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Un blog creato da jek1944 il 23/11/2008

Università e Ricerca

Idee per una riforma

 
 

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I punti su cui discutere 1a p. 

Post n°7 pubblicato il 26 Novembre 2008 da jek1944

Discutiamo ma facciamo presto!  I tempi della ricerca sono rapidi – Certo più rapidi di quelli della burocrazia e della politica.

Siamo di fronte ad uno stop totale dei finanziamenti statali per la ricerca e per l’Università. La situazione è di vera emergenza.

Vale  la pena  agganciarsi ad un uomo di cultura autorevole come Salvatore Settis, il quale, circa la opportunità di distinguere tra Università di Ricerca (UR) e Università di Preparazione Professionale (UPP): “…se qualcuno ha voglia di introdurre un modello di tal fatta in Italia dovrebbe dirlo chiaramente, ma dovrebbe anche spiegare con quali meccanismi e attraverso quali fasi intende abolire il valore legale dei titoli di studio, diversificare le forme di assunzione e i livelli retributivi dei docenti e così via……..”

 

Io ho provato a farlo e vorrei suggerire al Ministro Gelmini di provare anche lei magari con un tavolo di competenti possibilmente disinteressati alle loro personali botteghe (gente molto difficile da trovare).

 I  miei punti

 

Valore legale della laurea

 

L’abolizione del valore legale dei titoli di studio è effettivamente una premessa indispensabile. Ma è anche la premessa necessaria a qualunque forma di valutazione e di competizione si voglia introdurre nel sistema. Servirebbe anche a rivalutare la funzione degli esami di Stato per l’accesso alle professioni nel caso si vogliano mantenere gli ordini professionali. La laurea è un titolo che per essere esercitato ha bisogno che qualche organismo che deve assumere personale qualificato ne valuti la consistenza culturale ai fini dei propri obiettivi, siano essi imprenditoriali, libero-professionistici o quant’altro. La scuola e l’università stessa, per i loro insegnanti, ne valuteranno la consistenza attraverso i loro specifici metodi di assunzione del personale. Non si vede quale sia la difficoltà di una tale riforma abrogativa. Resta forse solamente il problema dell’accesso alle carriere impiegatizie statali. Ma non si entra in queste carriere tramite concorso? E se un non laureato vincesse un concorso statale impegnativo, superando una moltitudine di concorrenti laureati, non dovrebbe forse essere assunto ugualmente, magari senza appendere fuori della porta il titolo di “dottore”, che del resto andrebbe abolito allo stesso tempo del valore legale del titolo di laurea. Naturalmente non si risolve questa serie di problemi in assenza di codici etico-deontologici praticati da tutti coloro che sono preposti al funzionamento delle commissioni di valutazione, da questa questione morale non si scappa.

Settori differenziati

Una ulteriore premessa, a mio avviso essenziale, è di mettere in evidenza il fatto che in un sistema universitario ben organizzato dovrebbero esistere regole differenziate tra i diversi settori, che io ravvedo schematicamente in cinque caratterizzazioni: scientifica, umanistica, tecnica, giuridico-sociale-economica e medico-sanitaria. Basta pensare alle interazioni tra gli operatori all’interno di ognuno di questi settori dell’università ed i diversissimi ambienti dove la disciplina che essi esercitano si concretizza nelle diverse istituzioni professionali, che gli operatori universitari stessi  necessariamente frequentano, per vedere immediatamente che un professore di materia medica non può confrontarsi con un ingegnere o con un giurista. Ospedali, cantieri per le opere pubbliche, aule di giustizia sono ambienti troppo diversi perché chi ne fa in qualsiasi modo parte non debba essere regolato da norme parallelamente diverse. Il modello che voglio presentare è un modello adatto al settore scientifico, che conosco meglio, ma le considerazioni che farò valgono in buona misura anche per gli altri settori.

Distinzione tra UR e UPP.

Vediamo intanto di definire le due entità. Insegnamento e ricerca sono indissolubilmente legati nell’istituzione universitaria, qualunque essa sia, e questo è ciò che la distingue dalla scuola media. Ma l’esercizio della ricerca può essere fatto a diversi livelli. Il massimo è quello della ricerca a livello della competizione internazionale ed è associato all’insegnamento del fare ricerca. Università UR è quella in cui si raggiunge questo grado e ne è conseguenza l’abilitazione per la istituzione a rilasciare i titoli di Dottore di Ricerca, l’ultimo e massimo gradino dell’insegnamento universitario. L’Università UPP non può raggiungere tale costosissimo livello ed il suo personale deve comunque svolgere una ricerca più lontana dalle avanguardie mondiali ma pur sempre vicina alle necessità di una didattica che prepari alle professioni, tra le quali fra l’altro va annoverata quella di esercitare la ricerca stessa, il cui primo gradino sarà l’ingresso ad una scuola di dottorato di una Università UR.

All’interno dei due gruppi si stabilisce un regime di concorrenza che verrà realizzato tramite una valutazione nazionale fatta su dati oggettivi quali i vari indici di produzione scientifica e di produzione di laureati assunti nelle varie professioni. La valutazione dovrà incidere in maniera proporzionale sui finanziamenti derivanti dallo Stato per le varie strutture (sostanzialmente i Dipartimenti) di ogni istituzione. Al limite potrà essere usata per stabilire eventuali variazioni di stato, da UPP ad UR o viceversa.

Se si fanno due conti si vede che la necessità della distinzione UPP-UR emerge chiaramente dalla necessità di non disperdere le risorse.

La 3+2

 

E’ una struttura che era stata pensata per equiparare il modello italiano a quello di altri paesi europei, si veda specialmente quello inglese, ma la cui implementazione, lasciata praticamente nelle mani della corporazione accademica, è stata oggetto di tali distorsioni artificiali ed insensate da essere oggi fonte primaria di un abbassamento epocale del livello dell’insegnamento. Non solo la classe accademica ha contribuito a questo sfascio, ma anche l’imprenditoria (soprattutto la piccola e media) e il grande pubblico dell’utenza (le famiglie e gli studenti) in una triangolazione perversa che si è autoalimentata a dismisura. I piccoli e medi imprenditori chiesero all’università di preparare i laureati per impieghi ultra specifici; si toglievano in questo modo l’onere di provvedere, ognuno nel proprio ambito, all’addestramento specifico del laureato, senza pensare che questa “professionalizzazione” selvaggia avrebbe avuto come costo un abbassamento globale della cultura generale del laureato, l’unica che conti veramente per un lavoratore di concetto, senza peraltro mai raggiungere la qualificazione che essi sognavano, che l’università, appunto in quanto scuola di cultura superiore e non di dettaglio professionalizzante, non sarà mai in grado di fornire. A questa spinta si sommò quella della massa degli studenti (forse più ancora la massa delle loro famiglie) provenienti dalle classi più deboli, che da meno tempo si affacciano all’istruzione superiore, con il miraggio del binomio: laurea - lavoro-sicuro. E l’accademia diede ascolto a questa doppia desolante illusoria richiesta. Non perché non ne comprendesse la fallacia ma perché, come sempre, la corporazione pensa prima di tutto ai propri interessi. E gli interessi degli accademici erano quelli di assecondare richieste che potevano corrispondere ad una moltiplicazione dei corsi e conseguentemente dei posti in organico e delle strutture, foriera di aumenti di stanziamenti statali. E così ci troviamo in questo momento con un numero spropositato di “corsi di laurea”, brevi, di specializzazione, e quant’altro, tra i quali si suddivide una popolazione di studenti quasi costante, che sceglie il suo percorso sulla base di offerte didattiche che assomigliano molto a spot pubblicitari (a Urbino esiste una laurea in Geologia della Salute!). Naturalmente ogni corso abbisogna di un docente diverso ed ecco la moltiplicazione richiesta dei pesci, dopo quella dei pani. Risultato: abbassamento del livello didattico come abbiamo visto, dovuto alla illusoria volontà di “professionalizzare”; abbassamento del livello di ricerca per il fatto che il tempo del personale esistente, e non aumentato affatto come incautamente sperato, deve essere ora molto maggiormente dedicato ad una didattica non congrua, improvvisata e totalmente inefficace.

Va anche ricordato che il dottorato (l’unica riforma seria fatta negli ultimi 50 anni nell’Università italiana) non e’ mai stato considerato nel contesto dell’accesso al lavoro! A decenni dalla sua istituzione, il dottorato non e’ obbligatorio per l’ingresso in accademia (cosa unica al mondo!), non e’ riconosciuto nel mondo del lavoro (anche questo non ha analoghi in altri paesi civili!) e, piu’ in generale, e’ un titolo penalizzante piuttosto che qualificante

(da : Giovanni Giacometti; il seguito al prossimo messaggio)

 
 
 
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