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Jacopone da Todi, quando lo spirito si fa poesia

Post n°4 pubblicato il 10 Giugno 2006 da eleperci
 

di ELENA PERCIVALDI
«O papa Bonifazio, molt’ài iocato al mondo; / pensome che iocondo non te ’n porrai partire!». La celebre invettiva di Jacopone da Todi contro il pontefice  Bonifacio VIII, che lo aveva  fatto incarcerare  nei sotterranei del convento di San Fortunato, risuona ancora oggi come un potente monito contro chi, nella Chiesa, più che di questioni spirituali si ostina ad occuparsi  di faccende mondane, allontanandosi  da quel modello di santità indicato con tanta forza da chi da sempre si richiama alla parola vera di Cristo.  E sono versi che quest’anno  saranno letti e recitati chissà quante volte  insieme ai tanti altri scritti dal frate nelle sue laude, visto che di Jacopone,  nel 2006, si celebrano i 700 anni della morte. Un omaggio più che doveroso nei confronti di  uno dei protagonisti della letteratura italiana delle origini e di uno dei padri della nostra tradizione poetica.

FALSO INGENUO

  La poesia di Jacopone è  contraddistinta da una grande varietà di temi, dalla violenta  condanna del vizio all’esortazione alla povertà, dall’invettiva  contro le degenerazioni del clero contemporaneo e contro lo stesso  papa, a un profondo slancio mistico.   Il corpus poetico a lui attribuito consta di un centinaio circa  di Laudi,  tra cui le celeberrime  Donna de Paradiso e Il pianto della Madonna, un trattato  ascetico e alcuni componimenti latini tra i quali, per intensità e fortuna, svetta lo Stabat Mater, che racconta il dolore della Madonna ai piedi della Croce dove è crocifisso Gesù.
Il linguaggio di Jacopone è  basato fondamentalmente sul dialetto umbro,  crudo e sensuale;  la struttura metrica contamina modelli  dell’innografia latina con elementi della tradizione volgare, a dimostrazione della loro forte letterarietà. Letterarietà che è contraddistinta, sempre, da un acceso  spirito combattivo che lo colloca al tempo  dello scontro interno al movimento francescano tra Spirituali e Conventuali, tra chi cioè era per una riforma profonda della Chiesa in senso rigorista e morale, e  chi invece non si scandalizzava del suo avere a che fare, in tutto,  con le “cose del mondo”.

UNA VITA AI MARGINI

Jacopone da Todi, al secolo Jacopo  de’ Benedetti, nacque a Todi da famiglia nobile intorno al 1230. Dopo  aver studiato giurisprudenza a Bologna, si avviò alla carriera notarile  in  città finché, nel 1268, fu colpito da una  tragedia che gli avrebbe cambiato la vita: la morte dell’amatissima moglie Vanna, travolta dall’improvviso crollo del  pavimento di casa. Al dolore e allo  sconcerto che ne seguì si aggiunse la scoperta che la consorte, di nascosto, indossava il cilicio come veste penitenziale.  Jacopone  conobbe così una vera e propria crisi mistica che lo portò, seguendo le orme di san Francesco d’Assisi, a : lasciare il lavoro e i rapporti sociali per  iniziare un percorso di pubblica  penitenza e umiliazione. Un iter spirituale profondo e sofferto,  al quale non furono alieni momenti di esaltazione che rasentavano la follia, come quando giunse ad un convivio camminando carponi  carico di un basto d’asino, oppure  quando alle nozze del fratello si  presentò nudo, spalmato di grasso e rivoltato fra piume.
Per dieci anni, Jacopone  fece vita di  “bizzoco”, dedicandosi  cioè all’ascesi e mendicando, collocandosi dunque ai margini della società, ultimo fra gli ultimi.  Un’esperienza radicale, che terminò solo nel 1278 quando entrò nell’ordine francescano come frate laico.

TEMPI CUPI

Erano, gli ultimi decenni del secolo XIII, momenti cupi per il movimento fondato mano di cinquant’anni prima con tante difficoltà dal poverello di Assisi. Morto Francesco nel 1226, l’ordine, nonostante la fulminea e capillare diffusione un po’ ovunque,  si macerava nel travaglio delle lotte intestine tra la fazione dei  Conventuali, intenzionati ad attenuare il rigore  pauperistico della regola di san Francesco, e il gruppo degli Spirituali,   fermamente vocati  a mantenere inalterato lo spirito originario dell’Ordine. 
Jacopone si schierò con questi  ultimi, e insieme ai cardinali Jacopo e Pietro Colonna  arrivò al punto di  disconoscere   - firmando il cosiddetto “manifesto di Lunghezza  del 10 maggio 1297 - la validità dell’elezione di papa Bonifacio VIII, che invece  vedeva di buon occhio l’affermazione dei Conventuali. La reazione del pontefice non si fece attendere. Prima emanò contro gli oppositori  la scomunica, poi spedì loro contro un vero e proprio esercito. La  roccaforte dei Colonna a  Palestrina, stretta in d’assedio, capitolò un anno dopo e fu rasa al suolo. Sul terreno il papa fece spargere il sale in modo che non vi potesse crescere più nemmeno l’erba.
Jacopone, catturato,  fu condannato  al carcere perpetuo.  A liberarlo fu, nel 1303,  il successore del Caetani,    Benedetto XI. Ormai vecchio e prostrato, il frate poeta poté così  trascorrere  gli ultimi  anni  della sua vita nel  convento di San Lorenzo di Collazzone, nelle vicinanze di Todi,  dove si  spense il 25 dicembre del 1306.  

SUCCESSO POPOLARE

Dopo la sua morte i suoi versi, nonostante la damnatio memoriae al quale fu sottoposto il loro autore (accusato di essere “ai margini” dell’ortodossia e quindi tenuto accuratamente lontano dagli altari), conobbero  una grande diffusione soprattutto a livello popolare.  A favorirne l’apprezzamento senz’altro  la vicinanza, quantomeno come ispirazione,  al Cantico delle Creature di Francesco.  Rispetto al modello, però, i componimenti del frate di Todi sono caratterizzati da un  tono e da una  poetica assai  meno lieta  e mistica. Scompare il senso di armonia con la natura e  lo stupore (a tratti quasi ingenuo) del mondo che caratterizzava lo slancio di Francesco, vi domina invece una concezione ben più materiale, intima e  dolorosa della vita e del creato,  in  parte autobiografica, in parte dovuta all’oscurità morale dei tempi.  In molte laudi prevalgono le accuse e  l’invettive agli avversari, come nei citati versi  contro Bonifacio VIII, oppure in quelli altrettanto celebri che  rimproverano papa Celestino V, al secolo Pier del Morrone,  di non fare abbastanza - lui che per gli Spirituali fu depositario di grandi speranze - per promuovere la causa della riforma in seno alla Chiesa.
In tutti i componimenti, comunque, si respira potente il senso del realismo e una grande immaginazione, pari forse solo a quella di Dante, che del resto ne conobbe e apprezzò l’opera anche per la forza dello stile e delle scelte linguistiche, di sconcertante efficacia, intensità e violenza espressiva.
LA MISTICA DEL LUTTO

Apparentemente semplici e immediate, le laude di Jacopone mostrano invece la profonda cultura del frate e la sua conoscenza della  tradizione retorica, sia per quanto concerne l’innografia mediolatina, sia per ciò che riguarda l’allora nascente  lirica volgare,  sacra e profana. Per questo,  Jacopone può essere considerato tra i poeti delle origini secondo solo al Sommo,  sia per l’ampiezza dell’opera, sia per la  diffusione manoscritta. Dopo la sua morte il laudario fu trascritto decine e decine di volte e diffuso  non solo in ambiente culturale umbro, ma anche in Toscana   e  nel Lombardo-Veneto.  E la struggente icasticità dei versi dello Stabat Mater, entrati di prepotenza nella liturgia pasquale e nelle sacre rappresentazioni popolari (al punto da essere musicata da moltissimi compositori da Giovan Battista Pergolesi  a Johann Sebastian Bach, da Antonio Vivaldi a  Gioacchino Rossini, su su fino a  Giuseppe Verdi  e oltre), è rimasta per secoli il simbolo più potente della sofferenza e della morte, non solo come mistero liturgico ma anche come lutto  profondamente, puramente umano.  Ed è  forse la religiosità così profonda e schietta  la più grande eredità lasciataci da questo frate vissuto sette secoli or sono, ma oggi   ancora così  attuale.
 
02/03/2006
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