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Post n°480 pubblicato il 17 Ottobre 2015 da meninasallospecchio
Ho studiato il francese da adulta. Non mi ricordo un tubo perché non l'ho quasi mai usato, ma l'ho studiato presso un'istituzione riconosciuta dal Ministero per l'istruzione francese: in teoria ho pure un titolo di studio valido per iscrivermi a un liceo in Francia, casomai ne avessi voglia. Tutto questo non per menar vanto del francese che non so, ma per dire che presumo di aver ricevuto un insegnamento, diciamo così, ufficiale. Questo è quello che intendo per lingua che si insegna agli stranieri, non a parlare come Tarzan, ovviamente. Bene. Al Centre Culturel Franco-Italien mi hanno insegnato che in francese il passato remoto non si usa. Dovete saperlo almeno un po', ci dissero, perché lo troverete in letteratura, ma nella lingua parlata si usa solo il passato prossimo. E in italiano? Un romano istruito usa il passato remoto nella lingua parlata. Con parsimonia, solo in riferimento ad avvenimenti realmente remoti: non l'uso per certi versi caricaturale che ne fa il siciliano e a volte persino il toscano. Perché la regola non è mai stata chiarissima. In Italia è tutto così: d'altra parte se non sappiamo fare delle leggi chiare, perché dovrebbero esserlo le regole della grammatica? In inglese non ho dubbi su quando usare il past simple o il past participle: vale la regola dell'azione conclusa, non importa da quanto tempo. E' una regola più facile da applicare che da spiegare, ma in pratica bisogna parlare come i siciliani. In italiano è prevalsa l'idea che il passato remoto si debba riferire a eventi lontani nel tempo, sempre però avendo come premessa che l'azione sia conclusa. Non pretendo che sia chiaro, ma se mi metto a spiegarlo mi allontano dal succo del discorso. Dicevo: in centro Italia il passato remoto si usa: poco, ma si usa. Al nord, nel parlato non lo usiamo mai. E quando dico mai intendo proprio mai: sia che parliamo dello scorso anno, sia che parliamo di Giulio Cesare, noi usiamo soltanto il passato prossimo. Come i francesi. E mi rifiuto di considerarlo un errore. Da noi un passato remoto nel parlato (escluso il recitare la lezione di storia) potrebbe soltanto avere una funzione ironica. Non sto esagerando. Ovviamente se sentiamo un toscano che usa il passato remoto non ci buttiamo per terra dalle risate, come per esempio quando sentiamo "codesto", che quello ci fa proprio scompisciare; però un sorrisino ce lo strappa, a tal punto per noi è insolito e desueto. Ora, se esistesse (e probabilmente esiste) un Centro Culturale Italo-Francese in Francia, dove si insegna l'italiano ai francesi, che cosa si dovrebbe dire riguardo al passato remoto? Secondo me si potrebbe tranquillamente dire di fottersene: passato remoto? Je m'en fous. Vero è che lo usiamo ancora nello scritto, lo uso persino io che sono ideologicamente contraria. Però, diciamocelo, è proprio astruso. Se pensiamo che un verbo del tutto quotidiano come cuocere fa: io cossi, tu cocesti, egli cosse... Cossi? Ma dai! L'anno scorso cossi un uovo alla coque. Vabbé, non frega un cazzo a nessuno di che cosa cossi l'anno scorso, forse per quello non lo usiamo mai. O forse diremmo invece "feci cuocere". Che poi 'sto "feci", parlando di roba da mangiare, non è tanto una bella immagine. I meridionali immigrati al nord ci hanno portato, oltre alle loro specialità gastronomiche, anche i loro accenti, i loro modi di dire, a volte persino la loro mentalità. Ma il passato remoto no, è un carattere recessivo, completamente perso nelle seconde generazioni (parlo sempre di persone colte, ovviamente). Insomma, io al passato remoto reciterei un bel de profundis e lo relegherei definitivamente ai libri di storia.
(continua)
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