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vetriolo

Post n°675 pubblicato il 26 Novembre 2008 da tonny88

Veronika si trovava nello studio del dottor Igor, sdraiata su un lettino candido, con le lenzuola pulite. Lui le auscultava il cuore. Lei finse di dormire, ma qualcosa dentro il suo petto doveva essere cambiato, perché il medico parlò con la certezza di essere udito. "Stai tranquilla," disse. "Con la salute che ti ritrovi, puoi vivere cent'anni." Veronika aprì gli occhi. Qualcuno le aveva cambiato gli abiti. Era forse stato il dottor Igor? L'aveva vista nuda? La testa non le funzionava molto bene. "Che cos'ha detto?" "Ti ho detto di stare tranquilla." "No, lei ha detto che potrei vivere cent'anni." Il medico si avvicinò alla scrivania. "Lei ha detto che potrei vivere cent'anni," ripeté Veronika. "In medicina, niente è definitivo," dichiarò il dottor Igor. "Tutto è possibile." "Come sta il mio cuore?" "Come prima." Allora non c'era bisogno d'altro. Davanti a un caso grave, i medici dicono sempre: "Vivrai cent'anni", oppure: "Non è nulla di serio", o: "Hai il cuore di un bambino", o ancora: "Dobbiamo rifare gli esami." Sembra che abbiano timore che il paziente possa distruggergli lo studio. Veronika tentò di alzarsi, ma non ci riuscì: la stanza aveva cominciato a girare. "Resta lì ancora un po', finché non ti senti meglio. Non mi dai nessun disturbo."  "Perfetto," pensò Veronika. "Ma se invece lo stessi disturbando?" Da medico esperto, il dottor Igor rimase in silenzio per qualche momento, fingendo di occuparsi di alcune carte che ingombravano la sua scrivania. Quando ci si trova di fronte a una persona, e questa non dice niente, la situazione diviene irritante, tesa, insopportabile. Il dottor Igor sperava che la giovane cominciasse a parlare, dimodoché potesse raccogliere ulteriori dati per la sua tesi sulla follia, oltre che sul metodo di cura che stava elaborando. Ma Veronika non disse una parola. "Forse ha già raggiunto un grado di avvelenamento da Vetriolo molto elevato," pensò il dottor Igor, mentre decideva di rompere quel silenzio, che stava divenendo irritante, teso, insopportabile. "A quanto pare, ti piace suonare il pianoforte," disse il medico, cercando di mostrarsi il più indifferente possibile. "E ai pazienti piace sentirlo. Ieri, ascoltando, uno di loro ne è rimasto affascinato." "Eduard. Ha detto a qualcuno che gli è piaciuto moltissimo. Chissà che non riprenda ad alimentarsi come una persona normale." "Uno schizofrenico a cui piace la musica? E che ne parla con altri?" "Sì. E scommetto che tu non hai la minima idea di che cos'è la schizofrenia." Quel medico - che sembrava piuttosto un paziente, con i capelli tinti di nero - aveva ragione. Veronika aveva sentito spesso quella parola, ma non sapeva cosa significasse. "C'è qualche cura?" domandò. Voleva ottenere altre informazioni sugli schizofrenici. "Si può tenere sotto controllo. Ancora non si sa bene che cosa accade nel mondo della follia: tutto è nuovo, e i protocolli di cura cambiano ogni decennio. Uno schizofrenico è una persona che tende già per natura ad assentarsi dal mondo, finché un evento - che può essere grave o irrilevante, a seconda dei casi - lo porta a crearsi una realtà individuale. Il caso può evolvere fino all'assenza completa, a uno stato che noi chiamiamo "catatonia", oppure può palesare dei miglioramenti, consentendo al paziente di lavorare, di condurre una vita praticamente normale. Dipende da una sola cosa: dall'ambiente."  "Crearsi una realtà individuale," ripeté Veronika. "Che cos'è la realtà?" "Ciò che la maggioranza ha ritenuto che dovrebbe essere. Non necessariamente la situazione migliore, né la più logica, ma quella che si è adattata al desiderio collettivo. Vedi che cos'ho intorno al collo?" "Una cravatta." "Giusto. La tua risposta è logica, coerente per una persona assolutamente normale: una cravatta! Un matto, però, direbbe che porto intorno al collo un pezzo di stoffa colorata, ridicolo, inutile, annodato in maniera complicata, che rende difficili i movimenti della testa e richiede uno sforzo maggiore per far entrare l'aria nei polmoni. Se dovessi distrarmi mentre mi trovo vicino a un ventilatore, potrei morire strangolato da questo pezzo di stoffa. "Se un matto mi domandasse a che cosa serve una cravatta, dovrei rispondere: "Assolutamente a niente." Non può dirsi utile neanche per abbellirsi, perché oggigiorno è divenuta addirittura il simbolo della schiavitù, del potere, del distacco. La sua unica utilità si manifesta al ritorno a casa, quando una persona può togliersela, provando la sensazione di essersi liberata da qualcosa che non sa neanche che cosa sia. "Ma quella sensazione di sollievo giustifica l'esistenza della cravatta? No. Eppure, se domandassi a un matto e a una persona normale che cos'è il nastro che porto intorno al collo, sarebbe considerato sano colui che mi rispondesse: "Una cravatta." Non importa chi è nel giusto: importa chi ha ragione."  "Per cui lei trae la conclusione che io non sono matta, poiché ho indicato col nome giusto quel pezzo di stoffa colorata."  "No, tu non sei matta," pensò il dottor Igor, un'autorità nel campo della follia, con svariati diplomi appesi alle pareti dello studio. Attentare alla propria vita è connaturato all'essere umano: lui conosceva molta gente che lo aveva fatto e che comunque era ancora in circolazione - ostentando innocenza e normalità - solo perché non aveva scelto un metodo teatrale come il suicidio. Gente che si ammazzava a poco a poco, avvelenandosi con quello che il dottor Igor chiamava "Vetriolo". Il Vetriolo era un prodotto tossico, di cui aveva individuato gli effetti nelle conversazioni con gli uomini e le donne che conosceva. Sull'argomento stava scrivendo una tesi che avrebbe presentato all'Accademia delle Scienze della Slovenia. Si sarebbe trattato del passo più importante nel campo della follia da quando il dottor Pinel aveva fatto eliminare le catene che imprigionavano i malati, strabiliando il mondo medico con l'idea che alcuni di loro potevano essere curati. Proprio come la libido, una modificazione chimica responsabile del desiderio sessuale individuata da Freud - ma che nessun laboratorio era mai stato in grado di verificare e isolare - il Vetriolo veniva distillato dall'organismo degli esseri umani in una situazione di paura, quantunque passasse ancora inosservato ai moderni esami spettrometrici. Comunque era facilmente riconoscibile dal sapore, che non era né dolce né salato, ma amaro. Il dottor Igor, scopritore ancora ignoto di quel tossico mortale, lo aveva battezzato con il nome di un veleno che spesso, in passato, era stato utilizzato da imperatori, sovrani e amanti d'ogni tipo, allorché avevano bisogno di allontanare definitivamente una persona scomoda. Erano davvero bei tempi quelli di imperatori e re: allora si viveva e si moriva in modo romantico. L'assassino invitava la vittima a una splendida cena; il cameriere entrava con due bellissime coppe, in una delle quali c'era una bevanda al vetriolo: quanta emozione risvegliavano i gesti della vittima, che prendeva la coppa, pronunciava qualche parola dolce o aggressiva, beveva come se quella fosse una normale bevanda gustosa e guardava con stupore il suo anfitrione, prima di cadere fulminata al suolo! Ma questo veleno, divenuto costoso e difficilmente reperibile, era stato sostituito da sistemi di sterminio più sicuri: le rivoltelle, i batteri ecc'. Il dottor Igor - un romantico per natura - aveva riscattato quel nome quasi dimenticato per battezzare la malattia dell'anima che era riuscito a isolare, e la cui scoperta avrebbe ben presto strabiliato il mondo. Era curioso che nessuno avesse fatto riferimento al Vetriolo come a un tossico mortale, benché la maggior parte delle persone colpite ne avesse identificato il sapore e si riferisse al processo di avvelenamento con il termine di "Amarezza". Nell'organismo di tutti gli esseri umani è presente l'Amarezza - in misura maggiore o minore -, proprio come alligna il bacillo della tubercolosi. Ma le due malattie attaccano solo quando la persona è debilitata: nel caso dell'Amarezza, la malattia compare quando si manifesta la paura della cosiddetta "realtà". Nella frenesia di voler costruire un mondo inviolabile per qualsiasi minaccia proveniente dall'esterno, alcune persone aumentano esageratamente le difese contro l'esterno (gente estranea, posti nuovi, esperienze diverse) e lasciano sguarnito l'interno. Da quel momento, l'Amarezza comincia a causare danni irreversibili. Il grande bersaglio dell'Amarezza - o del "Vetriolo", come preferiva definirlo il dottor Igor - era la volontà. Le persone colpite dal male perdevano a poco a poco ogni voglia di agire, e nel volgere di qualche anno non sapevano più uscire dal proprio mondo, avendo sprecato enormi energie nella costruzione di alte muraglie, affinché la realtà fosse come essi desideravano. Nel tentativo di evitare l'attacco esterno, avevano limitato la propria crescita interiore. Continuavano a recarsi al lavoro, a guardare la televisione, a lamentarsi del traffico e ad avere figli, ma ogni cosa avveniva in modo automatico, senza alcuna grande emozione interiore - perché, in definitiva, era tutto sotto controllo. Il grande problema dell'avvelenamento da Amarezza era che anche le passioni - l'odio, l'amore, la disperazione, l'entusiasmo, la curiosità - smettevano di manifestarsi. Dopo qualche tempo, all'amareggiato non restava più alcun desiderio. E non aveva voglia né di vivere né di morire: ecco il problema. Ecco perché per gli amareggiati, gli eroi e i folli erano sempre affascinanti: perché non avevano paura di vivere o di morire. Sia gli eroi sia i folli si mostravano sprezzanti del pericolo, e andavano avanti, malgrado tutti gli dicessero di non fare una certa cosa. Il folle si uccideva; l'eroe si offriva al martirio in nome di una causa. Entrambi morivano: e gli amareggiati passavano nottate e giornate intere parlando dell'assurdità e della gloria dei due tipi. Era l'unico momento in cui avevano la forza di salire in cima alla propria muraglia difensiva per lanciare uno sguardo all'esterno: subito dopo le mani e i piedi si stancavano, e così tornavano alla solita vita. L'amareggiato cronico avvertiva la propria malattia soltanto una volta alla settimana: nel pomeriggio della domenica. Allora, non avendo il lavoro o la routine ad alleviargli i sintomi, capiva che c'era qualcosa di decisamente sbagliato: la pace di quei pomeriggi era infernale; il tempo non passava mai, e lui si ritrovava in preda a una fortissima irritazione. Poi sopraggiungeva il lunedì, e l'amareggiato dimenticava i sintomi, quantunque si accanisse contro il destino che non lasciava tempo sufficiente per riposare, e si lamentasse per i fine-settimana che passavano troppo velocemente. Dal punto di vista sociale, l'unico grande vantaggio della malattia era il fatto che si fosse già trasformata in norma: il ricovero, dunque, non era più necessario, se non nei casi in cui l'intossicazione risultava talmente forte che il comportamento del malato coinvolgeva le persone intorno a lui. Ma la maggior parte degli amareggiati poteva continuare a restare fuori: essi non costituivano una minaccia per la società o per gli altri giacché, proprio per via delle alte muraglie che avevano edificato, erano totalmente isolati dal mondo, quantunque sembrassero farne parte. Inventando la psicoanalisi, Sigmund Freud aveva scoperto la libido, formulando anche una terapia per i problemi correlati a essa. Oltre a rivelare l'esistenza del Vetriolo, il dottor Igor doveva dimostrare che - anche in questo caso - era possibile la cura. Voleva che il proprio nome figurasse nella storia della medicina, tuttavia non si faceva alcuna illusione sulle difficoltà che avrebbe dovuto affrontare per imporre le proprie idee: se i "normali" erano contenti della loro vita e non avrebbero mai ammesso la malattia, i "malati" mobilitavano una gigantesca industria di ospedali psichiatrici, laboratori, congressi ecc', e questo... "So perfettamente che il mondo non riconoscerà il mio sforzo adesso," si disse il dottor Igor, orgoglioso di essere incompreso. "In fin dei conti, è il prezzo che i geni devono pagare." "Che cosa le succede?" domandò la giovane davanti a lui. "Sembra che sia entrato nel mondo dei suoi pazienti." Il dottor Igor ignorò quel commento piuttosto irrispettoso. "Adesso puoi andare," disse.

da “Veronika decide di morire” Paulo Coelho

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Sono nel buio un’ombra,
sono nel nulla un’orma,
sono il vuoto,
sono un malato.
Sono la foglia che cade,
Il deserto e il mare,
sono l’errore,
sono odio e amore.
Sono la tela bianca,
il libro strappato,
sono il vetro rotto,
un panno consumato.
Sono l’attesa, la speranza.

L’indecisione e la tristezza.
Sono l’infinito senza arrivo.
sono morto e vivo.
Sono un fantasma,
lo spirito errante,
sono l’animale estinto,
l’escluso, sono il vinto,
sono un uomo solo,
io sono nessuno.

 

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