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Il retropensiero del'arte contemporanea.

Post n°69 pubblicato il 31 Agosto 2006 da Sibillias

Il punto fondamentale è questo: non è affatto vero che “l’arte contemporanea non trasmette emozioni”; il problema è che tali emozioni si accompagnano sempre ad un retropensiero. Lo sviluppo del retropensiero (non sempre originale) dilaziona di qualche secondo l’arrivo allo spettatore delle emozioni.
Talvolta si tratta di collegare ciò che si vede ad un significato (useremo il termine messaggio se esso non fosse stato ripudiato dalla quasi totalità degli artisti contemporanei). Talvolta invece l’opera assume senso solo se ricondotta dallo spettatore alle opere viste precedentemente e, ci si augura, al discorso svolto sopra di esse.
Tale dinamica risulta certo macchinosa, ma probabilmente si tratta solo di un modo peculiare e prettamente postmoderno di relazionarsi con quell’oggetto sui generis che è l’opera d’arte (sui generis in quanto in bilico fra il diventare oggetto pop e resistere come elemento di una cultura alta che peraltro ormai non esiste più).
Diversi sono alcuni casi contingenti, in cui il carattere mediato delle emozioni in arte produce decadimenti di senso. Il caso principe è l’arte giovane italiana, quella, per intenderci, prodotta da artisti dai venti ai trentacinque anni. Escludendo il plotone pur consistente dei pittori, ci si trova di fronte ad un proliferare di artisti che ammucchiano, preferibilmente a terra, materiali inerti e disconnessi, dal lembo di panno grigio al pezzo di ferro deformato, dall’oggettino di recupero –che non è più né objet trouvé né riporto oggettivo popista- alla foto della finestra della casa dell’artista.
Tutto ciò rientra (di straforo, come si vedrà) in una tradizione strisciante dell’arte italiana, la tradizione del grigiore. Con ciò intendiamo un abituale uso di modalità espressive sommesse, richiuse su loro stesse, piccole, particulari e talvolta addirittura sciatte.

In pittura ciò si è tradotto in colori grigi, ocra, marroncini; nel cinema in film provincialisti, autocommiseratori, persino nelle ultracommerciali espressioni di Muccino & co e nelle ultrabanali realizzazioni di Moretti & co. Anche in letteratura il fenomeno del grigiore italiano è riconoscibile, spezzato solo dai vituperati Cannibali, da alcune espressioni di spaghetti-cyber, da Wu Ming e derivati, nonché da un recente gruppo di scrittori che ha in Giuseppe Genna il suo esponente maggiormente innovatore.
Eppure: quante e quali stagioni felici, anche nella tonalità del grigio; quali eccezionali espressioni in pittura, da Sironi a certi astrattisti e certi informali, fino ai benemeriti rivoluzionari del poverismo.
Quanti film d’autore splendidamente sommessi e grigi di un grigiore viscontiano (nel senso di Luchino); quanti romanzi fatti di ocra e grigi straordinariamente corposi e affascinanti, come nel caso di Sciascia.
I giovani artisti italiani di cui sopra, quelli degli stracci e dei pezzi di esistenza insignificanti, danno invece vita ad un retropensiero che sembra sterile. In ultimo, tale retropensiero trova un significato solo mnemonicistico e aneddotico: ci si ricorda che l’artista aveva esposto qualcosa di simile anche in precedenza, si impara a riconoscere l’artista nell’ambito di un processo in cui il corpus parla a sé stesso, ossia si parla addosso.

 
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