Creato da Tanysha il 15/01/2008
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MA IL NAVIGATORE NO?

Post n°81 pubblicato il 08 Settembre 2014 da Tanysha
Foto di Tanysha

         

Se in un torrido   pomeriggio romano, domenicale e settembrino tu, che patisci il caldo come una febbre tifoidea e per giunta le domeniche, nei suoi eterni  pomeriggi, sono sacre e inviolabili,  con tutto ciò ti fai saltare il ticchio di muovere l’intero apparato locomotore per assistere a un seminario che tratta di medicina alternativa,  condotto da una bizzarra e geniale dottoressa, deve trattarsi proprio di una lezione superlativa, favolosa e irripetibile.

            Premetto che da quando abito a Ostia ho disimparato a conoscere Roma, che non si finisce mai di conoscere, una specie di infinito corso a puntate, dove, se se ne salta una, si perde l’esercizio di andare a curiosare negli angoli sconosciuti un pezzo alla volta, sperando finalmente di ricomporre l’immenso puzzle costituito da questa città che sembra di giorno in giorno ingigantirsi sempre di più.

            La location del corso è al Villaggio Olimpico, zona a me totalmente ignota. Cioè, non del tutto. Chi non conosce Roma deve sapere che molti suoi quartieri sono dei gemelli separati alla nascita, nel senso che, vuoi durante il fascismo, o durante l’espansione del boom economico, il costruttore di turno si è divertito a fabbricare lo stesso quartiere identico e speculare in due zone lontanissime fra loro.  Un esempio è la Garbatella, che ha il suo gemello diviso in zona Piazza Bologna. Entrambi sono costituiti da condomini dal preziosismo un po’ rococò, pieni di rifiniture barocche, alla faccia di chi si ostina a definirli ancora “edilizia popolare”. Il Villaggio Olimpico per l’appunto ha il suo gemello nella zona del Torrino, nei pressi dell’Eur.  Se capita di girare in quelle zone sembra di essere finiti in due dimensioni parallele. Insomma, sono due quartieri  veramente identici e speculari al millimetro.

            Ieri, prima di avventurarmi in quelle contrade, ho lasciato spavaldamente a casa il navigatore satellitare, fidando nel mio intuito infallibile che mi porta a riconoscere a senso quasi tutti  gli indirizzi. Mal me ne incolse!

            Intanto, non avevo fatto i conti con Corso Francia, che sarebbe una mega arteria che attraversa come un bisturi la parte nord di Roma. Ma il bello è che questa arteriona, da semplice strada di collegamento, ad un tratto diventa sopraelevata, che, da Vigna Stelluti a Collina Fleming, zone sue pari, a un certo punto guarda dall’alto in basso i quartieri più popolosi della città sopraelevandosi di parecchi metri. Quindi, per raggiungere la via di raccordo da lì al Villaggio Olimpico, bisogna fare una circumnavigazione intorno a Ponte Milvio, e già questo non è poco, perché non è facile trovare il canale collettore in cui poter girare, la fatidica Via Perù, imbucata la quale, mi illudevo di essere arrivata a destinazione.

            Invece, me tapina, in realtà non avevo fatto i conti con l’estensione tentacolare del villaggio Olimpico, che da solo farà centinaia di migliaia di abitanti.

            E, la cosa più terribile in tutto ciò, è che gran parte delle vie del Villaggio Olimpico sono strade a senso unico. Il che vuol dire che se si segue la strada sbagliata, anche di poco, bisogna rifare a ritroso la via parallela e poi sul più bello si è costretti a girare di nuovo, perdendosi nella notte dei tempi. Per giunta ieri, alle quattro del pomeriggio, con la canicola battente, giravano pochissimi esseri umani. Anzi, a dir la verità anche la specie animale era pochissimo rappresentata, se si esclude qualche furtiva lucertola. E poi la strada che spasmodicamente cercavo, la fatidica via Belgio, alla fine dubitavo esistesse davvero, a giudicare dalle facce costernate delle rare persone a cui avevo la ventura di   chiedere. E c’è stato persino un tizio, che credendosi  spiritoso mi ha chiesto “ma il navigatore no?” C’era da rispondergli male. Insomma, ho girato in lungo e largo per oltre mezz’ora, inutile dire che le rare edicole e supermercati erano tutti desolatamente chiusi.

E’ stata una sfida. Alla fine mi sono resa conto che la sede del seminario è stata, in un certo senso, resa volutamente introvabile per mettere alla prova la motivazione di chi voleva seguirlo. Un po’ come certe antiche prove iniziatiche superate le quali eri già a metà del percorso sapienziale. E comunque, più mi rigiravo in quel labirinto,  più mi allontanavo dalla meta. Alla fine, ho avuto una specie di lampo. E’ vero che al Villaggio Olimpico le vie sono molto lunghe e strada facendo il nome cambia, per questo è così difficile orizzontarsi, e così, prima di lasciarmi andare a un attacco isterico, ho guardato attentamente la cartina sullo smartphone. La strada che cercavo da mezz'ora era in realtà il prolungamento di un’altra strada da me più volte percorsa e dove avrebbe dovuto esserci il cartello indicatore in realtà non c’era nulla di nulla. Per questo mi ero impazzita a cercarla! Mentalmente ho ingurgitato parolacce e imprecazioni contro l'urbanista così distratto e appsorrimativo.

            Ho fatto il mio ingresso nella sede del seminario pensando di aver vinto qualcosa. Eppure le tante persone che si trovavano là erano tutte tranquille, con la massima naturalezza, come se ci fossero sempre state. Quanto è difficile condividere affanni e tribolazioni!  Siamo proprio soli! Fino a che non ci decidiamo a raccontarlo.

 
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MIRA DRITTO AL CUORE - AMNERIS DI CESARE - RUNA EDITRICE

Post n°80 pubblicato il 13 Agosto 2014 da Tanysha
Foto di Tanysha

   Di questa autrice mi ero già occupata a suo tempo a proposito di Nient’altro che amare, un romanzone che parla di un sud in parte scomparso, popolato di personaggi quasi epici, con al centro  una protagonista semplice, coraggiosa e sentimentale.

         Anche  stavolta ci troviamo nel reparto sentimenti, e, avendo già premesso che Amneris non è un’autrice solo squisitamente rosa, ma con profonde sfumature  introspettive, con questo romanzo ne ho un’ulteriore conferma.

         Siamo nel pieno degli anni ottanta,  l’esplosione dei villaggi turistici, dei ragazzi che per  pagarsi gli studi  si improvvisano animatori per un paio di mesi, al ritmo della disco dance e delle canzoni “unforgettable”  piene di ritmo, (responsabili oggi della nascita di decine di radio private nostalgiche strettamente dedicate - con i cinquanta-sessantenni in forte incremento oggi c’è un notevole ritorno).  La Milano e non solo, anche la Bologna e la Roma, tutte da bere,  un’idea di ricchezza non ancora disillusa, intere famiglie in partenza per soluzioni vacanziere tutto compreso.

 Questo è lo sfondo di Mira dritto al cuore. Sì, perché Amneris Di Cesare dà sempre grande importanza alle premesse sociologiche  nei suoi romanzi e li incornicia con ambientazioni ben particolareggiate. La protagonista è Sarah, la sua educazione sentimentale e l’amicizia con l’altro sesso, che inizia proprio in un villaggio turistico, dove incontra  i due – apparentemente - opposti maschili: Thomas, che sembra burbero e scostante e Rudy, molto più affabile.

Ma come accade quasi sempre, la realtà  si ribalta: il ruvidone è tenero e pieno di valori, quanto l’altro è cinico e superficiale. Va da sé che Sarah diventa amica dell’idealista Thomas, ma il loro  rapporto è sempre sull’orlo di sconfinare in qualcos’altro, restando costantemente in bilico, anche nel corso degli anni quando ognuno avrà la sua vita, resteranno un riferimento l’uno per l’altra, come la “stella polare” non tramonterà mai,  una sorta di simbolo di iniziazione  emotiva. Salvo poi ribaltarsi di nuovo tutto, quando riappare Rudy, che ora sembra esser lui quello pieno di valori. Nella seconda metà il romanzo si vivacizza un po’ in stile Relazioni pericolose, appare un altro terzetto di personaggi e la faccenda si fa sempre più contorta e a tratti un po’ osè.

 Amneris Di Cesare è abile a  disimpegnarsi nelle tortuosità dell’animo umano, a seguire passo dopo  passo la storia di un’amicizia e delle sue infinite colorazioni emotive, un po’ come gli amici del romanzo di Andrea De Carlo “Di noi tre”, che resteranno legati per oltre vent’anni, riesce a fotografare i cambiamenti più significativi del percorso accidentato dell’esistenza, coinvolgendo il lettore, che non può mai stare tranquillo, perché, come dice Venditti in una sua famosa canzone, anche quando sembra finita, è proprio lì che inizia la salita. Non si tratta quindi, ancora una volta, di un romanzo prettamente rosa, ma di una storia, se mi si perdona un tuffo nel kitsch, che potrebbe definirsi color fucsia, e di un colore cangiante, per giunta, laddove per fucsia intendo la dinamizzazione dei sentimenti, immortalati sempre  sul punto di virare verso qualcos’altro, mai abbastanza statici da poterli  inquadrare in qualcosa di definito.

         Il titolo del romanzo ha origine da una frase che Sarah, la protagonista, rivolge al padre nelle prime pagine, dove il cuore non è inteso come centro delle emozioni, ma come  natura intrinseca delle cose. Quindi già il titolo, nonostante la copertina un pochino fuorviante, due cuori intrecciati in primo piano con innamorati abbracciati  che guardano il mare, un po’ generica, se si pensa alla natura della protagonista, così portata a cercare l’essenza di tutto ciò che vive; già il titolo, dicevo, sottintende il cuore inteso come nocciolo della questione. Insomma, Sarah sembra alla ricerca, per tutto il romanzo, di una scala di valori assoluta, di qualcosa che sia per sempre e che sembra aver trovato nell’amicizia. Maschile, per di più, vale a dire una perla rara. Qualcosa di fisso, imperituro e inalterabile, a dispetto delle tempeste della vita. Chi non desidererebbe un’amicizia del genere? Già le amicizie dello stesso sesso sono difficili – colpa dell’invidia, direbbero le nonne – colpa dell’incomunicabilità, aggiungo io. Figuriamoci quelle di sesso opposto, che possono sempre virare nel sentimento confinante, sappiamo bene quale.

 Quindi titolo e copertina in questo senso sono  riduttivi, perché ci si aspetterebbe di trovare la classica storiella sentimentale a lieto fine. Invece Mira dritto al cuore  mira ben oltre il lieto fine.

Ho sempre affermato che la scrittura e le tematiche di Amneris Di Cesare mi riportano a un mito dell’adolescenza: Brunella Gasperini, di cui l’autrice ha ereditato il garbo vellutato e lievemente ironico, mai superficiale, le situazioni che, anche sul punto di sconfinare nel dramma, vengono sempre riequilibrate con un sorriso. Ci sono, a tratti, delle ingenuità stilistiche, mentre i personaggi principali sono ben caratterizzati e a tutto tondo, ad esempio, il complicato e contraddittorio Thomas è descritto con grande finezza psicologica, i personaggi secondari appaiono talvolta un po’ stereotipati, ad esempio, la perfida Marta sembra la classica cattiva uscita pari pari da una soap: capelli neri, un po’ spiritata e cocainomane per giunta. Il riccone Osvaldo è anziano ma curato e dispensa in giro perle di saggezza. Il pilota Andrea è il tipico  aviatore belloccio e romantico dalla divisa blu così come appariva nei romanzi di Wanda Bontà, autrice  rosa degli anni trenta. Amneris Di Cesare,  pur avendo una scrittura movimentata e dai dialoghi freschi e immediati, a volte  si lascia scappare espressioni del tipo: elegante e raffinato (doppia aggettivazione, ahinoi!), attento e curioso, caldo e confortevole ecc. Ma a parte questi particolari, la storia regge, funziona alla grande, ti prende per mano anche senza che tu lo voglia e ti porta dove vuole lei, costringendo il lettore ad accettare il patto narrativo senza nessuna remora. E questo in fondo è ciò che importa.

 

 
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ASSASSINI A PICCOLE DOSI

Post n°79 pubblicato il 30 Aprile 2014 da Tanysha
Foto di Tanysha

   Siamo fatti di carne, anima, sangue, cervello, muscoli, vene e mi fermo con l’elenco. Siamo stati calati in una dimensione temporale, viviamo di tempo, misuriamo tutto con il tempo, quanti anni abbiamo, quanti ne mancano alla maggiore età, o alla pensione, o più positivamente, alle vacanze, o al matrimonio, o alla laurea. Alt.

            Quindi? Quindi siamo fatti essenzialmente di tempo, è il tempo che ci sostanzia e ci definisce, contribuisce a donarci un’identità, una misura e  una forma. Quindi alla fine ognuno mantiene se stesso tutelando il proprio tempo. E’ il tempo che dobbiamo difendere, più dell’onore o della nostra stessa affermazione personale. A cosa servono onori e gloria se ci rubano il tempo? Se il nostro tempo ci viene sottratto più o meno consapevolmente, la nostra vita crolla  come un castello di carte. Quindi, con le unghie e con i denti difendiamo il nostro tempo.

            Per questo mi vengono in mente quegli esseri che, mentre ci troviamo in fila ad aspettare il nostro turno, si intrattengono con il cassiere della banca o del supermercato a parlare di inutilità, o di cose che a loro in quel momento sembrano magari importantissime, a cuor leggero, dimenticando che dietro a loro ci sono tanti esseri fatti esclusivamente di tempo, ai quali viene sottratto come sangue o ossigeno, così come quegli stessi tangheri seduti dentro a una scatola di latta che devono sfruttare al massimo il loro tempo  parlando al telefono, rallentando la fila dietro di loro e facendo sì che il tempo altrui scorra via come una perdita emorragica. Il nostro tempo è importante, difendiamolo da questi assassini a piccole dosi, da gente che non capisce che il loro tempo è importante come il tempo altrui. Non permettiamo agli altri di rubarci l’unica vera ricchezza che possediamo.

 
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TRA MORTE E BELLEZZA

Post n°78 pubblicato il 01 Aprile 2014 da Tanysha
Foto di Tanysha

 

 

     Torno dopo tanto non perché non abbia mai avuto nulla da scrivere, è che nulla mi ha mai toccato i nervi sensibili da poterne scrivere qualcosa. Ora mi viene proprio dal cuore questa considerazione, che riguarda un fatto di cronaca degli ultimi tempi e cioè la vicenda di Lucia Annibali, la sfortunata avvocatessa sfregiata dal suo fidanzato respinto. La recrudescenza dei fatti legati al problema del femminicidio andava stoppata in qualche modo, andava espletata una pena esemplare,  un deterrente tale da scoraggiare qualsiasi possibile emulo dell’aggressore dell’avvocatessa, che, tra l’altro, era stata una bellissima donna. Il suo fidanzato aveva quindi  deciso di colpirla in qualcosa che sapeva esserle molto caro, qualcosa che contribuiva, tra le altre sue qualità, a renderla una donna vincente, e cioè la bellezza. Non poteva toglierle il carisma, l’intelligenza e la bravura, e quindi l’ha colpita nell’unico suo fatto tangibile, l’aspetto fisico.

                Tutto giustissimo, andava messo un fermo a questa lunga serie di accanimenti sulla donna, scambiata per una proprietà privata, a cui togliere la vita o l’avvenenza a proprio piacimento.

                Il pensiero però mi corre spontaneo a tutti quei delitti efferati, a quegli ammazzamenti senza nome (e probabilmente anche senza storia), a tutte quelle persone a cui è stata tolta la vita anche nei modi più atroci per svariati motivi. (Evito di scendere nei particolari, ma magari in questa lista compaiono dei pedofili uccisori di bambini o addirittura di neonati o anche freddi killer di inermi vecchietti). Ebbene,  quanti anni di detenzione hanno dato agli assassini?  Cinque, otto, nove…raramente ho  letto di pene che superino i quindici anni. Allora ne deduco: sì, certo, hanno fatto benissimo a dare una pena esemplare a chi ha comunque distrutto l’esistenza di una giovane donna, oltre alla sua professionalità, per non parlare della femminilità, certo, sono tutte cose gravissime, però in fin dei conti Lucia è ancora viva, con tutte le difficoltà del caso e la strada in salita, certo, però è giovane, ancora tutto sommato sana, può rifarsi una vita.

                Tutti i parenti delle vittime che da un giorno all’altro rivedono gli assassini dei loro cari in libertà, cosa dovrebbero pensare?

                A questo punto, cosa passa di questa decisione dei giudici? Mi viene spontaneo pensare che passa il fatto che è meglio essere morti piuttosto che sfregiati, imbruttiti. E’ più grave essere brutti, affrontare il resto della vita con un aspetto deturpato, piuttosto che morti. Questo mi viene spontaneo pensare. Pur comprendendo pienamente la decisione dei giudici-

 
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USCENDO DAL TUNNEL

Post n°77 pubblicato il 18 Novembre 2013 da Tanysha
Foto di Tanysha

E’ tornata. La Tanysha è tornata. Per sputare ancora veleno su quello che non va, per uccidere metaforicamente le persone noiose, saccenti o al contrario, senza opinioni, o allineate con lo status quo.

Sono appena tornata e cosa trovo? Un mondo sempre più inquinato e avvelenato dalla smania di mettere le mani su qualcosa. Questo, da una parte, mi spingerebbe a trasferirmi su un universo virtuale, ma del resto, più conosco questo mondo e più penso di aver capito male prima, non ora, era prima che non capivo fin dove potesse spingersi  l’umana perversione, che ora mi appare in tutta la sua schietta zozzura.

 Intanto farei tutto un malloppo di  spazzatura con le cose che dico io, tipo il calcio. Ma non si può proprio eliminare dalle conversazioni? Insieme agli argomenti medici o pseudo medici su malanni, indagini approfondite, risonanze, TAC, MOC, Tic o Tec, accidenti vari e cose che-potrebbero-succedere-non-si-sa-mai. E  nel malloppo di spazzatura ci butterei anche tutte le chiacchiere inutili tanto per ammazzare  l’ansia,  le voci concitate ai telefonini sui mezzi pubblici che ti scaricano sul groppone le beghe familiari di cui faresti tanto volentieri a meno. E nel malloppo ci metterei anche la maleducazione, la noncuranza, quando tu cerchi di farti in quattro per non esserlo, ti arrivano le cafonate altrui e allora ti senti impotente, hai faticato invano, hai escogitato strategie di attenzione  quando in giro è tutta una disattenzione generalizzata. E nel malloppo ci metterei anche i discorsi sui soldi,  uno di quei discorsi afferrati al volo per caso in una conversazione per strada: guarda caso l’argomento è sempre il denaro, manco a farlo apposta,  dove due comunicano il dio quattrino impera. E nel malloppo ci infilerei anche qualche anno, ma giusto qualcuno, perché mica mi va poi tanto di tornare  troppo indietro, vorrebbe dire ripercorrere tutte le strade accidentate che preferisco lasciarmi alle spalle, tutte le attese e i momenti forzati di stop che sembra non servano a niente, dico sembra, e invece pare che di questo niente è imbottita la quasi totalità della nostra vita.

                Allora ho fatto il pieno delle cose di cui disfarmi, cerco un cassonetto e, mannaggia! Sono tutti strapieni. Mi sa tanto che dovrò girare ancora con questo maledetto carico.

 
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