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Dialoghi di religione e teologia

 

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Note a margine sul testo ‘apparentemente illusorio’ di Dawkins

Foto di umbertodelgiudice

 

Pubblico un mio breve intervento a conclusione di un'attività seminariale con una classe di studenti che ha letto e commentato L'illusione di Dio di Richard Dawkins. Spero che vi saranno commenti che mi aiutino ad approfondire la questione in prospettiva di una pubblicazione più congrua sul tema. Il testo è stato creato più come una bozza: il lettore mi scurerà per imprecisioni e refusi.

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Ho letto con voi l’intero libro di Richard Dawkins nella sua traduzione italiana[1]. L’illusione di Dio è un libro che segue altri scritti[2] tutti di carattere divulgativo e concernenti alcune delle teorie tra le più diffuse sull’origine della vita (cosmologica ed antropologica) ed il suo ‘progresso’. Il libro che però abbiamo letto aveva una caratteristica diversa rispetto agli altri scritti di Dawkins; The God Delusion offre delle riflessioni che hanno una pretesa in più: quella di asserire la non esistenza (o l’inutilità) di un essere superiore e creatore che potremmo chiamare Dio. Sintetizzo qui alcune riflessioni che voglio condividere alla fine di questo percorso seminariale. Le questioni riguarderanno tre tematiche fondamentali: la forma, il contenuto ed una possibile (prima) critica.

 

La forma

Ø  Titolo: sono da rilevare due differenze tra il titolo in inglese e quello in italiano. L’autore nel titolo in inglese scrive ‘Delusion’ reso in italiano dall’editor con ‘illusione’. La traduzione è lecita, tuttavia non si riesce a comprendere perché non sia stato reso col sostantivo ‘delusione’ anche in italiano. D’altra parte in inglese esiste il sostantivo ‘Illusion’ che rimanda proprio ad una accezione più legata al mondo immaginario che a quello della ‘delusione’; quest’ultimo termine ha un rimando più alla ‘frustrazione di una mancata speranza’. A stimolare la curiosità è il sottotitolo dell’edizione italiana che nell’originale semplicemente manca (Le ragioni per non credere). Sulla traduzione del titolo niente da dire anche se forse l’autore voleva rimarcare una ‘disillusione’ propria dei ‘credenti’ messi davanti alle tesi sostenute nel suo scritto. Rimane curioso però l’aggiunta del sottotitolo che dice quanto il mestiere di editor debba tener conto anche della dimensione accattivante di uno slogan; il titolo, infatti, è seducente, mentre il testo tende a rimanere una sonora illusione dell’autore ed un altrettanta acuta delusione per il lettore avvezzo ad articolazioni riflessive, a paradigmi espositivi e a toni ben diversi. Nei punti seguenti tento di piegare perché.

Ø  La retorica: leggendo il libro per intero (la qual cosa è già una soddisfazione personale e professionale giacché così facendo non si cede all’inutile pedanteria faziosa del testo) ciò che mi ha maggiormente sorpreso è stato lo stile tremendamente divulgativo e orrendamente offensivo. Mi spiego. Circa il carattere divulgativo del testo ho poco da dire se non due punti: a) è lecito a chiunque scrivere delle proprie convinzioni (e ci mancherebbe) b) ma da un divulgatore scientifico (nonché biologo, etnologo e professore di Università) mi sarei atteso più una riflessione in relazione ad un ragionamento interdisciplinare (tra biologia e filosofia/teologia) sul concetto di ‘natura’ piuttosto che un panegirico sul demerito della religione e dei credenti (entrambe queste due ultime realtà, tra l’altro, non tolgono né mettono niente, coi loro vissuti, alla questione fondamentale della teodicea). Dal punto di vista della retorica in senso intensivo non posso non accennare al fatto che l’autore spesso non solo manca di veri argomenti riflessivi ma tesse tutto il ‘dire’ con un atteggiamento, oltre che semplicemente ironico, abbastanza offensivo rispetto ad una realtà (quella della religione e dei credenti) che indubbiamente va aiutata nel ‘depurarsi’ da sovrastrutture inutili ma che (considerando che alcuni miliardi di persone si autodefiniscono ‘credenti’) certamente non va affrontata con faciloneria offensiva. E tutto questo nonostante quell’iniziale paragrafo sul ‘rispetto meritato’ (deserved respect) da attribuire alla dimensione religiosa, che in realtà si definisce e si esaurisce in un non meglio specificato sentimento generalista meravigliato davanti alla (complessità della) Natura. Credo che ciò che rende un libro tale non è tanto la verità che esprime, quanto la capacità che l’autore ha sia di esprimersi in una verità, sia di farlo nei termini più concreti possibili. Ed è concreto colui che non usa la ‘sua’ verità come pretesto per offendere gli altri nonostante la nitidezza e chiarezza delle sue responsabili affermazioni. Tuttavia si comprende il tono non pacato di Dawkins solo in relazione al contesto cui è principalmente destinato il testo: quello del conservatorismo integralista teologico statunitense, da una parte, e del fondamentalismo biblico, dall’altra.

 

Il contenuto

Nelle vostre esposizioni avete ben organizzato la sintesi di alcune idee chiavi del testo (anche se forse maggiore puntualità nel contenuto e nelle definizioni sarebbe stata auspicabile). In fondo però tutto il testo si racchiude dietro due concetti che secondo l’autore sono opposti poiché uno è pro-ateismo e l’altro è pro-teismo (o meglio è quello propinato –secondo Dawkins– dai teisti). Ecco i due concetti:

Ø  Selezione naturale (Natural selection). Uno dei principali argomenti di Dawkins contro la possibile[3] esistenza di Dio è la cosiddetta ‘selezione naturale’. Concetto da voi ben conosciuto e su cui non mi dilungherò riservandomi di riprenderlo nella sezione ‘critica’.

Ø  Complessità irriducibile (Irreducible complexity): è la convinzione che vi sia necessità di un progetto intelligente attuato da un essere superiore; si oppone al concetto di selezione naturale.

 

 

‘Una’ possibile critica

Qui di seguito riporto solo alcuni appunti di alcuni punti critici (senza alcuna pretesa di essere esaustivo):

Ø  Selezione Naturale: diventa la vera ‘pozione magica’ più che una spiegazione della possibile assenza di Dio; è una "formula magica" che è stata resa ridondante e inutile da una conoscenza crescente dei poteri della selezione naturale. Utilizzando la terminologia di D. Dennett, Dawkins sostiene che gli dèi sono come degli skyhooks, ganci appesi al cielo: essi richiedono più spiegazioni di quelle che offrono. «Le gru sono dispositivi esplicativi che effettivamente riescono a spiegare tutto. La selezione naturale è la gru campione di tutti i tempi» (73). Pertanto, sostiene Dawkins, «la risposta del teista è profondamente insoddisfacente, perché lascia l’esistenza di Dio non spiegata» (143). Questa argomentazione può essere valida contro i sostenitori del Disegno Intelligente che guardano alla "complessità irriducibile" nel mondo naturale per argomentare circa un possibile ‘progettista divino’ (un progettista la cui esistenza deve poi, secondo tale logica, richiedere una spiegazione), ma non tiene conto di coloro la cui fede in Dio è informata dalla scienza evolutiva e da altri saperi, la cui comprensione di Dio non è fissa, statica e dipendente da una comprensione letterale della Bibbia, e il cui Dio non è un "Dio tappabuchi" ma un Dio nel e del mondo. Per molti, Dio naturalmente è "spiegazione", ma non ‘uno’ che sta sopra e contro la selezione naturale. Dawkins invece usa la ‘selezione naturale’ come unica possibile soluzione anche dell’inizio della vita: al contrario una seria teoria della ‘selezione naturale’ comprende bene che tale ‘selezione’ non si autogiustifica in quanto al suo ‘principio naturale’. Qualcuno ha anche tentato, a mio parere senza riuscirci molto, una critica antropologica della selezione naturale[4]. Il ragionamento è il seguente: ‘noi possiamo protenderci dal familiare al non familiare, ma siamo noi stessi che ci estendiamo, e non c’è alcuna garanzia che tale nostro allungamento abbia una capacità di estensione infinita. Un uomo può correre un miglio in quattro minuti, per esempio, ma non riuscirà mai a correre un miglio in due minuti’. Un darwiniano, allora, dovrebbe dubitare anche delle sue certezze basati sulla selezione, tra cui gli attributi e i poteri mentali, e cogliere che tali paradigmi scientifici non possano fornire una visione totalmente esaustiva della realtà fisica almeno nel suo ‘incipit’. Le ‘schermate’ su questa questione non sono mancate neanche di recente: in una lettera ad Odifreddi[5], papa Ratzinger, con un po' di malizia, cita le teorie di Dawkins come «un esempio classico di fantascienza» spacciata per scienza. Uno dei padri dell’evoluzionismo, Jacques Monod (1910-1976), nota ancora non senza umorismo Benedetto XVI, nel suo fin troppo famoso “Il caso e la necessità”, «ha scritto delle frasi che egli stesso avrà inserito nella sua opera sicuramente solo come fantascienza». Papa Ratzinger ne cita una: «La comparsa dei Vertebrati tetrapodi... trae proprio origine dal fatto che un pesce primitivo “scelse” di andare ad esplorare la terra, sulla quale era però incapace di spostarsi se non saltellando in modo maldestro e creando così, come conseguenza di una modificazione di comportamento, la pressione selettiva grazie alla quale si sarebbero sviluppati gli arti robusti dei tetrapodi. Tra i discendenti di questo audace esploratore, di questo Magellano dell’evoluzione, alcuni possono correre a una velocità superiore ai 70 chilometri orari...». «Non potendo dimostrare questa storiella, Monod, come tanti evoluzionisti, ha prodotto tecnicamente fantascienza, e neppure della migliore qualità» (Introvigne). Questa ‘battuta’ di Ratzinger non vuole essere esaustiva ma richiama un problema che va risolto in sede scientifica ed ermeneutica. In altre parole, la stessa teoria della selezione naturale è un buon paradigma scientifico ma non risolve tutti i problemi che la realtà che oggi vediamo ci pone circa la sua ‘essenza’ e la sua ‘natura’. Risolvere tutto ed in modo categorico –come fa Dawkins– con la ‘selezione naturale’ è più fideistico di un atto di fede. Questo non significa che non vi sia stata ‘una’ selezione naturale ma vuol dire però che da solo questo paradigma scientifico non risolve i problemi intrinsechi alla ‘forza della natura’ ed alla sua ‘propria energia’ ed al suo ‘inizio’. Fare della selezione naturale un assoluto, come fa Dawkins, è un altrettanto salto nel buio come lo è quello della fede senza alcun fondamento storico. Le sole tesi evoluzionistiche che si estendono non solo al progresso naturale ma anche all’inizio della vita portano in fondo a ‘credere’ nella pura e semplice selezione naturale facendo un salto ‘logico’ abbastanza ingenuo; al contrario finora la scienza ancora non ha una conoscenza approfondita di questioni circa le origini dell’evoluzione cosmica (ad es. come hanno fatto le particelle fondamentali, gli elementi costitutivi della materia, ad arrivare casualmente a tanto?[6]) o le radici della vita (come hanno fatto tutti gli elementi necessari per le attività della vita ad unirsi?). In altre parole, ancora non abbiamo alcuna prova scientifica solida per accantonare la cosiddetta creazione ex nihilo, che rimane una questione scientifica ma anche filosofica e teologica. D'altra parte, i processi in corso di evoluzione dell’Universo e della vita sono ormai fatti scientifici ben definiti che servono come elementi essenziali di quella che possiamo chiamare ‘creazione permanente’. Altro è credere, come fanno i fondamentalisti, al mito adamitico senza una comprensione ed una critica storico-letterale del testo. Dio non ha mai creato il mondo in sei giorni: ma questo ormai è chiaro! Dawkins sembra però non ricordarlo minimamente.

Ø  Le immagini demoniache di Dio: qualche tempo fa uno psichiatra tedesco ha delineato quelle immagini ‘demoniache’ che ci portiamo dentro di quello che poi chiamiamo ‘Dio’[7]. La ricerca –oltre a mettere in evidenza i limiti di una religiosità distorta anche in campo cattolico– evidenziava come siamo propensi a trasferire i nostri vissuti su quello che poi chiamiamo ‘Dio’ declinandolo così:

•             Il Dio che giudica e punisce: è il “super-Dio”, giudice minaccioso che fa esclamare al singolo: «mi hai defraudato della possibilità di sentirmi qualche volta in regola, riappacificato con me stesso, del tutto a mio agio…», simile al Dio carnefice. Vi si collega il carattere punitivo che emerge dall’associazione tra peccati e malattie inerenti alcune parti del corpo.

•             Il Dio della morte: formata spesso fin dalla fase prenatale, questa immagine è determinata molto dall’atteggiamento dei genitori nei confronti del nascituro o del neonato. Il messaggio subdolo sta nel non sentire la propria vita accettata dagli altri e quindi neanche da Dio.

•             Il Dio contabile e legalista: è un demone privo di sentimenti e senza cuore come un giudice inesorabile (assimilabile alla mamma che fa la spia e al papà che punisce!). La norma è percepita come controllo e non come guida e aiuto divenendo assillo per il malcapitato che così “combatte il peccato” fino ed oltre lo scrupolo poiché «anche se nessuno conosce i tuoi peccati Dio li vede e ti punirà».

•             Il Dio dell’efficienza che esige efficienza: è un Dio apparentemente buono poiché chiedendo l’annichilimento totale del soggetto attraverso l’efficienza, mezzo per l’acquisto della stima da parte di Dio, questo demone ottiene l’autodistruzione del soggetto stesso spingendo al «bene senza misura».

Vi ho riportato queste immagini poiché sono proprio quelle contro cui Dawkins sembra combattere: purtroppo lo fa rivelando ancora una notevole ignoranza circa i testi biblici, la loro Formgeschichte, la loro Redaktionsgeschichte e la loro Tradiktionsgeschichte. Questo lo si deduce soprattutto dalle sue narrazioni circa alcuni miti biblici: cita il mito adamitico, il (mancato) sacrificio di Isacco. La sua scarsa attitudine ad una interpretazione ermeneutica (che potremmo chiamare anche come ingenua presunzione) si ‘allunga’ fino ai testi dei primi cristiani: cerca di trattare il peccato originale secondo Agostino con scarso risultato (dimenticando di citare la questione pelagiana contro cui Agostino argomentando sul cosiddetto peccato originale afferma la gratuità della grazia non la necessità del peccato). Insomma Dawkins fa teologia quando non è capace di farla non perché non ha i titoli ma perché manca di strumenti filologici, storici, analitici per comprendere sia la Bibbia sia gli errori degli stessi cristiani (e credenti in genere) fondamentalisti.

Ø  Il fondamentalismo. È il vero ‘peccato capitale’ tanto dei teisti quanto degli atei. Il fanatismo non comprende la totalità dei fenomeni; ora questo limite chiude alla realtà qualsiasi essa sia: gli scienziati fanatici si chiudono alla complessità del fenomeno della vita e del fenomeno religioso; i credenti fanatici si arricciano in un improponibile dogmatismo contro le evidenze scientifiche. Entrambi i gruppi di ‘fanatici’ precludono a loro stessi la possibilità di vedere ‘altro’.

Ø  La questione circa la verità: la verità circa l’esistenza di Dio non potrà mai essere né dimostrata né smentita dal punto di vista scientifico; questo per un duplice motivo. a) Sia il microcosmo che il macrocosmo potranno sempre essere ulteriormente investigati (osservato il primo sezionato il secondo); b) la ricerca scientifica coglie una parte della realtà: quella che vuole vedere. La scienza, infatti, coglie la natura in un campo semantico che è quello empirico: la natura è quella che vedo. Ma tradizionalmente facciamo sempre riferimento ad un’altra accezione di ‘natura’: non tanto quello che appare, ma che quello che è ed il fine naturale di questo o quello ‘ente’ naturale. In altre parole il concetto di natura è profondamento diverso se accostato dalla scienza, dal diritto, dalla psicologia, dalla filosofia o dalla teologia. In questo senso la verità della natura non è posseduta da nessuna di queste discipline ma tutte vanno integrate in un discorso interdisciplinare che oggi è appena agli inizi.

Conclusione

Mi aspetterei da Dawkins –e da altri studiosi come lui– una riflessione su ciò che la biologia intende per ‘natura’ tentando così di delineare un ‘dialogo’ anche riformatore rispetto alla visione credente senza per questo offenderla del tutto. A chi poi dice che l’esperienza religiosa è solo una questione ‘mentale’ ricordo che la scienza studia i fenomeni e nessuno si sognerebbe di dire che la religiosità non è un fenomeno umano e sociologico comune. Per quanto poi riguarda la possibile esistenza di Dio ricordo che essa è una ‘verità’ non oggettivabile poiché se lo fosse ciò che sarebbe ‘oggetto della nostra conoscenza’ non sarebbe più Dio. D’altra parte però bisogna ricordare che di Dio si può fare esperienza e nell’esperienza diventa ragionevole coglierne l’esistenza. Che tipo di esperienza serva è tutt’altra questione che va approfondita ulteriormente. Mi basta però concludere con alcune idee chiavi, le mie:

Ø  L’evoluzionismo non è il contro creazionismo e viceversa (tra l’altro è giusto sapere che questa è una affermazione anche del Magistero ufficiale della Chiesa cattolica, contrariamente a quanto affermato).

Ø  Non va confuso lo studio dei fenomeni con la riflessione sul fondamento: i fenomeni (la vita umana, il cosmo…) non riescono da soli a dire tutto della vita che semplicemente ‘è’.

Ø  Il concetto di natura è (almeno) triplice: è fenomeno per la scienza; è questione per la filosofia; è grazia per la teologia. Questo non toglie che è probabilmente il vero oggetto di studio che può unire in una ricerca interdisciplinare queste varie discipline.

Ø  Il fenomeno religioso in generale da solo non dice nulla sulla possibile esistenza di Dio ma va studiato per ciò che è: un fenomeno umano e sociale.

Ø  La verità non si esaurisce ma si esperisce: il solo studio del fenomeno non rende capaci di accedere alla ‘verità’ che è sempre frutto di una ‘relazione’ tra chi guarda e colui (o la cosa) che è guardata.

Ø  La sola forza della vita (alias selezione naturale) può essere ‘studiata’ ma se ‘isolata’ non ha senso.

 

Partendo da questi presupposti comuni si sta iniziando una ricerca proficua. Ma alcuni se lo sono dimenticati (come Dawkins e Odifreddi…).

I principi che sopra ho esposti meriterebbero da voi un maggiore approfondimento.

 

 

© 2014 Umberto Rosario Del Giudice



[1] R. Dawkins, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Milano 2007 [tit. or. Id., The God Delusion, London 2006].

[2] The Selfish Gene (1976-1989); The Extended Phenotype (1982); The Blind Watchmaker (1986); River Out of Eden (1995); Climbing Mount Improbable (1996); Unweaving the Rainbow (1998); A Devil's Chaplain (2003); The Ancestor's Tale: A Pilgrimage to the Dawn of Evolution, (2004).

[3] Lascio da parte la distinzione che l’autore fa tra le varie forme di ‘possibilismo’ o ‘agnosticismo’ (da voi tra l’altro ben spiegato) poiché di fatti in tutto il testo l’autore usa una retorica che rimanda a categorie non possibiliste. Qui semplicemente mi adeguo.

[4] Cfr. M. Ruse, Can a Darwinian Be a Christian? The Relationship Between Science and Religion, New York-Cambridge 2000, 141.

[5] Piergiorgio Odifreddi, la versione italiana di Dawkins e suo amico, dopo avere pubblicato un libro intitolato «Caro Papa ti scrivo», si è visto arrivare un’inaspettata risposta dal Papa Emerito.

[6] Da notare che Dawkins scambia il concetto di ‘caso’ con quello di ‘selezione naturale’: è proprio così scontato?

[7] Cfr. K. Frielingsdorf, …Ma Dio non è così. Ricerca di psicoterapia demoniache di Dio, Cinisello Balsamo 1995.

 
 
 

Pastori 'resi' buoni

Post n°15 pubblicato il 13 Maggio 2014 da umbertodelgiudice
 
Foto di umbertodelgiudice

Spesso nei Vangeli troviamo lezioni di semplice e pura umanità. Certamente si potrebbe dire, tra l’altro, che Gesù è l’uomo più attento alle dinamiche relazionali che sia mai esistito (egli stesso tra l’altro si chiamava Figlio dell’uomo e questo non solo in riferimento al significato biblico del termine ma anche a quello più ovvio: ‘il vero figlio dell’uomo’ oppure ‘il vero uomo’). Un ‘typos’, ovvero un modello, cui riferirsi per capirsi e per capire.

Questa ‘regoletta generale’ non inganna né delude neanche quando Gesù spiega la similitudine della ‘porta’: lui, dice, è la ‘porta’! Ma dice anche di essere ‘colui che entra dalla porta’ differentemente da quello che fa un brigante o un estraneo la cui voce non è conosciuta dalle pecore (cfr. Gv 10, 1-10).

E questa una verità che possiamo verificare in ogni istante. Noi stessi siamo propensi ad andare dietro a coloro che ci ispirano fiducia. È un fatto ovvio. Spesso ascoltiamo ben volentieri persone con le quali ci troviamo anche in disaccordo circa alcuni aspetti; ma rimaniamo loro fedeli solo e proprio perché ci ‘ispirano fiducia’, o meglio, ci aiutano, con i loro modi di fare, a percepire i loro buoni sentimenti verso di noi.

Ma tutto questo come si comprende poi dal punto di vista teologico?

Come nella vita così nella fede. Se nella vita di ogni giorno siamo propensi a lasciarci convincere o a seguire i discorsi, a volte contorti, di coloro che ci amano o che amiamo, così nella fede seguiamo istintivamente Colui che ci ispira fiducia solo, però, se siamo predisposti alla bontà, alla fedeltà, all’amore.

Di questo dovremmo preoccuparci per essere ‘pastori’ buoni ovunque: creare i presupposti affinché la gente sia incline alla bontà dei modi, alla sincerità delle parole, all’intensità dell’amore, alla tenerezza ed alla premura.

La prima ‘voce’ che l’uomo emette sembra essere il ‘grido’: un bambino appena nato, infatti, grida, piange; e continuerà a gridare nella notte per essere sicuro che qualcuno lo ascolti, lo coccoli, corra lì per lui. Questa ‘ricerca di qualcuno’ ce l’abbiamo nel DNA! Ma a volte si spegne perché nella vita abbiamo incontrato qualcuno che si è comportato da ‘estraneo’ e non da ‘prossimo’, da ‘lontano’ e non da persona ‘coinvolta’ nella nostra vita.

Siamo tutti allora chiamati ad essere ‘pastori buoni’, ovvero ‘gente coinvolta’, ‘prossimi di tenerezza’, ‘maestri di gentilezza e bontà’… nella certezza che possiamo sempre provare ad esserlo anche quando ci siamo comportati con qualcuno da ‘perfetti estranei’… Questa è la sua giustizia: accollarsi gli errori degli altri per renderli migliori (cfr. 1Pt 2, 20-25).

 

 

© 2014 Umberto R. Del Giudice

 
 
 

“Mi sia lecito dirvi francamente”

Post n°14 pubblicato il 03 Maggio 2014 da umbertodelgiudice
 
Foto di umbertodelgiudice

 

La resurrezione è il vero ed unico elemento storico che differenzia il cristianesimo dalle altre fedi religiose o da quelle religiosità che pure hanno popolato e popolano le credenze umane.

Di tutto l’evento pasquale (il quale, lo ricordiamo, è un tutt’uno formato da tre momenti: la cena pasquale, la morte e la resurrezione) la fede nel Risorto è la vera eccedenza che, in qualche modo, conferma storicamente il senso degli altri due momenti, quello agapico della cena e quello cruento della crocifissione.

Possiamo in qualche modo sintetizzare nel numero di quattro la quantità di teorie che si possono formulare dal punto di vista storico intorno all’evento della resurrezione.

Prima però di enumerarle sarà necessario ricordare che in realtà nessuno si è mai presentato come testimone della risurrezione ma molti si sono detti testimoni del Risorto. La relazione tra l’evento della resurrezione e i testimoni di essa si potrebbe così presentare: i testimoni del Risorto stanno alla Resurrezione come noi oggi, che vediamo il creato, stiamo all’atto della creazione. In poche parole sebbene nessuno è mai stato testimone diretto del primo atto della creazione così nessuno è mai stato direttamente testimone della resurrezione in atto (e solo questo dovrebbe far riflettere… e forse su questo punto ci ritornerò…-).

Si diceva che le teorie intorno al fatto storico della resurrezione possono essere così sintetizzate:

-          la teoria della frode

-          quella delle allucinazioni collettive

-          quella della mitologizzazione

-          e poi c’è la quarta… che enunzierò appresso.

La teoria della frode –antica almeno quanto sono antichi i vangeli– sostiene che alcuni discepoli di Gesù di Nazareth avrebbero trafugato il corpo per poi annunciare che quel Gesù sarebbe risorto. A questa teoria si può obiettare che il corpo fu custodito da almeno un folto plotone di guardie (quelle del Tempio) messe di sentinelle al sepolcro onde evitare che il corpo di Gesù di Nazareth era stato trafugato e poi ne fosse annunciata la resurrezione.

La teoria delle allucinazioni a tentato di spiegare così le apparizioni: è possibile –secondo questa teoria– che un gruppo di persone, fortemente provate nella psiche e in un momento di esaltazione rituale vedano in gruppo fenomeni paranormali. Se pure tutto ciò è possibile come concordare questa teoria col fatto che le testimonianze circa le apparizioni del Risorto avvertono che quelle stesse apparizioni sono avvenute in luoghi, tempi e persone/gruppi diversi? Anche questa teoria fa un po’ acqua…

La teoria del mito ricapitola tutto a partire dalla grande fede che i discepoli avevano non tanto in Gesù ma nel suo atto di autodonazione salvifica, ovvero nella sua crocifissione per amore. Poiché –sostiene Bultmann tra gli altri– i discepoli avevano troppa fede nel momento soteriologico (ovvero salvifico) della crocifissione allora miticizzarono il Gesù storico e lo fecero diventare il Cristo della fede… A parte che i discepoli dimostrarono di non comprendere la crocifissione come si può di fatto comprendere alla luce della cena pasquale e soprattutto della resurrezione, ma basta una convinzione personale per creare un mito di gruppo?

La quarta teoria è questa: poiché coloro che hanno detto di aver visto Gesù vivo dopo la morte non hanno mai ritrattato anche di fronte alla minaccia della galera, delle torture e della morte allora tutto ciò che hanno detto sul Risorto è semplicemente vero. In questa prospettiva anche le successive scritture neotestamentarie (ovvero i Vangeli canonici) possono essere interpretate e considerate fondamentalmente documenti storici. La morte dei testimoni è la più grande ‘macchina della verità’!

Davanti a questa ‘evidenza storica’ tuttavia molti dubbi ancora pervade chi tenta di affacciarsi ‘razionalmente’ sul ‘mistero della fede’…

Perché? Il Vangelo di Luca ce lo spiega raccontando di quei discepoli che si recavano ad Emmaus.

Non si può accogliere intensamente il mistero del Risorto senza una propria esperienza religiosa del Risorto e questa è possibile nell’azione rituale e, in special modo, nella celebrazione eucaristia.

L’esperienza rituale offre un orizzonte ermeneutico ed “oggettivo” che nessuna ‘evidenza storica’ (sebbene in un certo senso anch’essa oggettiva) può dare. L’oggettività (se così si può chiamare) della fede è un insieme sia di ragioni storiche fondate sia di esperienza religiosa fondante.

Gesù che cammina con… Gesù che spiega a… Gesù che spezza il pane per…

Solo dopo aver camminano con… di aver sentito le spiegazioni di… e di aver spezzato il pane per… potremmo vedere quel Cristo che la storia ci consegna come l’unico che è veramente Risorto.

Buona III Domenica di Pasqua.

 

 

© 2014 Umberto Rosario Del Giudice

 
 
 

Papa equilibrista o cattolici non equilibrati?

Post n°13 pubblicato il 01 Maggio 2014 da umbertodelgiudice
 

Da qualche mese si alzano voci dissonanti rispetto al gradimento della figura dell’attuale Pontefice.

 

A me sembra che, su questa questione, si sia ormai attestata la presenza di almeno tre correnti: una tradizionalista, una fedelista ed una normalista.

La prima corrente, quella dei tradizionalisti, è ulteriormente divisa almeno in due espressioni, ovvero quella dei tradizionalisti estremi e quella dei tradizionalisti giudiziosi. La prima è perfettamente espressa dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da monsignor Lefebvre la quale se da una parte non risparmiava critiche al precedente Pontefice, più razionale ed egregio sistematico, dall’altra ne apprezzava almeno ‘gli sforzi’ di recupero della tradizione. In realtà a mio avviso, Benedetto XVI non ha cercato di recuperare una (certa) tradizione per compiacere qualcuno o per semplice nostalgia: la sua opera, spesso a mio avviso non bene intrepretata, era quella di rivalutare la legittima molteplicità di spiritualità anche all’interno della medesima tradizione. Tentativo male interpretato, dunque, ma anche mal gestito: lo testimonia l’articolata quanto a volte incomprensibile giustificazione giuridica necessaria circa il ritorno al rituale eucaristico dell’Ordo del 1614 di Pio V. In quel caso sarebbe stato meglio, se proprio si doveva e si voleva, ‘semplicemente’ stabilire un recupero motu proprio del rituale precedente (da far convivere con quello attuale e legittimo) senza scomodare ragioni di diritto liturgico e/o canonico introducendo non poche perplessità dal punto di vista giuridico e liturgico stesso. Ma la questione è un’altra: Papa Benedetto XVI voleva, e di fatto ha voluto, recuperare la legittimità non del rito ma della (legittima) differenziazione di spiritualità all’interno della grande tradizione cattolica, tentando così al tempo stesso di ‘recuperare’ anche il dialogo con quei tradizionalisti guidati da monsignor Lefebvre ai quali lui stesso, ai tempi di Giovanni Paolo II, dovette recapitare una lettera per tentare una ricomposizione pacifica. A questi tradizionalisti estremi un papa come Francesco non può piacere poiché, in questo caso, lontano dalla sensibilità ‘diplomatica’ nei confronti di chi vuole non solo il recupero di una certa ‘tradizione’ ma anche la più completa regressione ad essa! E mentre Benedetto XVI tentava legittimare alcune aspirazione di quei tradizionalisti, Papa Francesco sembra tendere più ad un dialogo franco senza recuperi nostalgici: due misure apparentemente contrapposte ma equamente sagge.

I tradizionalisti giudiziosi li chiamo così perché sembrano avere più “giudizio” di tutti quanti gli altri anche più del sensus fidei populi Christianorum… Ai tradizionalisti giudiziosi Papa Francesco lo stesso non piace: addirittura tra questi sembra che vi sia chi fatica ad attribuirgli il titolo di “santo Padre”… Proprio non se la sentono di chiamarlo così pur rimanendo cattolici e pienamente convinti di ogni ‘loro posizione cattolica’. Accusano il Pontefice regnante di relativismo etico e religioso, di pressapochismo, di contraffazione evangelica, di protagonismo e di analfabetismo dommatico… La prima domanda nasce spontanea: è il Papa a cedere a questi estremismi o chi lo critica pur dichiarandosi cattolico? Non è certo ora il momento di inoltrarsi in queste questioni ma a me sembra che sia più probabile la seconda possibilità (su questo mi riservo di spiegarmi altrove). La questione che qui interessa è un’altra: siamo proprio sicuri che il santo Padre sia pronto a buttare tutto il cattolicesimo dalla finestra del relativismo senza ricordare che la “Chiesa” non è sua? A me sembra il contrario: Papa Francesco, infatti, è stato protagonista di dure critiche verso la Curia e di notevoli aperture verso “i più lontani” fino ad arrivare ad affermare circa la questione della omosessualità una realtà che ha sconvolto alcuni: «Chi sono io per giudicare?». Ed è proprio così! Il Pontefice sa che evangelicamente non si può né si deve “giudicare” nel senso che non si può né si deve “condannare”! Un Papa che non emettesse ‘giudizi’ sereni sulle proprie azioni e su quelle degli altri non sarebbe un Papa; ma allo stesso tempo un Papa che pretendesse di ‘condannare definitivamente’ le persone (e non le loro azioni –sia ben chiaro–) avocherebbe a sé e reclamerebbe un’autorità mai avuta. A questi tradizionalisti giudiziosi bisognerebbe ricordare quella ‘prudentia’ tomista: per raggiungere un fine c’è bisogno di un mezzo adatto; Papa Francesco forse non sarà diplomatico in modo ratzingeriano ma sicuramente è prudente in modo tomista. E sembra dire ai tradizionalisti giudiziosi: «Carissimi, mettete giudizio!». Ma qui sembra anche sentire la controreplica: «Ma caro Papa lei sembra dire alla gente ciò che la gente si vuole sentire dire: tuttavia è inconcludente e anima speranze false!...». Mi fermo in questo ipotetico dialogo immaginando Papa Francesco che, senza ribattere, nel raggiungere il palco durante l’udienza generale del mercoledì, fa salire un bambino sulla bianca jeep decappottata per benedirlo e si allontana poi con un sorriso… Il Papa non vuole incoraggiare le vanità ma vuole semplicemente dare fiducia a chi è stufo di sentirsi dire cosa deve e non deve fare senza che nessuno lo prenda per mano. In questo senso la ‘prudentia’ di Papa Francesco raggiunge i cuori, i giudizi ed i giudiziosi no. Non è vero forse che la Chiesa ha bisogno anche di questo oggi visto che ci sono troppi battezzati ma pochi iniziati alla novità dell’amore evangelico? Il Papa non sta forse ritornando ad una ‘pastorale di base’ per poi entrare sempre più nello specifico? La testimonianza di ciò è proprio la capacità che Papa Francesco ha di affermare che lo IOR bisogna sopprimerlo salvo poi confermarne l’istituto e l’istituzionalizzazione pochi mesi dopo. Non è contraddizione è confermare che niente è dimenticato ma tutto ‘rivalutato’, lo IOR come le persone! Papa Francesco non ha bisogno di sopprimere né lo IOR né l’uomo, ma ha bisogno di confermare il primo e di affermare il primato del secondo con tutti i suoi bisogni e le sue aspettative: fedeltà a Dio e fedeltà all’uomo. Cero però che se Papa Francesco vuole essere ancor più prudente dovrebbe calibrare alcune sue affermazioni ricordando che “tutto ciò che dirà potrà essere usato contro di lui” da coloro che ne vogliono dolosamente travisare e/o dirottare le sue vere intenzioni.

 

I fidelisti (di cui non faccio assolutamente parte) sono coloro che non criticheranno mai il Papa e gli saranno sempre fedeli qualsiasi cosa faccia e dica; di più, su questi non dico: tanto sono alquanto inconcludenti.

 

Ultima categoria sono i normalisti: anche su questi c’è da dir poco. La tesi fondamentale è che tutto sia normale: critiche e apprezzamenti contrastanti e contrari sui papi ci sono sempre stati. A questi va però ricordato che le critiche, questa volta, sono spesso vere preoccupazioni. Prima i ‘preoccupati’ erano solo quelli che gironzolavano intorno alla Chiesa e perché estremamente tradizionalisti e perché indifferenti ad essa: questa volta i preoccupati sembrano essere ‘quelli di dentro’ che si preoccupano più della introspezione in seno alla Chiesa che della contemplazione alla quale la Chiesa pur deve attrarre…

E se il problema fosse un altro? E se la vera questione circa il gradimento o meno di Papa Francesco fosse un altro? Se tutto questo suonasse l’allarme di una campana diversa dalla solo figura del pontefice?

Innanzitutto una Chiesa troppo preoccupata dei modi di fare del Pontefice e poco matura.

Della Dottrina. Certo che deve preoccuparsi della dottrina, ma non ho dubbi nel credere che Papa Francesco avrà problemi a “confermarci nella fede” e nella dottrina. Finora non c’è stata una sola parola del Papa che abbia definito qualcosa oltre e contro la tradizione della Chiesa. Datemi una sola “enuntiatio” definitiva!

Della Comunicazione. La comunicabilità di Papa Francesco non può certamente essere messa in discussione.

Della Fedeltà. Fedele a Dio e fedele all’uomo, a modo suo ma mai contrario coi dettami della morale cattolica, anzi.

Dell’Atteggiamento. Questa è la vera questione: la gente non ha bisogno di chi non vuole prendere posizione ed il Papa lo sa e non si è mai sottratto alle prese di posizioni anche contra la Curia stessa. Il popolo ha bisogno di un nuovo atteggiamento non di una nuova dottrina: questa rimarrà sempre la stessa ma i gesti, le carezze, la vicinanza, l’umiltà o trovano azioni in cui si è vicini, affettuosi, caritatevoli, misericordiosi, umili o tutti i belli attributi dei cattolici rimarranno parole vuole, cembali che tintinnano… Papa Francesco si è dimostrato vicino a tutti e vero in ogni occasione. È fedele e da fiducia. Molti al contrario sono fedeli senza più ‘dare fiducia’.

Delle Dichiarazioni. Altra vera quæstio! Sono coloro che vogliono stravolgere il cammino della Chiesa ad usare le parole e gli atteggiamenti del Pontefice a loro ‘immagine e somiglianza’! Pericolo che però non si tradurrà in un tranello per la Chiesa ma in coloro che vogliono vederla stravolta… Chi semina vento raccoglie tempesta.

Insomma: il Vescovo di Roma non finirà di confermare nella fede e nella carità la Chiesa di Dio…

 

Ma i cattolici raggiungeranno una pur minima maturità e/o equilibrio interiore? Mysterium fidei!

 

© 2014 Umberto Rosario Del Giudice

 
 
 

I "voti" del Papa

Post n°12 pubblicato il 12 Febbraio 2013 da umbertodelgiudice
 
Foto di umbertodelgiudice

Eminentissimi Cardinali,

molte voci si stanno avvicendando in queste ore.

Le loro beatitudini permetteranno che alle altre si unisca anche la mia.

Scrivo a voi, ma scrivo a tutti e soprattutto... rifletto da solo, offrendo questi pensieri a chi avrà la bontà di leggere quanto segue.

Credo che in questo periodo, ed a più riprese ce lo ha ricordato il portavoce della Sala Stampa Vaticana, non bisogna dimenticare che sua Santità Benedetto XVI e tuttora il nostro Papa.

Pertanto mi sembra scontato, da buon cattolico, cercare di capire non quale sarà il vostro "voto", ma quale sono i "suoi voti", ovvero le sue "desiderata".

Nella mia fantasia credente suppongo che il Papa, seppure non dirà mai niente né niente farà trapelare dei suoi pensieri - anche se ha fatto ben intendere che i suoi pensieri ormai sono quelli di sottrarsi anche emotivamente e spiritualmente alla scelta del prossimo pontefice - abbia dei "desideri" sulla personalità del prossimo pontefice.

A dire il vero, sono sicuro che anche Voi, dall'alto del Vostro supremo ed universale compito, starete chiedendo a Dio luce per le prossime elezioni.

Eppure ho la sensazione che - mai forse come questa volta - dovreste rivolgere il vostro sguardo non tanto verso le stanze vaticane per comprendere quale dovrà essere lo stile pastorale del prossimo papa, quanto dovrete affacciarvi alla finestra. Meglio ancora se da quella finestra scendete e andate tra la gente che ha voglia di essere guidata e protetta ma anche e soprattutto ha urgente bisogno - e cosa più drammatica forse senza neanche saperlo - di essere "Chiesa".

La Chiesa è il popolo di Dio; il problema ora è: "Quale pastore sarà pronto a non dettare direttive pastorali ma a far cresce con la sua guida il senso di Chiesa che è e deve essere nutrito e sviluppato nel cuore di ogni credente?".

Guardateci dal balcone delle sante Stanze... Rimanete pure lì: è il Vostro pensate compito. Ma, per favore, fate in modo che chiunque di Voi salirà su quel soglio pontificio sappia risveglaire in noi la natura ecclesiale: ci ricordi che "noi siamo Chiesa", guidata, sostenuta, anche controllata... ma che "noi siamo Chiesa" sarà il compito impellente del nuovo Papa perchè di questo ha bisogno il mondo di oggi.

Forse l'aveva già detto il Concilio Vaticano II?

Scusate l'ardire, Eminenze,

 

Un battezzato di nome Umberto

 

 
 
 
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