suni à paris

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Elezioni 2008. Io sono qui. E tu dove sei?

 

 

ATTO SECONDO (O TERZO?) - 2008

Post n°38 pubblicato il 05 Gennaio 2008 da suniz
 

Eeeh, già. L’anno è passato e io come al solito non me ne sono nemmeno vagamente resa conto. Così, as usual, mi sono ritrovata al giorno di Natale d’improvviso, come una povera mentecatta, e poi era il mio compleanno e poi capodanno. Le uniche due cose che ho fatto coscientemente in queste settimane sono state mangiare –tanto, troppo, infinitamente- e rifiutare i festeggiamenti del 31. Per il resto, complice anche la salute quantomeno deprecabile, ho vegetato nell’inverno della campagna, con abbondante nevicata finale che ha imbiancato il mondo intorno a casa.

E poi ieri, finalmente, aereo, rer, metro: casa.

A Parigi fa stranamente un po’ meno freddo che lì, ci deve essere una differenza di quattro o cinque gradi. Ma c’è tempo di pioggia ed è umido. La legge antifumo è arrivata anche qui e viene persino rispettata.

Quando sono uscita in strada a Barbès mi sono sparata nelle cuffie la canzone di Pulp Fiction e mi sono incamminata con la mia valigia, il Boulevard mi sembrava persino grazioso e avevo voglia di ridere. A casa Sim e Cotie mi hanno accolta con mille auguri e ci siamo aggiornati rapidamente, c’era anche un loro amico che è andato via stamattina e vive in Katar.

Siamo andati a mangiare il couscous gratis qui accanto in Africa, a Chateau Rouge, poi è arrivato un collega di Cotie della biblioteca, poi abbiamo iniziato a chiacchierare con una coppia al tavolo accanto, due messicani lei giovane lui sulla cinquantina che hanno fatto tre anni di viaggio in bicicletta attraverso il Sudamerica. Credo che mentre li ascoltavo mi brillassero gli occhi.

Così ci siamo incamminati tutti insieme per andare in un localino che sapeva Simon, e che si è rivelato chiuso, ma lì vicino ce n’era un altro in cui suonava un gruppo e ci siamo fermati. I ragazzi erano molto bravi, facevano un jazz latino molto coinvolgente e siamo rimasti fino alla fine a ballare. Poi, ultima tappa qui da noia  casa con birretta e porro conclusivi.

Mi sono messa a dormire nel mio letto e mi veniva da sorridere, avviluppata nel piumone nella mia stanza.

Questa è casa.

 
 
 

SONO QUI

Post n°37 pubblicato il 14 Dicembre 2007 da suniz
 

Sono qui.

Che a ben guardare il qui al momento andrebbe tralasciato, perché il posto viene dopo, e non perché il posto non sia importante, anche se di solito è così: perché in realtà non è quasi mai il posto che conta, ma la compagnia, o semmai gli eventi che si presentano, ma non in questo caso. In questo caso, e voi amici lo sapete, il posto è fondamentale.

E ad essere proprio precisi nemmeno io, il soggetto sottinteso, nemmeno lui è importante; perché quello che vorrei non è tanto parlare di me, anche se scrivere in un modo o nell’altro è parlare di se stessi, ma piuttosto descrivere una condizione, che sì, è la mia attuale ma forse è più universale, e vorrei trasmettere questa generalizzazione degli eventi della vita.

Ma siccome sono io che scrivo ed è di me che parlo allora partiamo da questo soggetto, io, anche perché partire da sono, dal verbo essere che è la parola che vuol dire tutto e niente, filosofia e grammatica e storia e letteratura, non sarebbe fattibile, porterebbe con sé parentesi troppo ampie. E avendo detto di non voler cominciare da qui, siccome le parole nella frase sono tre –di cui una sottintesa- non resta proprio che lei, appunto, io.

Io, dunque, stasera sono uscita con Arthur per andare ad un concerto di amici suoi, in banlieu. Anche abbastanza bravi, tra l’altro. Ma ero in un posto chic con gente chic a parlare di cose chic, e forse anche sulla parola chic andrebbero fatte delle precisazioni ma non importa. La sostanza è che ero fuori contesto. Ma non ha importanza nemmeno questo, perché suni in qualche modo si adatta, ed ho finito per chiacchierare con Arthur e Matthias, che in fondo è un simpatico guaglione. Il punto è che mentre tornavo a casa, in metro, mi ha assalita la Domanda, lei e tutte le sue compagne che la seguono dappresso, e sono così aggressive e persistenti che mi soffocano.

E seduta su quel sedile con la testa invasa da punti interrogativi di tutte le forme mi sono detta che mai ce la farò da sola. Alla fermata qualunque di una linea qualunque, in una zona povera di Parigi, guardavo la gente ancor più povera della zona che scendeva dalla metro e mi domandavo tra quanto tempo sarò anche io così.

Non mi sono mai sentita molto lontana dai barboni. Forse è per questo che distolgo lo sguardo più di altri, perché mi sembra labile e sottile il confine che divide me da loro e loro da me. Non mi sembra un destino così impossibile se non sai dove stai andando. Anche se lo sai, a volte, ma è un altro discorso che scatena problematiche politiche e sociali di cui non intendo occuparmi in questa sede, ora.

E insomma, mi è venuta tristezza. Mi è venuta voglia anche di condividerla, pensando che magari sarebbe stata più leggera.

Ma ora mi chiedo se una qualunque delle persone che ho in mente in questo momento leggerà mai queste righe, se saprà spiegarle e darmi una chiarezza, alla fine, perché chiarezza è l’altra parola chiave, quella che non fa parte della frase perché è dispersa, è l’obbiettivo a cui tende l’io di cui sopra, me stessa. Chissà se tu, o tu o tu che ho in mente ora state leggendo e capite che vi parlo.

Chissà se tu, che nonostante l’età relativamente giovane sembri avere già chiare tutte le risposte, o tu, che come me di riposte non ne hai e avanzi a tentoni, o tu che bene o male tiri avanti e ti barcameni, sapete darmi la risposta di cui ho tanto bisogno, talmente tanto che non la riesco neanche a cercare, perché l’ansia mi blocca, mi fa rimanere immobile e annichilita dalla paura di non trovare, alla fine, quella stessa risposta succitata che è il motore di tutto.

Chissà se tu, compare amato che cambi in un modo vuoto e amorfo che non mi piace, sapresti spiegarmi con la tua calma sbagliata cosa è bene fare; o se tu, compagna di folli serate e chiacchiericci sciocchi e futili ed altri intensi, riusciresti con la tua risata a distogliermi da questi pensieri; o se tu, amico di sempre che esplori il mondo più e meglio di me, m’indicheresti la giusta prospettiva per dare alle cose un peso non eccessivo; o se tu, amica e sorella di adolescenza e giovinezza, tu che forse meglio di tutti conosci le mie luci e le mie ombre, arriveresti a comprendere e sviscerare l’interrogativo che mi soffoca; o se tu, caro amico perduto, sapresti come prima ridarmi tranquillità con la sola forza di un’allegra frase tipicamente latina. Forse basterebbe questo, qualche parola.

Ma no, non è vero, non cambierebbe. Perché le parole sono traditrici, sono qualcosa che non esiste, segni privi di contingenza e materialità incisi nel vuoto di un foglio senza scopo e che ciononostante io amo al punto di sognare di dedicare loro la mia vita. Forse è questo il problema, amo ciò che non ha importanza e trascuro quanto avrebbe un’utilità.

Ma tutto questo è secondario, in fondo.

Ci tengo a precisarlo per non trasmettere impressioni sbagliate: non sto male, affatto. Nemmeno bene, ma non male. Sono un po’ ibernata, rannicchiata su me stessa in attesa che le domande vadano via perché non so, non so davvero rispondere, non so dove andare o cosa voglio o dove. Cerco di assorbire quel che riesce a passare attraverso la barriera delle mie braccia raccolte intorno al capo, inalo luci e colori e rumori e risate di questa città meravigliosa –ed ecco dunque come promesso il qui, Parigi la bella- senza la quale perderei quel poco di senso che riesco a dare alle cose. Le domande restano ma resta anche lei, maestosa tanto da sembrare eterna anche se non lo è.

E tutto si allegerisce.

Ma voglio una direzione da prendere, cazzo.

 
 
 

Post N° 36

Post n°36 pubblicato il 10 Dicembre 2007 da suniz

Questa cosa mi è uscita un paio di settimane fa, e mi andava di condividerla. Non è niente di speciale, una storiella qualunque.
I riferimenti a cose e soprattutto persone realmente esistenti è del tutto casuale e piena di tanto, tanto affetto (per le persone, perché per una o due cose un po’ meno).

NON SI VEDONO PIU’

Un piccolo grande dolore da niente

Quand’erano bambini, Arturo e Federica trascorrevano un mese d’estate a casa dei nonni, in campagna. Non c’era niente di strano in questo; molti altri bambini lo facevano, o almeno così pensavano loro. Comunque fosse, per un intero mese i due bambini dimenticavano le grigie vie cittadine e il costante brontolio dei motori delle auto per smettere i panni di ragazzi di città e diventare due discoli con le ginocchia incrostate, il sedere incollato al sellino della bicicletta vecchia, le unghie delle dita piene di terra e i baffi di marmellata fieramente sbrodolata in faccia. Arturo seguiva il cane dappertutto, fino a sdraiarsi in terra sotto l’apecar dello zio, imitando la bestiola.
Nel cortile della cascina c’era tutto: due altalene, un vecchio carro rimesso a posto alla buona per far loro da casa dei giochi, un fienile stracolmo di attrezzi arrugginiti, il ping pong e il calcetto, due cani, una ventina di galline e tre piante su cui arrampicarsi. L’insieme delle cose era di per sé sufficiente a permettere loro di trascorrere giorni interi senza stare fermi e senza annoiarsi neanche volendolo, ma la campagna offriva molto di più: giovani coetanei cresciuti nei campi, centauri a due ruote ed abili conoscitori dei dintorni; un bosco facente parte del terreno di famiglia in cui era possibile avventurarsi senza mai sapere in cosa si poteva incappare –specie all’imbrunire, quando le cose si facevano più eccitanti- e che sfociava in altri terreni incolti fino a dove si poteva arrivare; un vecchio ed emozionante casolare abbandonato ormai in rovina, perfetto per le sfide di coraggio; e tutta una serie di nonnine e vecchietti brontolanti sempre pronti a sganciare una caramella.
Per questo, tutto sommato, quindici anni dopo, quando mamma Alessia si mise in testa di andare a vivere lì, nessuno dei suoi due figli ebbe minimamente da ridire: non abitavano più coi genitori, il che sicuramente li influenzava, e difatti l’idea di andarli a trovare nella casa di famiglia era così ancor più gradevole. Un modo per staccare la spina nei confronti del mondo, immersi nella campagna silenziosa e lontana da tutto.
I suoni, in effetti, erano la cosa che a Federica dava una più forte impressione, quando andava in campagna. Non erano solo suoni diversi da quelli della città, avevano  addirittura un’altra qualità; la consistenza stessa del rumore pareva cambiare natura. Ogni suono diventava netto, completo e percettibile. Mancava completamente il brusio di sottofondo che costituiva l’immancabile colonna sonora di ogni momento silenzioso della città: nella quiete dei campi il silenzio era vero, e su quello sfondo muto il minimo rumore risaltava con dignità ritrovata.
Arturo e Federica non ci facevano caso, da piccoli. Per cominciare erano troppo impegnati a divertirsi, inoltre non avevano proprio per la testa di sprecare tempo prezioso con banali riflessioni filosofiche sulla bellezza della natura: era lì, era normale. Per dei bambini l’istante presente è eterno, e quel che c’è non cambierà mai.
Non facevano caso a come il frinire dei grilli sembrasse quasi assordante, o al modo in cui il semplice uggiolio di un cane, in una cascina dall’altro lato della collina, risuonasse lontano nella notte taciturna. Ma c’era una cosa che Federica invece notava con ammirato stupore già da bambina, concluso il tempo massimo consentito per la televisione dopocena.
Le stelle.
La notte pareva trasportare in un altro universo. Sollevando appena il naso verso il cielo, i suoi occhi rotondi venivano bombardati da un’immensità di astri risplendenti in un nero terso e così nitido da dare l’impressione dell’infinita profondità di quello spazio senza fine. Il cielo non era più una volta grigia con appiccicati dei lumicini ma diveniva una res concreta, un luogo fisico inconcepibile ma presente che si dipanava per lunghezze impossibili da immaginare, acquisiva concretezza e si puntellava di magnifiche costellazioni formate di corpi celesti enormemente diversi tra loro anche ad occhio nudo.
Federica crescendo scoprì di amare quel cielo così contrastato, nero e brillante, come poche altre cose. La riportava in qualche modo ad un contatto più reale con la realtà, e il buio della campagna restituiva una maggior spessore ad ogni cosa, rendendo al mondo la sua essenza più reale.
Quel cielo pece lei lo poteva osservare per ore. Qualche volta, intorno ai vent’anni, quando tornava dalla madre invitava a casa uno degli amici più intimi, soltanto per sedere in terrazza in silenzio e guardare le stelle. Non sapeva se loro capissero il perché, o se provassero quella stessa sensazione di muta ammirazione che i Romantici chiamavano sublime, mista di sbigottimento e meraviglia spruzzati d’inquietudine, o ancora se il loro pensiero, come il suo, si perdesse nei più remoti meandri dell’intimo: semplicemente la loro tacita compresenza li portava ad un livello più vicino di contatto.
Qualche volta invece capitava che i due fratelli si ritrovassero nella casa di famiglia nel medesimo periodo, e allora alla sera tardi, quando i genitori erano ormai addormentati, Arturo e Federica aprivano la finestra di una delle loro camere, nella notte priva di suono e colore, ed osservavano le fronde degli alberi perdersi in lontananza confuse al cielo, tra il canto delle civette e gli scricchiolii inspiegabili del bosco, e oltre la pianura distante, costellata di luci in fila, tanto più povere e insignificanti di quelle che splendevano sopra le loro teste. E con uno spinello tra le dita chiacchieravano, svelando confidenze di cui loro e il cielo sterminato erano gli unici testimoni.
Il mondo attraversava un’epoca incerta in cui il lume della ragione pareva talvolta aver abbandonato i suoi figli. L’attitudine all’onnipotenza degli uomini superava ogni vincolo che la logica avrebbe dovuto imporre e lo spirito frenetico di conquista e devastazione, frustrato dall’ormai apparente padronanza di ogni nuovo lembo di terra, si accaniva con feroce disprezzo su quella natura mai del tutto controllata. Mostri di cemento si ergevano al cielo in un dubbio inno trionfale e la fame di ricchezza spingeva ad ogni bassezza in nome del guadagno.
Era, dunque, l’inizio del terzo millennio della storia dell’uomo dopo la venuta di Cristo, tristo figuro la cui santa lezione di armonia era ormai stata annullata e sostituita dalla solenne pompa magna delle cattedrali. Il medio oriente veniva ciclicamente bombardato con pretesti messi insieme più o meno alla buona e le officine producevano automobili sempre più rapide che comunque non potevano correre alla velocità massima loro attribuita senza superare di almeno due volte il limite consentito in ogni stato del pianeta, il che rendeva perlomeno vano il dispiegamento di tanta potenza.
Tutto proseguiva nella norma, insomma.
Con il resto, anche le loro vite si dipanavano più o meno tranquillamente, punteggiate dalle normali incertezze e i consueti dubbi. Eppure Federica non si sarebbe mai dimenticata il fatal giorno in cui il cantiere aprì, o per meglio dire il giorno in cui lei tornò per la prima volta dall’apertura del cantiere.
Era una ben triste distesa di macchinari e cemento fresco, con alte gru e scavatrici piantate oltre le brutte transenne arancioni. Si prolungava per qualche chilometro rosicchiando la terra alla natura e ai proprietari, espropriati in favore del progresso comune senza essersi potuti granché esprimere in merito alla direzione che quel progresso nei loro sogni avrebbe dovuto prendere.
Li chiamavano centri commerciali ed erano ritenuti la nona meraviglia dell’umanità, ma in realtà si trattava di semplici palazzoni metallici e asfaltati innalzati al dio consumo. Non avevano niente di speciale e non servivano a molto, se non abbruttire il panorama. Semplicemente erano lì. Apparentemente.
A scavare sotto la superficie si scoprivano biechi interessi e comuni tentativi di sfrenato profitto, oltre che sicure fonti d’ulteriore inquinamento, ma non risaltava granché all’occhio; Federica stessa, fino ad allora, non s’era mai posta grandi domande in merito ai gemelli del gigante di calce che lentamente prendeva forma ai piedi della collina. Ma questa volta era diverso: l’intruso le compariva sotto casa, spuntato come un fungo velenoso alla base del castagno.
Provò a dir qualcosa agli amici e ai conoscenti, a far notare che era un abominio, un errore: le diedero ragione. Si mise in moto timidamente per alzare una voce che potesse raggiungere un uditorio più ampio, e fu più o meno allora che iniziò a comprendere la natura dei meccanismi di potere: le porte erano sbarrate, le bocche tappate, e i pochi temerari che avevano tentato il medesimo passo le sorridevano sconfitti da sopra il boccale della birra, raccontando con quieta rassegnazione dei loro fallimenti. Ritornò agli amici in cerca d’appoggio, per sentire di lavoro al supermercato, cassiere, libraio. Nemmeno poteva volerne loro: il sistema implacabile stringeva la sua morsa e l’opposizione, in silenzio, annegava.
E l’intruso cresceva, più alto, più ampio, con piedi di cemento e chiome di ferro. Fari immani illuminavano il terreno a giorno, ad ogni ora. Gli imprenditori si stringevano la mano compiaciuti e i mercanti di soldi annuivano soddisfatti.
Federica non era contenta, invece. Federica non aveva voglia di guardare il campi far posto ad un parcheggio piatto e grigio in perpetuo imbottigliamento. Federica, ad essere onesta, se ne sbatteva altamente del fatto che qualche amico avrebbe avuto un posto da cassiere con cui arrivare a fine mese; e se l’amico, chiunque fosse, avesse fatto mente locale e tentato di guardare le cose in prospettiva, probabilmente le avrebbe anche dato ragione. Federica sapeva, e non perché fosse particolarmente acuta ma perché le stava sotto gli occhi, che a guadagnarci, alla fin fine, sarebbero stati i soliti. Federica aveva voglia di piangere perché pensava ad un libro che aveva letto anni prima, la storia di un paesino di montagna mutilato e poi svilito fino all’agonia da un’autostrada enorme che ne spazzava via la fisionomia, col sindaco che era uno dei maggiori azionari. Federica, seduta in un bar qualunque in una via qualunque di una città qualunque distante centinaia di chilometri, sbatteva il bicchiere sulla superficie di legno e, in quella lingua straniera, raccontava con voce tagliente e gran sfolgorio di denti indignati la storia del suo centro commerciale. Era il suo nemico giurato.
Naturalmente era una guerra persa ancora prima di combatterla; il centro commerciale aprì i battenti in una normale mattinata di novembre e la folla si riversò al suo interno; per un paio d’anni la crescita economica era assicurata. E dopo, tanto, gli appalti erano già stati venduti. Che importava, ai soliti, se fosse fallito tutto? Ormai le loro tasche erano piene, come e molto più di prima. Per cui le casse trillarono e la svendita della vita incominciò.
E poi a Federica capitò di passare da casa. Prima, però fece una tappa dal fratello.
Arturo la andò ad aspettare in stazione, nella sua grande città poco distante. Tra le prime cose che le disse, quasi distrattamente, guardando fisso la strada come se qualcuno lo stesse costringendo, fu che adesso le stelle non si vedevano più bene. Si vedevano bene i fari, quelli sì, e il loro alone freddo a bianco si protendeva nel cielo, spingendo le sue propaggini slavate fino a metà altezza.
Federica pensò che non doveva piangere. Non era importante, erano solo stelle. Ma né lei né il fratello sorrisero, in quel momento, e Arturo cambiò marcia mormorando che era uno schifo. Non ne parlarono più per il resto della serata, né il giorno dopo, e quello dopo ancora, e Federica partì per la campagna come se non si fossero mai detti nulla.
Arrivò che il solo era già tramontato, trascinando in camera le valigie mentre i genitori la aspettavano in cucina. E la prima cosa che fece, senza dir nulla, con la percezione precisa e consapevole del dolore che si stava infliggendo, fu aprire la finestra e guardare il cielo notturno. Rimase immobile, con gli occhi spalancati e gonfi di lacrime silenziose e discrete, e guardò attentamente il grigiore del cielo con così poche stelle, quel cielo in cui di solito ne risplendevano tante da superare la fantasia, lo scrutò a fondo per imprimerselo nella memoria e poter odiare, ogni giorno, senza un obiettivo particolare. Singhiozzò in silenzio, una, due volte, mentre il suo stomaco si strappava da qualche parte e le faceva male d’impotenza. Osservò ancora la notte violentata fuori dalla sua finestra gridando dentro se stessa che un giorno qualcuno avrebbe pagato: non importava né chi, né come, ma avrebbe dovuto accadere, se solo c’era un po’ di giustizia. Se c’era.
E poi, chiuse la finestra su quella parte di se stessa che le veniva rubata e che nessuno le avrebbe restituito più. Si ripeté, un’altra volta, che non era grave, erano solo stelle. E le stelle non si possono possedere, l’uomo d’affari del Piccolo Principe era solo un buffone che contava tanto per nulla. Le stelle non danno profitto, non servono a niente.
Non si può neanche toccare, una stella. E’ soltanto un puntino bianco e lontanissimo che si può immaginare, non ha valore rispetto a ciò che è concreto, materiale, terreno.
Il mondo è vicino.

 

 

 
 
 

AVANTI...

Post n°32 pubblicato il 09 Dicembre 2007 da suniz
 

E’ quasi Natale!

Fa freddo e piove. Ma il cielo si sta schiarendo e diventa azzurro cupo.

La tesi è fatta. Devo sistemarla un pochino, mettere a posto le note e le citazioni e rivedere qualche passo, ma il grosso c’è e ieri sera alle dieci ho messo il punto finale dell’ultimo paragrafo.

Poi ho fumato, sono uscita e mi sono sbronzata fino alle sei e un quarto del mattino. Metodicamente. Era il compleanno di Marta –una delle spagnole, non la mia amiketta- e ha fatto una festa enorme in casa di un amico. Lei è quella che fa sempre le feste a casa sua a cui vado e puntualmente mi riduco a uno straccio intriso d’alcol, ma ieri sera essendo il suo compleanno invece di fare da lei a Gambetta si è spostato tutto da Sebastien, un altro amico, per avere più spazio. Vi lascio immaginare il caos. Io sono arrivata a mezzanotte, mi sono appropinquata a uno dei tre tavoli del bere –li avevano disseminati per la casa per essere sicuri che uno non potesse proprio evitare di ubriacarsi- e poi ho comninciato a volare sempre di più fino a quando stamattina Blanca ha deciso che dovevamo trascinarci a casa. Fortuna non eravamo lontane.

La casa era veramente bellissima e grandissima. C’era Irene e Elena e Axel e Alba e Imad e Florian e Valentin e Jalil e Amin e un amico di Elena molto simpatico e discretamente carino che si chiama Thomas. Insomma c’erano le persone che vedo più spesso a Parigi quasi tutte lì ed è stato davvero carino. Ho chiacchierato con le solite seimila facce sconosciute con cui blatero sempre alle feste di Marta e Valo e credo di essere stat completamente cretina come al solito perché ero proprio sbronza. Imad ogni tanto mi guardava e scoppiava a sghignazzare come davanti ai pagliacci, mi abbracciava con due pacche sulle spalle e mi chiedeva se potevo davvero stare in piedi. Ogni tanto mi dà l’idea che pensi che sia veramente una bambina. Non è che io faccia molto per non dare quest’impressione.

Amin è il suo coinquilino. E’ un ragazzo grande e grosso ed è una delle persone più simpatiche di sempre. E’ molto intelligente e molto acuto, veramente colto. Mi trovo benissimo con lui e sono contenta di averlo conosciuto, ma dopo Natale va a stare in Martinica per un dottorato di tre anni. Mi spiace, anche perché non ne ha voglia. La Martinica non gli piace, a quanto pare. E poi dice che tre anni fa è venuto a Parigi ed è già stato un bel cambio da Casablanca.

A me davvero è dispiaciuto. Lo conosco da un mese e l’ho visto pochissime volte ma ieri sera abbiamo parlato un casino e sarebbe una persona di quelle da avere in qualche parte della vita, e andartici a fare una gustosa birra chiacchierina quando hai due ore libere.

Intanto c’è qui Nando che è venuto da Roma, e io a stento riesco a parlare. Sono le sette di sera e la giornata è scivolata via senza fare altro rumore che il picchiettio della pioggia. Faccio fatica persino a stare dritta sulle gambe.

Venerdì sera, invece, dovevo andare con Imad al cinema a vedere il film nuovo di Coppola, dovevamo vederci a Les Halles alle nove e la proiezione iniziava alle nove e un quarto. Alle nove e trenta precise siamo riusciti ad incontrarci ad una delle trecento uscite di quella maledetta stazione della metro, e per giunta nessuno dei due aveva l’indirizzo del cinema. Ho riso quel tanto che bastava e mi sono lasciata trascinare ad un biliardo con i suoi amici perché avevo appuntamento con Blanca e Nando solo alle undici e un quarto.

Il biliardo con sei marocchini amici d’infanzia e tu come unica donna presente è un’esperienza formativa interessante. Mi son ben guardata dal giocare e mi sono divertita molto, anche se ovviamente c’erano svariati stralci di conversazione che non mi venivano tradotti in francese. Ho anche intavolato un bella discussione teologica profonda con Imad e Amin al termine della quale ognuno aveva conservato fermamente la propria idea di partenza ma tutti e tre eravamo molto contenti di averla esposta con pacatezza.

Giovedì sera invece sono andata con Arthur da Max, quello grosso e ubriacone che mi fa ridere. Siamo stati a casa sua per tre orette, c’erano anche altri tre amici. C’è stato un bell’excursus che ho ascoltato avidamente sulla musica francese e poi un po’ di conversazioni molto carine sui vari posti in cui avevamo vissuto. Ho riso molto. Max viene dalla campagna e ha la stanza piene di poster della proloco del posto, sembra un ufficio del turismo.

Insomma, tiro avanti. Potrebbe andare molto peggio, e alla fine nonostante la paura e l’incertezza sono in qualche modo anche serena. Sicuramente contenta pur essendo spavantata e dell’essere spaventata al tempo stesso. Tutto sommato il dubbio mi piace, è fertile. L’incertezza apre un ampio ventaglio di prospettive che la stabilità rende troppo lontane. Immagino le mie incognite sull’avvenire come una lunga linea diagonale in grafico, che sale verso l’alto tendendo a cercare sempre più chiarezza. E in pittura è la linea diagonale ad esprimere energia e dinamismo.

Un sorriso a tutti.

 
 
 

FA FREDDO

Post n°31 pubblicato il 29 Novembre 2007 da suniz
 

Parigi ha deciso che l’inverno è arrivato.

Stasera fa così freddo che non si può nemmeno fingere di essere abbastanza coperti, ma solo battere i denti e incassarsi nelle spalle sperando di raccogliere un po’ di calore corporeo. L’aria sembra fatta di spilli di ghiaccio che si conficcano non solo in ogni centimetro di pelle scoperta, ma anche attraverso pantaloni, giacconi e scarpe, indifferenti alla resistenza di lana, piume e cuoio.

Ho passato alcuni giorni di chiusura. Sono uscita di casa a stento, per pochi minuti al giorno, presa mio malgrado dalla tesi che, adesso che manca un passo, avanza a stento, malvolentieri. Giornate passate davanti allo schermo buttando giù poche frasi, isolata da tutti, con incursioni generose di Blanca che mal si rassegnava al mio mutismo assente. Non ho nemmeno capito bene a cosa fosse dovuto, poi. Forse alla confusione, all’incertezza per quel dopo che ignoro, così interrogativo e assolutamente incognito, per il quale al crescere delle domande che mi pongo corrisponde un proporzionale aumento della confusione. Ma tant’è, dopo la tesi tra me e questo baratro di incertezza non rimarranno più alibi né palliativi, e questa cosa deve avermi fiaccata, perché da tempo non mi sentivo così apatica e insoddisfatta.

E poi, ieri sera è arrivata Viviana da Trieste. Siamo rimaste su fino alle quattro, in cucina col the verde e i suoi biscottini udinesi, a parlare senza smettere un attimo, discorsi filosofico-esistenziali su di noi, aspettative, incertezze. E nonostante io, dopo, non abbia praticamente chiuso occhio, stamattina mi sono alzata e qualcosa era cambiato. Ho finito un capitolo di tesi, mi sono persino vestita decentemente e pettinata, e alle sei sono uscita per raggiungerla alla Maison de la Photò, e Parigi mi ha investita di nuovo come un treno. Il Marais mi è sembrato letteralmente il posto più bello del mondo, con le sue viuzze e i palazzi vecchi, lindi e armonici. Dopo l’esposizione di foto, siamo andate in una birreria lì vicino, dove mi aveva portato il mio caro Matthias l’anno scorso, io lei e Aurelie, la sua amica francese. E poi, un bella sbafata del falafel migliore di Parigi –e forse del pianeta- per concludere degnamente la serata, durante la quale mi ha anche chiamata Imad per sapere che fine avevo fatto, offeso all’esagerazione per non aver più avuto mie notizie, ma che poi ha finito per invitarmi al cinema venerdì e ad una festa sabato sera.

E dall’Italia un amico, mio malgrado, mi ha fatto sapere che ha scoperto un mio segreto. E in fondo va bene così. Stasera il mondo mi piace.

Respiro di nuovo aria serena.

E mentre volente o meno mi metto in discussione, tante cose mi affollano la testa. Perchè adesso che dovrà iniziare una nuova fase, mi sembra di aver voglia di riordinare tutto, per poter cominciare al meglio, quasi volessi fare un inventario di me stessa e del mio rapporto col mondo che mi circonda. Tante cose mi si affacciano alla mente, cose che non voglio e non posso trascurare. Non voglio inziare un nuovo pezzo di vita con rimorsi o incertezze o problemi da chiarire. Voglio che tutto sia limpido e netto, nel bene e nel male.

E, tra l'altro, voglio parlare con Carlito.

Se mi guardo, mi rendo conto che ho spesso l'atteggiamento di lasciarmi scorrere le cose addosso, di non agire ma lasciarmi reagire quasi passivamente, vivendo di conseguenza. E non mi va, non è quello che voglio. Voglio arrivare al giorno in cui la Nera Signora chiederà il suo tributo e potermi guardare indietro dicendomi che anche volendo non avrei potuto fare più di così, in qualsiasi ambito. Per cui, amici miei carissimi, vi dico questo ora, e tagliatemi le mani se vedrete che non lotterò per ottenerlo: voglio fare lo scrittore, e voglio conoscere il Cile. Ci ho messo vent'anni e più a prenderne atto e a dirlo ad alta voce, ma se per così tanto tempo dei sogni ti rimangono rannicchiati sottopelle e non se ne vanno, mai, allora penso che la cosa migliore da fare sia cercare di dar loro una consistenza concreta, di renderli il più possibile realtà. E se anche non hanno senso, magari l'avranno quando saranno veri, o quando saranno dimenticati per cause di forza maggiore.

Sorrido, ed è molto piacevole.

 
 
 
 
 

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Ingredients:

5 parts mercy

1 part courage

3 parts instinct
Method:
Stir together in a glass tumbler with a salted rim. Top it off with a sprinkle of fitness and enjoy!



 
 

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