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Post N° 31

Post n°31 pubblicato il 15 Settembre 2005 da unaqualunque_s
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Le carezzavo le gambe e non la sentivo fremere.
Non mi restava che la scia dolciastra del suo doposole.
La amavo, ma non ero più in grado di attirare la sua attenzione.
La amavo, e deviavo quella periferia, dentro le ossa di quell'altra donna.
Lei non mi deludeva, non aveva ricordi posati sulla carne.
Scopavo con nessuno.
In quelle soste euforiche e patetiche, diventavo il ragazzo temerario che avrei voluto essere e che non ero stato.
Scendevo a giocare in cortile a dispetto di mia madre, delle sue pallide mani ferme sul pianoforte.
Squarciavo le rane.
Sputavo nel piatto.
Dopo ero solo, esattamente come prima.
Però il profumo del crimine rimaneva, risaliva dal buio e mi faceva compagnia adesso, mentre un ciuffo di canne a lato del giardino si muovevano assecondando il verso leggero del vento.
"Ti ricordi quell'uomo al funerale di mio padre?"
Elsa era appoggiata sui gomiti, inclinò leggermente la testa verso di me.
"Quale?"
"Quello che lesse."
"Si, vagamente..."
"Ti sembrava sincero?"
"C'è gente che s'infila nei funerali degli altri, poveracci che non hanno di meglio da fare."
"Non credo che fosse uno così, conosceva il soprannome di papà, e poi piangeva."
"Tutti hanno molte ragioni per piangere, i funerali sono solo una buona occasione."
"Tu per cosa piangevi?"
"Per tuo padre."
"Lo conoscevi appena."
"Piangevo per te."
"Ma io non ero triste."
"Appunto."
Mi sfilò le gambe da sotto le mani e scelse di ridere.
"Vado a farmi la doccia, che è tardi."
Ma si, fatti la doccia!
io resto ancora un pò.
Mi guardo il sole che cala nel mare dalle frange porpora di questo cielo così bello che ti fa credere in Dio, in un mondo dove i tuoi morti ti aspettano per dirti che nulla andrà perduto.
Mi brucia la punta dell'uccello, intanto che penso a mio padre.
Ci penso da solo come è giusto che sia, sotto questo cielo cardinalizio.
E forse mi prendo una birra dal frigo, oppure m'incazzo se sono rimaste sotto il tavolo.
C'era una foresta di gente a casa di Gabry e Lodolo, dentro un accerchiamento di torce che si allungavano nel vento
Facce abbronzate mi venivano incontro, denti bianchi nel buio.
Indossavo il mio completo di lino chiaro, senza cravatta, i capelli ancora umidi sulla nuca mi regalavano un brivido di frescura che s'infilava sotto la camicia.
La barba lasciata libera di crescere come ogni fine settimana.
Con un calice in mano, salutavo quello e quell'altro.
Docile come un apostolo.
Accanto al tavolo degli aperitivi, Elsa parlava con Manlio e sua moglie, muoveva le mani e i capelli, sorrideva.
Le labbra sontuose si schiudevano a ripetizione sull'anello della dentatura superiore, leggermente prominente, consapevoli del potere racchiuso in quel piccolo difetto.
L'abito di raso, cremisi come il rossetto, carezzava i sussulti del suo seno solido, mentre rideva.
Alle feste ci separavamo sempre, ci piaceva farlo.
Ogni tanto ci sfioravamo per qualche commento sussurrato, ma quasi semrpe rimandavamo a dopo, a casa, quando lei scendeva dai tacchi e ritrovava le sue espadrillas.
I nostri amici ci facevano ridere, più erano tragici più ci facevano ridere.
Ne parlavamo malissimo, ma con molto affetto, e questo bastava ad assolverci.
Elsa catturava con disinvoltura il gheriglio di ogni legame, scansava la buccia e affondava nella fragilità della polpa.
Aveva fatto l'autopsia a tutti i matrimoni che ci circondavano.
Grazie a lei, sapevo che tutti i nostri amici erano infelici.
Ora sembravano molto contenti.
Mangiavano, bevevano, guardavano le donne degli altri.
Evidentemente la loro infelicità era sufficientemente agile da svaporare nei bicchieri di prosecco e scivolare lontano, oltre il giardino pensile, sul mare in basso, oltre il motoscafo di Lodolo con i parabordi candidi nell'acqua notturna.
No, non mi sentivo attorniato da anime in pena.

 
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