente il legislatore è intervenuto con la legge 170 sui DSA, cioè sui Disturbi Specifici di Apprendimento e l'individuazione dei BES (Bisogni Educativi Speciali), obbligando gli insegnanti ad un maggiore e non indifferente carico di lavoro in più senza corrispettivo economico. Per questi bambini infatti deve essere predisposto un protocollo che prevede un patto educativo tra la famiglia e la scuola, nel quale il carico maggiore è per gli insegnanti, che devono garantire programmazioni individualizzate, attività didattiche, lezioni e verifiche differenziate a seconda dei bisogni.

8. I maggiori problemi che un insegnante deve affrontare oggi riguardano l'insegnamento/apprendimento o altro?
I maggiori problemi che oggi si devono affrontare a scuola sono:
- differenziare e diversificare la didattica, lavorando contemporaneamente con tutti i bambini. Questo comporta un grande lavoro di preparazione a casa non riconosciuto e non retribuito
- La burocrazia. E' necessario compilare documenti e scartoffie varie in misura esagerata e anche questo è un onere aggiuntivo
- Il grande numero di riunioni e attività varie pomeridiane, che appesantiscono ulteriormente il lavoro
- La cattiva distribuzione degli incarichi, che aggrava il lavoro dei pochi docenti disponibili.
L'attuale riforma renziana, che prevede l'assegnazione di poteri manageriali al dirigente scolastico, grazie ai quali egli può nominare gli insegnanti che ritiene più idonei - per i loro requisiti di professionalità e competenza - allo svolgimento di un dato compito, abbisogna - a mio avviso - di un'attenta riflessione. Certamente, il sistema delle graduatorie ha dimostrato più volte la sua inefficienza, in quanto nelle liste sono inseriti talvolta anche insegnanti incompetenti, che devono comunque essere nominati, mentre circondarsi di insegnanti professionalmente preparati e volonterosi e con la medesima visione pedagogica della scuola è condizione per un buon funzionamento della stessa. Assegnare però questi compiti soltanto ad una persona presenta, a mio avviso, il rischio di non offrire la garanzia che tutti i dirigenti opererebbero realmente per il bene della scuola e degli alunni e di aprire la strada a paternalismi e clientelismi.

9. Come sono i bambini di oggi per quanto riguarda l'apprendimento: più o meno pronti che nel passato?
Per quanto riguarda gli apprendimenti, i bambini sono sempre bambini, ma si nota una progressiva e sempre più accentuata difficoltà di attenzione e concentrazione durante le attività didattiche, che io imputo in parte alla tecnologia (computer, telefonini,... danno e richiedono risposte veloci e immediate,...)

10. E per quanto riguarda il comportamento?
Il comportamento dei bambini rispecchia quello degli adulti; se le famiglie sono educate e collaborative il loro comportamento sarà corretto altrimenti no.

11. E le famiglie? Sono collaborative o disinteressate? Più o meno che nel passato?
Purtroppo da parte delle famiglie la collaborazione non è sempre ottimale, anzi a volte c'è proprio disinteresse o aperto antagonismo. Spesso, purtroppo, i genitori non manifestano alcun rispetto per gli insegnanti, ne criticano l'operato dando "consigli" sulla didattica, e, pur non essendo presenti in classe, ne giudicano l'operato e ne mettono in dubbio competenza e professionalità. Tutto questo, specie nelle situazioni difficili, rende più gravoso il compito degli insegnanti e si ripercuote negativamente sul rendimento scolastico e sul comportamento degli alunni che abbisogna della collaborazione scuola-famiglia.

12. Per concludere, il maggior onere del lavoro scolastico oggi nella scuola elementare è costituito dall'insegnamento, dalla conduzione della classe o da altre attività?

L'insegnamento e la conduzione della classe dovrebbero essere gli oneri principali ma talvolta passano in secondo piano di fronte agli impegni pomeridiani e burocratici quali:

- collegi dei docenti
- consigli di interclasse
- assemblee dei genitori per l'elezione dei rappresentanti
- riunioni con gli esperti per situazioni particolari
- riunioni ex legge 104
- compilazione e condivisione con le famiglie dei protocolli per BES e DSA
- colloqui con le famiglie
- correzione e tabulazione delle prove Invalsi
- preparazione delle verifiche e formulazione delle verifiche differenziate per chi ne abbia bisogno
- correzione delle verifiche
- preparazione delle lezioni in classe
- tabulazione dei voti in preparazione degli scrutini
- scrittura dei documenti ufficiali (schede di valutazione, registri, ...)
- consegna delle schede di valutazione
- riunioni settimanali di programmazione per classe e per plesso
- e non è tutto

Dunque la professionalità del docente oggi è complessa ed implica, oltre alle competenze disciplinari e pedagogico-didattiche per trasmetterle agli alunni, quelle psicologiche e sociologiche per relazionarsi con l'ambiente lavorativo.

13. A questo punto sorge spontanea un'altra domanda: quante sono, in media, le ore lavorative settimanali di un insegnante?

È difficile quantificare con esattezza le ore lavorative settimanali perché ci sono periodi dell'anno scolastico in cui ogni pomeriggio della settimana è impegnato con riunioni ed altri in cui le convocazioni sono più diradate, pur permamendo il carico pomeridiano di impegni relativi alla gestione della classe e alla didattica (verifiche, preparazione delle lezioni,...)

Il tutto, se non erro, per uno stipendio che si aggira intorno ai 1.500/1.700 € al mese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Padre Placido Cortese

Post n°20 pubblicato il 15 Giugno 2015 da senzaconfini2015
 

Il Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella inserisce fra gli eroi della Resistenza il chersino martire Padre Placido Cortese.

Ecco il passo del "Presidente:

«Tanti eroi hanno donato la vita per la nostra libertà, dai "piccoli maestri" che hanno lasciato gli studi per salire in montagna, alle donne che hanno affrontato a testa alta il rischio più alto e la prigionia. A questi dobbiamo affiancare gli eroi quotidiani che salvarono vite, che diedero rifugio ad ebrei, che si prestarono a compiti di cura o di supporto.Come le sorelle Lidia, Liliana e Teresa Martini, padovane, che guidarono la fuga dai campi di concentramento di decine e decine di prigionieri alleati, prima dando loro il pane e un nascondiglio, poi instradandoli nottetempo verso la Svizzera, attraverso la rete costruita da padre Placido Cortese e da due latinisti di grande fama, Ezio Franceschini, dell'Università Cattolica, e Concetto Marchesi, in seguito rettore dell'Ateneo di Padova e deputato comunista. Senza questa dimensione popolare, senza questa fraterna collaborazione tra persone di idee politiche diverse, l'Italia avrebbe fatto molta più fatica a recuperare la dignità smarrita».

Ma chi era Padre Placido Cortese?
Padre Placido iniziò la sua vita col nome di Nicolò, il 7 marzo 1907, a Cherso, nel cui convento francescano iniziò pure la sua formazione religiosa, che si completò nei conventi di Camposanpiero, Padova e Roma. Ordinato sacerdote, dopo un breve incarico in una parrocchia di Milano, venne inviato nel convento di Sant'Antonio di Padova, dove gli fu affidato l'incarico di direttore del prestigioso periodico dell'Ordine dei Frati Minori Francescani "Il Messaggero di Sant'Antonio". Egli diede un nuovo e importante impulso al giornale per contenuto e veste tipografica, grazie al quale la sua tiratura aumentò notevolmente. Nel 1944, durante l'occupazione germanica di Padova, l'atmosfera in città era molto pesante perché i tedeschi coglievano ogni occasione per sfogare la loro rabbia contro i cittadini che, dopo l'armistizio dell'8 settembre e la rottura dell'alleanza dell'Italia con la Germania, sentivano nemici e traditori. Per le frequenti sparatorie ed altro la gente era terrorizzata. In questo clima, una delle vie della salvezza erano le parrocchie e molti parroci aprirono cantine, soffitte, ripostigli delle loro case per accogliere le persone in difficoltà. P. Placido, grazie alla conoscenza della lingua croata, fu incaricato dai superiori di assistere i prigionieri slavi rinchiusi nei campi di concentramento. Ma egli non si limitò a questo perché abbisognavano di aiuto anche gli ebrei e i soldati inglesi e americani finiti per qualche motivo nel territorio occupato dai tedeschi e che bisognava cercare di mettere in salvo in Svizzera. Egli divenne così il centro e il punto di riferimento di una rete clandestina di soccorso dei perseguitati dal regime nazista che impiegava persone di ogni età, sesso e ceto sociale in cui, per la reciproca sicurezza, tutto e tutti facevano capo esclusivamente a lui e gli altri non sapevano nulla uno dell'altro. Ma la Gestapo, la polizia segreta del Terzo Reich, era sempre all'erta e l'8 ottobre una persona si presentò nel convento francescano di Sant'Antonio chiedendo di lui al portinaio, che lo fece chiamare. Egli uscì e andò tranquillo verso i due uomini che l'attendevano vicino a un'automobile in sosta davanti all'edificio. Essi lo fecero salire in macchina... e di lui non si seppe più nulla. Nemmeno il suo corpo fu mai trovato. Si suppone che sia finito cremato alla risiera di San Sabba di Trieste. Nel 2002 l'arcivesco Bommarco, chersino e francescano come lui, ne avviò la causa di beatificazione. Durante il lungo iter della causa sono finalmente emerse le testimonianze di persone che lo sentirono, molto sofferente, nei sotterranei della sede della Gestapo di piazza Oberdan a Trieste. (maggiori informazioni si trovano nel periodico "Lussino", n. 24 del settembre 2007, pag.19).

 

 

 
 
 

genocidio degli armeni

Post n°19 pubblicato il 26 Aprile 2015 da senzaconfini2015
 

IL GENOCIDIO DEGLI ARMENI

Anche chi non ha mai sentito parlare del genocidio degli armeni non può ignorarlo dopo le parole di papa Francesco e l’eco che hanno suscitato nella stampa e da parte del governo turco, che si rifiuta di riconoscere, più che i fatti,  il termine “genocidio”, perché i fatti sono difficilmente contestabili in quanto su di essi esiste una vasta documentazione, costituita da numerose testimonianze e addirittura fotografie. Secondo i turchi si trattò della risposta dell’impero ottomano all’insurrezione degli armeni e alla necessità di difendere le proprie frontiere, e sottolineano che anche migliaia di turchi morirono nel conflitto. Comunque, dopo le parole del Papa la Turchia ha subito ritirato il suo ambasciatore presso la Santa Sede. Ma non tutto il mondo è d’accordo con la Turchia tanto è vero che 22 paesi, tra cui l’Italia, riconoscono ufficialmente il genocidio armeno. Molti altri paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, continuano a non usare il termine genocidio per timore di una crisi nei rapporti con la Turchia. Subito dopo le parole del Papa il Parlamento europeo ha votato un testo che sprona Ankara a “venire a patti con il suo passato”. Sul termine genocidio non sono d’accordo neppure alcuni storici, che lo ritengono piuttosto uno sterminio. Genocidio o sterminio che sia, la realtà è che fra il 1915 e il 1916 un milione cinquecentomila, secondo altri un milione duecentomila armeni cristiani persero la vita a causa della loro etnia e religione in un programma di eliminazione voluto dal governo dei “Giovani Turchi” ad impronta nazionalistica e tendente quindi a creare uno stato turco linguisticamente e culturalmente omogeneo, dunque uno stato di cui non avrebbero potuto far parte i molti armeni, prevalentemente di religione cristiana, allora presenti nei territori dell’Impero ottomano. 

Ma ecco le parole di papa Francesco, il 12 aprile, in San Pietro, durante la celebrazione della Santa Messa per commemorare nel mondo il “Metz Yeghérn”, il Grande Male, come viene denominato dagli armeni, – che si ricorda il 24 aprile - alla presenza di numerose autorità civili e religiose armene:  

“Cari fratelli e sorelle armeni,

 cari fratelli e sorelle!                                                                                                    

In diverse occasioni ho definito questo tempo un tempo di guerra, una terza guerra mondiale ‘a pezzi’, in cui assistiamo quotidianamente a crimini efferati, a massacri sanguinosi e alla follia della distruzione. Purtroppo ancora oggi sentiamo il grido soffocato e trascurato di tanti nostri fratelli e sorelle inermi, che a causa della loro fede in Cristo o della loro appartenenza etnica vengono pubblicamente e atrocemente uccisi – decapitati, crocifissi, bruciati vivi –, oppure costretti ad abbandonare la loro terra.

Anche oggi stiamo vivendo una sorta di genocidio causato dall’indifferenza generale e collettiva, dal silenzio complice di Caino che esclama: “A me che importa?”; «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9; Omelia a Redipuglia, 13 settembre 2014).

La nostra umanità ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, quella che generalmente viene considerata come «il primo genocidio del XX secolo» (Giovanni Paolo II e Karekin II, Dichiarazione comune, Etchmiadzin, 27 settembre 2001); essa ha colpito il vostro popolo armeno – prima nazione cristiana –, insieme ai siri cattolici e ortodossi, agli assiri, ai caldei e ai greci. Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi. Le altre due furono quelle perpetrate dal nazismo e dallo stalinismo. E più recentemente altri stermini di massa, come quelli in Cambogia, in Ruanda, in Burundi, in Bosnia. Eppure sembra che l’umanità non riesca a cessare di versare sangue innocente. Sembra che l’entusiasmo sorto alla fine della seconda guerra mondiale stia scomparendo e dissolvendosi. Pare che la famiglia umana rifiuti di imparare dai propri errori causati dalla legge del terrore; e così ancora oggi c’è chi cerca di eliminare i propri simili, con l’aiuto di alcuni e con il silenzio complice di altri che rimangono spettatori. Non abbiamo ancora imparato che “la guerra è una follia, una inutile strage” (cfr Omelia a Redipuglia, 13 settembre 2014). Cari fedeli armeni, oggi ricordiamo con cuore trafitto dal dolore, ma colmo della speranza nel Signore Risorto, il centenario di quel tragico evento, di quell’immane e folle sterminio, che i vostri antenati hanno crudelmente patito. Ricordarli è necessario, anzi, doveroso, perché laddove non sussiste la memoria significa che il male tiene ancora aperta la ferita;  nascondere o negare il male è come lasciare che una ferita continui a sanguinare senza medicarla!”

La vicenda non è molto conosciuta per cui gioverà narrarla sinteticamente. Era il 24 aprile 1915 – quest’anno ricorre il centenario dei fatti che sto per narrare – quando cominciò lo sterminio. Ebbe inizio dai notabili, dai ricchi armeni di Costantinopoli: mercanti, banchieri, architetti, gioiellieri, farmacisti, accademici, chirurghi, scrittori, deputati, giornalisti, avvocati che, grazie alla loro posizione,  ritenevano di godere di una certa immunità anche se qualche segnale di allarme era giunto dalle zone più lontane e isolate del paese. E poi abitavano a Costantinopoli! città ricca, internazionale, cosmopolita, crocevia di commerci e di benessere, dove certe cose non potevano accadere. Il rituale era sempre il medesimo: colpi forti battuti di notte col calcio del fucile sul portone del palazzo, urla di donne e bambini e… cittadini inermi trascinati per strada dalla soldataglia e uccisi immediatamente o condotti non si sa dove. 

Così casa dopo casa, strada dopo strada, quartiere dopo quartiere, da Costantinopoli al resto del paese. Dai notabili le retate passarono ai comuni cittadini maschi, uccisi subito dopo la cattura o portati non si sapeva dove. Poi venne il turno delle donne, dei vecchi e dei bambini. Poco tempo per radunare le cose da portare con sé e poi via con un carretto, un asino, a piedi, in colonne interminabili che le privazioni e i maltrattamenti rendevano sempre più esigue o in carri bestiame stracolmi verso i 25 campi di concentramento organizzati dal governo, dove l’opera di sterminio si concludeva sempre con la morte. Nessuno riusciva a far niente perché gli ordini provenienti dal governo centrale erano di eliminazione di tutti gli armeni cristiani. Venivano risparmiati quelli che si convertivano all’islam, cosa che non accadeva quasi mai.

 

 

 
 
 

A Trieste si parla della strage di Vergarolla

Post n°18 pubblicato il 26 Marzo 2015 da senzaconfini2015
 

A Trieste si parla di Vergarolla

di Carmen Palazzolo

Sabato, 21 marzo 2015, alla libreria Minerva di Trieste si è parlato, su proposta e cura del Circolo di Cultura Istro-Veneta “Histria”, di Vergarolla. L’argomento è stato trattato dallo storico Fulvio Salimbeni, docente di Storia contemporanea all’Università di Udine per l’inquadramento storico generale e, per la storia specifica dell’evento, dallo storico Paolo Radivo, discendente di polesi nonché direttore del periodico del Libero Comune di Pola in Esilio, da Livio Dorigo, esule da Pola e Presidente del Circolo Istria come testimone.

Ha coordinato l’incontro il politologo Biagio Mannino, che ha guidato con fermezza l’analisi del fatto attraverso domande mirate ai tre succitati conoscitori.

Dopo aver salutato il numeroso pubblico presente, Mannino apre l’incontro con una sintetica presentazione dell'evento.

È il 18 agosto 1946, un’afosa domenica estiva e le famiglie, specie mamme con bambini, vanno al mare sulla spiaggia di Vergarolla. L’ attrazione quel giorno è aumentata dal fatto che alla società nautica “Pietas Julia”, la cui sede si affaccia sulla stessa spiaggia, si disputa la coppa Scarioni, manifestazione molto pubblicizzata in città e presentata dal periodico ”L’Arena di Pola” come una manifestazione d’italianità. Tutto è tranquillo quando, alle 14.15, uno scoppio di terribile violenza sconvolge il posto provocando la morte di un centinaio circa di persone, per la gran parte bambini, e numerosi feriti. Era scoppiato, come si accertò immediatamente, il materiale esplosivo accatastato sulla spiaggia: 15/20 bombe antisommergibile di produzione tedesca, 3 testate di siluro, 4 cariche di tritolo e 5 fumogeni.

70 anni dopo, sull’evento non è stata ancora fatta una chiarezza completa ma si comincia finalmente a parlarne anche con qualche testimone del fatto. È lo scopo di quest’incontro, che vuol essere non di contrapposizione ma di confronto per conoscere e far conoscere perché, per diventare europei, i vari Stati dell’Unione devono fare i conti con la propria storia.

La prima domanda di Mannino è rivolta al prof. Salimbeni e riguarda l’inquadramento storico generale dell’evento.

“In Italia - precisa Salimbeni - si erano appena svolte elezioni importantissime, sia per la scelta della questione istituzionale, cioè se il Paese doveva rimanere una monarchia o diventare una repubblica, sia perché furono le prime elezioni a suffragio universale e non per censo e in cui votarono anche le donne. Come sappiamo, vinse la repubblica. Il clima che si viveva in quel periodo in Italia era di una certa serenità al contrario di quel che accadeva al confine orientale, dove Trieste e Pola erano amministrate dal Governo Militare Alleato, la prima da quello americano e la seconda da quello inglese, mentre tutto il resto del territorio appartenente all’Italia dopo il 1918/20: penisola istriana, isole del Quarnero, Fiume, Zara e parte della Dalmazia era amministrato dalla Jugoslavia. Particolarmente incerta fra il passaggio all’Italia e quello alla Jugoslavia era la città di Pola. Sul territorio gravava pure il peso della minoranza slava, che andava risolto perché non costituisse un pretesto per nuovi conflitti. Buona parte del XX secolo fu infatti funestata dalle conseguenze degli esodi forzati di intere popolazione, causati dalla concezione di uno Stato come nazione, cioè dalla nazionalità omogena.

La parola viene poi data a Dorigo, al tempo della strage di Vergarolla studente del liceo classico di Pola, che al momento dello scoppio stava avviandosi coi familiari, in barca, verso la spiaggia per assistere alle gare sportive, organizzate dalla Pietas Julia, di cui la famiglia era socia essendo la madre del Dorigo una canottiera della società. “Si vide prima – racconta Dorigo – un grande lampo cui seguì un boato e un’onda d’urto con caduta di sassolini. Lasciata la barca – prosegue Dorigo – io ritornai a casa e, presa la bicicletta, mi diressi verso  il luogo dell’incidente. Lungo la strada incontrai i mezzi di soccorsi, che si erano subito attivati. Direttamente o indirettamente tutta la città fu colpita dall’evento e visse per giorni in un’atmosfera di sofferenza e attonito stupore. Si può dire che, con quello scoppio, Pola ha perso l’anima mentre in Italia non si sapeva niente e non se ne sa niente tuttora come non si conosce il disastro minerario di Arsia. Non ne sanno nulla neppure gli attuali residenti croati. Tutti hanno voluto dimenticare le loro responsabilità.  Il giorno dopo l’evento il direttore del quotidiano L’Arena di Pola, Guido Miglia, poneva la domanda: ‘Di chi è la colpa?’ e rispondeva: ‘La colpa è della guerra’. Come esule e presidente del Circolo Istria mi sono impegnato – continua Dorigo - a ricordare e far conoscere questo fatto. Il primo importante passo su questa strada del ricordo della strage di Vergarolla è stata la collocazione, nel 50° anniversario dell’evento, di un cippo nello spazio a lato del duomo di Pola e il secondo una ricerca storica su di essa e la pubblicazione dei suoi risultati affidate al ricercatore Gaetano Dato. Studio che è stato effettuato, scritto, pubblicato (Vergarolla 18 agosto 1946. Gli enigmi di una strage tra conflitto mondiale e guerra fredda, LEG edizioni 2014) e presentato per la prima volta a Roma nell’aula “Aldo Moro” del palazzo Montecitorio. In quell’occasione i rappresentanti del Governo Giulia Guagnini ed Ettore Rosato hanno promesso di attivarsi per proporre una ricerca sull’evento”. 

A Paolo Radivo viene infine chiesto di fare il punto delle attuali conoscenze sull’argomento.

Radivo, con la cura e la precisione che gli sono proprie, racconta come tuttora ci siano molte incertezze intorno a questo evento a cominciare dal numero dei feriti e dei morti; questi ultimi in particolare furono sicuramente più numerosi dei 65 accertati sia perché i corpi di molte vittime furono irriconoscibili sia perché in quel periodo a Pola c’erano oltre ai residenti numerosi profughi dall’interno dell’Istria occupata dalla Jugoslavia o sfollati a causa dei recenti bombardamenti, che non erano registrati da nessuna parte. Fra le considerazioni da fare c’è che tutti i feriti e i morti accertati erano italiani salvo 4 militari inglesi; ai funerali partecipò tutta Pola, filoslavi compresi; una certa incuria da parte del Governo militare alleato certamente ci fu perché quel materiale esplosivo, anche se dichiarato innocuo perché le bombe furono disinnescate, non fu in alcun modo isolato. A questo proposito sorsero subito delle polemiche per cui il materiale bellico ancora rimasto fu prima possibile smaltito anziché consegnarlo alla Jugoslavia. Alle famiglie delle vittime e dei feriti fu erogato tramite l’E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza) un “sussidio straordinario” per i funerali, le cure mediche, i vestiti e gli effetti personali perduti durante il disastro come se si fosse trattato di una calamità naturale, che non implicasse minimamente la responsabilità del Governo Militare Alleato, che ribadì subito fortemente la propria estraneità ai fatti.

Quel che apparve subito evidente è che non si trattò di un incidente ma di strage intenzionale, di  cui tuttora non si conoscono con certezza i responsabili e i mandanti. Dei testimoni asserirono di aver udito prima dello scoppio uno o più spari, altri dissero  di aver visto aggirarsi nei pressi della spiaggia nei giorni precedenti la strage un uomo intorno ai 40 anni, alto, magro, con gli occhi azzurri; altri dissero di aver visto in quel periodo nella zona una barchetta con a bordo una persona; qualcuno affermò addirittura di aver visto una miccia. Secondo il SIM (Servizio Segreto Militare Italiano) operante in quel periodo, uno dei responsabili dell'accaduto fu il fiumano Giuseppe Kovacich, agente dell’OZNA con esperienza in esplosivi maturata durante il servizio prestato nella Regia Marina Italiana.  Lino Vivoda, esule da Pola, già Sindaco del Libero Comune di Pola in Esilio e scrittore, che nell’eccidio perse il fratello Sergio di 8 anni, subito dopo l’esodo cominciò a raccogliere indizi e testimonianze sia dirette che pubblicate su “L’Arena di Pola” edita in esilio. Nel suo volume “In Istria prima dell’esodo” sostiene  che uno degli attentatore fu un certo Ivan/Nini Brljafa, morto suicida dopo aver lasciato in un biglietto la confessione del suo operato per conto dell’OZNA. Ma nessuna di queste testimonianze è secondo gli storici certa

Anche per quanto riguarda i mandanti le ipotesi sono diverse ma la più probabile sembra quella della responsabilità jugoslava. La stessa incertezza – afferma Radivo – regna nel campo delle motivazioni del gesto ma la più attendibile sembra quella dell’eliminazione dell’opposizione al governo jugoslavo e gli italiani – quel giorno sulla spiaggia c’erano solo gli italiani – erano degli oppositori. A sostegno di quest’ipotesi stanno i numerosi eccidi perpetrati in quel periodo dalle truppe partigiane non solo contro gli italiani ma anche contro gli stessi dissidenti jugoslavi: cetnici, domobranci, belogardisti.

“Trattare argomenti così vicini a noi porta a contrapposizioni - dice Mannino a Salimbeni -. Qual è l’atteggiamento degli storici in queste situazioni? E qual è il modo giusto per spiegarle ai giovani?”

“Certo – risponde Salimbeni – la storiografia è strumentalizzabile ma lo storico serio resiste ai condizionamenti e si attiene ai documenti, alle fonti certe. Quanto ai giovani, essi non conoscono la storia, come sono costretto a  constatare quotidianamente durante la mia attività di docente universitario, anche se esistono delle eccellenze. La colpa è anche dei governanti che hanno drasticamente ridotto il tempo dedicato alla storia nelle scuole e degli insegnanti che trascurano particolarmente la storia contemporanea. Invece per formare i cittadini europei è necessario insegnarla in modo nuovo, diverso, non più centrato sulle date e sulle battaglie ma secondo un’ottica etnico-culturale.

“Episodi come quello di Vergarolla – chiede ancora Mannino a Salimbeni – avrebbero potuto scatenare una nuova guerra?” 

“Oltre alla strage di Vergarolla – risponde Salimbeni – sull’atmosfera che si creò a Pola dopo di essa influì il regime comunista instaurato negli Stati occupati dall’URSS, che fece temere che la stessa cosa accadesse pure lì… e le ipotesi sulle responsabilità, i mandanti, gli esecutori furono diverse. Si pensò pure alla responsabilità dell’Italia come è stato detto anche in questa sede. 

 

 

 

 

 
 
 

La Letteratura italiana in Dalmazia

Post n°16 pubblicato il 07 Marzo 2015 da senzaconfini2015

 

 

 Convegno internazionale su

LA LETTERATURA ITALIANA IN DALMAZIA

al Civico Museo della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata 

Trieste, via Torino n. 8 - 27 e 28 febbraio 2015

Il convegno – organizzato dai professori Giorgio Barono e Cristina Benussi del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Trieste –– col patrocinio della Regione Friuli Venezia Giulia, del Comune e della Provincia di Trieste, della Società Italiana per lo Studio della Modernità Letteraria (MOD), dell’Associazione degli Italiani (Adi), dell’Associazione Internazionale Professori di Italiano (AIPI) e dell’Associazione Internazionale Studi di Lingua e Letteratura Italiana (AISLLI) è stato un’ interessantissima e completa rassegna della letteratura italiana in Dalmazia dall’antichità ai nostri giorni. Il convegno si è svolto in una giornata e mezza di studio articolata in una sessione plenaria iniziale e una finale di mezza giornata e in una mezza giornata di ben cinque sessioni parallele. Gli interventi hanno visto la partecipazione di 91 relatori, provenienti dalle Università italiane di Bari, Catania, Torino, Bologna, Modena, Macerata, Milano, Firenze, Roma, Udine, Salerno, Messina, Padova, Trieste, Viterbo, Siena, Napoli, Venezia, Genova, Parma. Ai docenti nelle Università italiane sono stati aggiunti professori degli Atenei stranieri di Salamanca, Zara, Banja Luka (Bosnia Erzegovina), Hankuk (Corea), Malta, Belgrado, Varsavia, Cracovia, Fiume, Pola, Kragujevac (Serbia), Saarland (Germania), Oxford, Cracovia, Parigi, Ain Shams (Egitto), Marsiglia oltre a studiosi di diversi centri italiani e stranieri. 

Gli autori presi in considerazione in maniera più approfondita sono stati Niccolò Tommaseo, Arturo Colautti, Giulio Bajamonti, Giovanni Moise, Enzo Bettiza, Luigi Miotto, Pier Alessandro Paravia ma sono stati trattati anche autori poco noti o addirittura ignoti contemporanei come Liana De Luca, Vladimiro Miletti, Nicolò Ivellio ed altri. Una vera e propria antologia di autori ed opere di cui a breve verranno pubblicati  gli atti a cui si rinviano gli interessati.

 

 
 
 

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