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dolore

Post n°74 pubblicato il 27 Giugno 2011 da cicuta4
 
Tag: ciclo
Foto di cicuta4

la legge universale del caos dovrebbe insegnarci che, se escludiamo tutte le necessarie implicazioni del concetto di causa/effetto e ci poniamo quali osservatori del primo istante cosmico, solo una pura casualità ha fatto sì che le infinitesimali particelle subatomiche avessero 'quelle' strutture e dimensioni e si aggregassero in 'quelle' forme a noi note.
ne discende che solo la casualità regola la nostra esistenza quali corpi fatti di materia all'interno dell'universo, cosicchè parlare di 'vita' quale valore assoluto diventa esercizio di pura follia
(h. s. orrieslund, introduzione al ciclo di seminari sulla metafisica, accademia di svezia, 07.06.1983)

 

trovo insopportabile il pensiero che, nel sentire comune, pochi riescano a cogliere la struggente nostalgia e la profonda tristezza di canzoni come 'lemon' degli u2, 'waka waka' di shakira o 'pop porno' de il genio
(c. morutti, dialoghi intorno all'essere)

 

era tanto felice perchè se ne andava.
io lo so che spesso mi faceva vincere quando giocavamo a prenderci, anche se lei faceva finta di no.
adesso che se n'è andata ci son voluto venire io nel suo lettino, è mio, gliel'ho detto alla maestra, se no non era giusto.
poi ieri sera, quando hanno spento la luce è venuta da me - oh, se ci vedeva la maestra sai che sgridate - e ci siamo abbracciati forte forte. mi ha detto che se era per lei mi portava pure a me.
mi sa che mi ha accarezzato anche dopo che mi ero addormentato, ho fatto bei sogni.
non ha mangiato oggi, e neppure stamattina. aspettava quei due, quelli che sono venuti ieri e pure il giorno prima. lui è brutto, ma ride sempre, mi sa che è simpatico. lei è tanto bella, e poi è bionda, mi piacciono i capelli biondi.
boh, erano di là, nello stanzone, parlavano con le maestre, poi ridevano, poi sono venuti a prendere le sue robe, il suo zaino, i suoi disegni - oh, ma i più belli me li ha lasciati - poi se ne sono andati.
prima di uscire dal cancello è venuta da noi, alcuni bambini piangevano, ma quelli sono piccoli, io sono grande, non ho pianto neanche un pò. ci ha abbracciati tutti, ma a me m'ha dato anche un bacio e una carezza.
le maestre dicono che non starà via per sempre, tornerà. ma lo so che è una bugia, non ci credo, lo so che non torna più.
mi sa che ora dormo, c'ho sonno. non sono triste, perchè m'ha dato quel bacio, e allora forse faccio bei sogni.
e se me lo ricordo anche domani, magari dormo bene anche domani.

 
 
 

dolore

Post n°72 pubblicato il 19 Marzo 2010 da cicuta4
 
Tag: ciclo
Foto di cicuta4

"molto bene, il gioco è finito. e dunque: avrai ora l'ardire e l'umiltà di romanzare una morte vera?"

(h. s. orrieslund, il cinismo della sofferenza)

 

 

hai barattato la dolcezza consolante di un ricordo con la bellezza effimera di un sorriso. saprai accettare ora la durezza di un silenzio carico di oblio?

(h. s. orrieslund, il cinismo della sofferenza)

 

giugno, altrove

 

che serata inutile, su e giù per quella salita, avanti e indietro da questa piazza.

è che devo smaltire la canna. o le birre. c'ho pure fame, per forza, son quasi tre giorni che non mangio. aaahhh, se non mi do una regolata ci tiro le penne. dovrei pure decidermi a studiare, tra tre giorni c'è l'esame e qualcosa dovrei pure andare a raccontargli, a quello. mah, qualcosa succederà.

la piazza è già strapiena, le solite facce, i soliti discorsi, sorrisi, cenni di intesa, battute e sottintesi. cosa non si fa per rimediare una scopata, le puttane battono per soldi, tutta questa carne si concede a gratis, al massimo per una messa in lista in discoteca.

certo che ieri sera… che zoccola, m’ha proprio ridotto all’osso. una così non mi era mai capitata, m’ha tirato un pompino che dopo non sapevo manco dove cazzo ero. beh, m’ha sfasciato, ma non è andata via tutta intera neanche lei. soprattutto la soddisfazione, alla fine, di cacciarla a pedate in culo. voleva mica pretendere di fermarsi a dormire e rompermi i coglioni tutta la notte, no? magari russa pure… no, no, fuori dalle palle…

mi sa che non mi fermo, meglio che vado a casa e cerco di dormire qualche ora, magari lo stomaco la smette di brontolare.

oh, e che ci fa mio fratello qua, a quest’ora?

- ciao, come mai?

- ciao, sono a casa in questi giorni e ti son venuto a prendere, vieni?

- dammi il tempo di prendere qualche libro e andiamo, c’ho l’esame lunedì prossimo - se sapesse in che condizioni sono mi chiederebbe come penso di farlo quell’esame.

- va bene, ma hai cenato?

- ho mangiato qualcosina, ma se hai voglia c’andiamo a fare un primo, c’è un posto che fa le pennette alla vodka da dio… beh, la specialità della casa in realtà è un’altra, la cameriera non sa neanche portare i piatti, ma in compenso è un’artista del tortellino.

- eheh, va bene, andiamo.

le penne sono buone come al solito, e poi con la fame che ho mi sarei mangiato anche la segatura delle gambe del tavolo. mio fratello ascolta le cazzate che racconto e ride, ma c’ha la faccia pallida e quasi non ha toccato il  cibo.

- c’è qualcosa che non va? se le penne ti fanno schifo le rimediamo…

- no, no, a posto, ho poca fame… ascolta, non ti preoccupare, adesso sta meglio, ma papà è in ospedale, oggi si è sentito male, il caldo o forse lo sforzo…

butta fuori le parole a raffica, si sforza di arrivare alla fine cercando di raccontarmi tutto e di dirmi nello stesso tempo che no, non ci lascia la pelle stavolta.

ma tanto non lo ascolto già da qualche minuto, è sparita la fame chimica e quella da digiuno. le canne, la scopata di ieri, le birre, le sue parole, mi arriva tutto insieme e tutto mi rattrappisce i muscoli, sento una marmellata inutile al posto del cervello, resto catatonico perché mi dico che mi sta raccontando qualcosa di mondi lontani, chi se ne frega, non è successo a me, è una storia che non mi appartiene.

non mi appartiene nulla di questo momento in cui sono scagliato altrove, non sono mie quelle parole che dico e sento, non è mia questa strada che mi riporta a casa, non sono miei quei libri e quell’esame di lunedì.

non è mio il mio letto in camera mia a casa mia, e voglio dormire nel lettone con mamma come quando ero bambino. lo pretendo, se la realtà in cui sto lentamente tornando è questo racconto di cose che non voglio.

è passato un attimo lungo una notte, siamo tutti qua intorno a lui. è in dormiveglia, parla poco, il volto tirato, affaticato. certo che quella pancia, sarà ora che si decide a fare qualcosa. dovevo ancora imparare a parlare e già le parole che sentivo più spesso in casa erano colesterolo e trigliceridi. alti, entrambi. guardare le sue analisi era l’equivalente di una laurea in medicina, ci trovavi molti tipi di valori sbagliati.

voglio vedere se adesso, vent’anni dopo, la pianta e si da una regolata.

ti sei preso il coccolone e noi qua, con queste facce da coglioni.

la stanza puzza di caldo e piscio, qua dentro ci saranno quaranta gradi, roba che se quello dietro di me sbaglia i tempi e invece di tirare le cuoia stanotte lo fa tra pochi minuti, si decompone all’istante.

pensa te, mentre stavi a farti venire un colpo, io ero impegnato a smaltire la sbornia di alcool e sesso della sera prima.

proprio vero, la vita è questione di prospettive e di esperienze. godi e sudi nello stesso istante in cui un altro suda e crepa. e un giorno toccherà a te essere dalla parte sbagliata della giostra. che schifo e che presa per il culo.

non ce la faccio a rimanere, restare per cosa poi, per farmi vincere da questo senso di colpa dell’essere stato nel posto giusto, con gli anni giusti e i divertimenti di rito, mentre lui quasi tirava il calzino?

tanto la passa liscia ed io non sono una merda anche se così mi sento.

c’ho un esame dopodomani, la scusa è buona.

e se parto in tempo rimedio un’altra trombata stasera, e questo è un ottimo motivo.

meglio andare.

 

 
 
 

dolore

Post n°71 pubblicato il 28 Novembre 2009 da cicuta4
 
Tag: ciclo
Foto di cicuta4

non raccontiamoci favole. la pietà che dimostriamo quando lasciamo passare un'ambulanza è in realtà bieca sottomissione ad un ricatto: quella corsa prima o poi toccherà a noi. (h. s. orrieslund, il cinismo della sofferenza)

giugno

dio buono, non me l'aspettavo. era tanto facile, svita, cambia, metti la canapa, avvita, così quel cazzo di rubinetto doveva andare a posto. certo che duro, era duro. e poi quel braccio che faceva male, il caldo insopportabile, abbassarsi là sotto, in quello spazio così angusto. e già che prima o poi dovrò decidermi a far calare 'sta pancia.
quell'altra, invece di lamentarsi, poteva pure darmi una mano. macchè, solo capace di sparare un mucchio disordinato di parole inutili. i figli, poi. ti raccontano che sono un patrimonio, sì, un patrimonio buttato all'aria, branco di falliti insulsi. li metti al mondo e li cresci, ci perdi le notti, ti spacchi la testa e pure il culo per loro, ci butti energia e denaro. che ti resta? che quando hai bisogno guai, guai cazzo!
non posso agitarmi adesso. eh sì che sono pure stanco, il braccio continua a farmi male e 'sta flebo mi squarcia la vena. deve avermela messa quell'infermiera maledetta, per forza che è stata lei, c'ha la grazia di uno scaricatore di porto e l'alito fetido. se c'ha un marito scommetto che non se la guarda da vent'anni. figurarsi trombarla. oddio no, no, calma, non posso ridere, oddio che male.
fa caldo, c'è odore di fogna. certo che m'hanno messo in bella compagnia, quello ha vomitato tutta stamattina e quell'altro non passa la notte.
eh, c'è poco da fare il cretino, mica m'ha detto qualcuno che la notte la passo io.
guarda te in che situazione mi son andato a cacciare.
quell'altro m'ha detto che sono fortunato che m'hanno preso appena è iniziato, il coccolone. vista da questo letto, per me tutto è tranne che fortuna. se poi me lo dice colla bocca che gli puzza ancora di sigaretta e caffè corretto, quasi quasi lo mando a fan culo.
pensa te che gente, e questo dovrebbe essere quello che mi cura. scommetto che ne fuma più di me. fidati, quando avrai la mia età qualcuno ti viene a trovare in questo posto. no, non hai capito: non nel tuo studio, proprio su questo letto. puoi giurarci.
certo che ci devo essere andato proprio vicino. glielo leggo in faccia. ieri sotto quel lavandino non c'era nessuno, e guardali, guardali adesso. tutti là, con quelle facce trite e contrite. fate tutti finta di niente, fate battute cariche di sorrisi nervosi, vi scambiate occhiate e pensate che non me ne accorgo. ma ve lo leggo in faccia che avete paura. per me che posso crepare, certo. ma soprattutto avete paura del vostro rimorso. come fareste a giustificare che stavate a farvi tutti i cazzi vostri mentre io stavo lì a beccarmi un infarto in quel cazzo di cesso?
se è vero quello che m'hanno detto, stavolta vi andrà bene perchè mi andrà bene.
ma la prossima, ci sarete?

 
 
 

dolore

Post n°70 pubblicato il 12 Novembre 2009 da cicuta4
 
Tag: ciclo
Foto di cicuta4

"è irritante la sollecitudine con cui mi chiedi di indicarti la strada per la felicità. di più, mi annoia. non conosco altra via se non quella che passa tra indicibili sofferenze, abissi di terrore. solo pianto e stridore di denti nella geenna del tuo animo malato. il banco vince sempre, e sempre è listato a lutto. se riuscirai ad accettare questo, potrai dire di essere finalmente sulla strada giusta.
e sarà ora di morire.
"
(h. s. orrieslund, il cinismo della sofferenza)

"anche l'uomo che la fugge la morte raggiunge"
(proverbio)

viene sempre il tempo di fare i conti. è che uno cerca di mandarla il più a lungo possibile, ma tanto è lì. e metteteci una pezza, se ci riuscite.
certo, ci si prova, a tornare indietro. quando ci si rende davvero conto che l'inizio della fine è stato proprio l'inizio, si fa di tutto per darsela a gambe. magari ci si inventa un buco alternativo a quello dove finiremo, pur di non doverci andare.
cioè, scrittori, visionari, registi, sceneggiatori, tutta quella gente che lavora con la menzogna o ai limiti della verità. beh, tutti questi venderebbero l'anima al diavolo pur di smerciare a buon mercato l'illusione di un finale diverso. e allora sgombriamolo, il campo, da queste becere illusioni; quel finale non esiste.
in quel lungo cerchio in cui si acquista la consapevolezza delle cose, del fallimento di un'esistenza, del crollare dei sogni, arriva un punto di non ritorno prima del quale la vita è eterna, dopo di che sei perduto per sempre.
chiunque vi dica che è un processo impercettibile, uno sfiorire di gioventù e uno sfumare di orizzonti senza netti sintomi di cedimento, beh, chi vi narra qualcosa del genere è un falso, un pazzo o un santo che vuole salvare voi dalla pazzia. ma non vi dice la verità.
perchè quel punto in cui il filo della speranza si spezza irrimediabilmente è chiaro a tutti, è così tragicamente netto che lascia una devastante cicatrice di terrore e orrore. e pietà per se stessi e per la propria pochezza.
passato quel punto la vita te lo racconta tutto, il dolore di cui è capace, o meglio, ti accorgi di non essere più in grado, se mai lo fossi stato, di sottrarti a quel racconto.
il ciclo non si ferma mai, ecco perchè non c'è redenzione. pensi che il tutto si compia con chi ti sta vicino, con quelli che ami, fino a sfinire il tuo cuore e le tue forze, in una rincorsa che, appunto, arriva a te.
e invece no, non è così semplice.
"la morte è un processo rettilineo", scrive il buon pennac, riempiendo con una frase ad effetto la bocca del suo signor malaussène ed un libro intero. al contrario, è una trivella che ti scava dentro e ti svuota, e solo quando non c'è rimasto più niente finisce per prendersi la tua carcassa.
mi scopro, sempre più frequentemente, ad interessarmi ai manifestini dei morti.
la penosa ironia di quella infima storiella che ci raccontano sin da quando siamo piccoli pretende il protagonista di cotanto interessamento colpevolmente assente nel giorno in cui il suo nome appare pubblicato. è una boutade che vale appena il sorriso di un bimbo di tre anni.
ho provato a chiedermi il perchè di questa nuova curiosità, ben diversa dalla morbosa attrazione che la stragrande maggioranza delle persone provano per una catastrofe. non è il compiacimento per non esserci, è il rapido calcolo di chi potrebbe esserci. amara considerazione, quella per cui l'incedere dell'età fa aumentare tristemente, ed in maniera adeguatamente proporzionale, la possibilità di riconoscere qualcuno in quelle fotografie.
intanto corro, e tanto e sempre più.
non fuggo da nessun parte, questo l'ho capito, e la saggezza popolare di quel proverbio è salvata; solo vorrei fuggire dal vedere.
succede invece che una sera sono lì, buon passo, buon respiro, le mie cuffiette a spararmi "the wall - live in berlin" nelle orecchie e dritto nel cervello. l'aria è frizzante, aria di mare, sa di buono. beh, a dir la verità a star fermi è decisamente freddo, con tutto quel vento sparato dai balcani. la solita vecchietta seduta sulla panchina, pure stasera con quest'aria, ed è arrivata pure in bicicletta. mi avvicino, a guardarla meglio è un pò trasandata, un pò sciatta, i capelli arruffati, e poi mi pare un pò troppo anziana per una salutare passeggiata notturna in questa stagione. le passo davanti, il tempo di un'occhiata e finalmente la realtà esplode in tutto il suo candore: la bicicletta il suo minimarket, gli stivali lisi a coprire mezza gamba e poco più, un paio di cartoni sulle cosce, una sciarpa a proteggere il collo e quegli occhi così rassegnati e così bianchi nel buio.
già, chiederei di fuggire dal vedere, ci sbatto contro di continuo.

e poi... non è facile uscire da un tunnel così profondo, così quotidianamente rinnovato, quando la tua testa vorrebbe davvero andare altrove ma la tua anima ti riporta esattamente sul baratro del dolore. "se guardi dentro l'abisso, l'abisso guarda in te". ci siamo andati tutti, a vedere che effetto fa, scommetto che pochi potrebbero sostenere che è un bello spettacolo.
c'è un percorso che inizia ai piedi di un aereo e finisce in una fredda serata invernale al porto. in quel percorso vedi che faccia ha la fine e ne ascolti la voce cavernosa, spezzi il filo ma poi lo riannodi, credi di aver capito, di essere stato invaso e di aver metabolizzato e di avercela fatta.
ma sono gli impostori, quelli che vendono le illusioni.
perchè c'è poi questa serata estiva, bella, limpida. tu e lei di ritorno a casa col motorino, abbracciati come fidanzatini, avete salutato gli amici da poco. niente alcool, poco fumo, tante risate. sì, proprio una bella serata. le auto ti sorpassano, veloci ma non troppo, c'è traffico. si rallenta, un ragazzo a terra a centro strada regge con le braccia una gamba vistosamente fratturata, dieci metri più in là una moto, venti metri un'altra, altri venti e c'è quest'altro ragazzo steso con la schiena appoggiata ad un cancello, anzi, l'inferriata è deformata dal suo corpo. passiamo a pochi centimetri da lui, nel traffico quasi fermo, in un silenzio irreale per una notte estiva, qualcuno da indicazioni per gli uomini dell'ambulanza, e per il resto c'è un sommesso mormorio... sì, il ragazzo del cancello si lamenta come un bimbo con l'influenza, "ahi, ahi", piano, lo senti solo perchè c'è questo silenzio assurdo.
capisci che l'abisso ti ha guardato ancora dentro quando scopri che le sue parole non potranno mai più vincere quel silenzio.

 
 
 

azùl

Post n°69 pubblicato il 06 Ottobre 2009 da cicuta4
Foto di cicuta4

posso affermare senza alcun timore  di essere smentito che il romanzo non è sublime esercizio del mentire, bensì cruda e volgare narrazione della verità. è lo strumento, sovente magistralmente adoperato, con il quale lo scrittore confessa le sue più inenarrabili ed infime bassezze, creando personaggi di fantasia a cui addossare nefandezze tali che, ove le riconoscesse come proprie, lo porterebbero, inorridito da se stesso, all'esilio dalle genti qual reietto e alla perdizione eterna.
il romanzo non è il trionfo del genio. è l'arte del vigliacco.
(
h. s. orrieslund, aforismi).

non riuscivo a dormire, il letto mi ballava sotto la schiena e la testa pulsava dolorante. avevo persino immaginato che fosse arrivato il momento di salutare per sempre la compagnia. alla mia età le liti furibonde a tarda sera, quando il tuo interlocutore è a migliaia di chilometri e non puoi sfogare il nervoso spaccandogli la faccia, possono essere fonte di rimpianto e dispiacere per chi ti vuol bene.
stavo male, per questo non me ne sono accorto subito.
guardavo il soffitto della camera, la fioca luce notturna di una tarda primavera australe che filtrava sotto il battente chiuso della finestra, a dare contorno e forma ai tanti ninnoli della stanza, al controsoffitto troppo decorato da un muratore bohemienne, al tavolino nell'angolo, alla panca in fondo al letto. un mare di pensieri annacquati dalla rabbia, spiriti liquidi che attendevano di essere sopraffatti dal sonno.
quella luce soffusa ballava anche più del letto, e poi diventava un bagliore più pronunciato, un'alba anticipata, un raggio tremolante.
stavo andando alla finestra, stranito da questo fluttuare inquietante. se doveva essere il momento, volevo vedere un'ultima volta il mio sole notturno.
a metà strada, un lieve ticchettìo alla porta, appena percepibile. era azùl.
è finita la notte, passata la mattina, il pomeriggio. si fa sera di nuovo. siamo rimasti tutto questo tempo qui, in veranda, a guardare quel fuoco che mi faceva tremolare la stanza, prima ammiccante, poi violento, vorace, caldo, e poi tutto quel legno che si consumava sotto le fiamme, in poco tempo, forse attimi, e poi solo fumo e brace, tizzoni di carbone, occhi di demonio.
per tutta la giornata abbiamo guardato la fine della sua locanda.
la fine del mio angolo dell'oblio, del posto della mia moleskine e dei miei ricordi.
non abbiamo parlato molto, poche frasi di curiosa sorpresa, perchè la parola pretende energia, soprattutto quando tutto ciò che esce dalla bocca potrebbe essere intriso di una insana idiozia. come lo è tutto ciò che puzza di consolazione e di commiserazione. non avevamo certo tutte quelle forze.
la mia veranda è diventata una sorta di sacrario, luogo di pellegrinaggio, la camera ardente di un morto che giaceva a un centinaio di metri da noi, e noi, cioè lui, azùl, il congiunto a cui rendere il cordoglio per la vittima.
se doveva toccarmi il ruolo di prefica prezzolata, beh, qualcuno ha sbagliato qualche calcolo. il fatto è che non so piangere a comando.
ci dondoliamo sulle nostra sedie, i resti della cena sul tavolo e una birra in mano.
non si è fatto mancare la solita, quotidiana, robusta razione di sigari. gli hanno diagnosticato un cancro ai polmoni, sei, forse otto mesi di vita. è passato un anno e mezzo, combatte il male aumentando le dosi di tabacco. il signorino ha deciso che per lui quella è la cura migliore.
da qualche parte sento arrivare la sua voce, bassa, grave, lucida.

"
non mi sentivo così da tempo. ma se ti dico così, non è che poi sono capace di dirti cosa intendo esprimere.
stupore, forse. avvilimento, certo. dispiacere, tanto.
ma nessuna di queste cose, nemmeno tutte insieme, racconta cosa provo.
e ti so dire anche quando ho provato tutto questo. lo so perchè quella volta mi  augurai che non mi accadesse mai più niente di simile.
eravamo rimasti svegli tutta la notte, ascoltando alla radio le notizie che arrivavano da santiago. speranza, paura, per molti voglia di partire per aiutare i compagni cileni, di non lasciarli soli di fronte all'indifferenza del mondo. eravamo giovani, come lo puoi essere da queste parti, dove la vita te lo racconta al primo vagito quanto sa essere dura.
faceva troppo caldo per essere un giorno di fine inverno e il trascorrere delle ore, le notizie che arrivavano, lo sdegno e l'angoscia, tutto rendeva l'aria insopportabile. a metà mattina capimmo che tutto era perduto, che i nostri sogni erano perduti.
non c'è redenzione, a questo mondo, questa fu la lezione che imparai in quelle ore.
tornai a casa, non avrei mai potuto, e forse neanche voluto, andare a combattere la guerra civile di un altro popolo, c'era mio padre malato, la locanda, mia madre sarebbe rimasta sola. mi raccontavo queste cose per sminuire la mia impotenza e vigliaccheria.
trovai aguela seduta sul letto, piangente.
mi avvicinai e la accarezzai, le asciugai le lacrime col palmo della mano, con le labbra, tentai di consolarla con un mesto sorriso.
mi alzai per andare in cucina, inciampai in qualcosa che non avevo visto prima, entrando. era una valigia.
in un istante capii tutto, in pochi minuti la persi per sempre.
il tempo cura e lenisce, e poi c'era la mia locanda, la mia gente, c'era il mio mondo senza telefono e televisione, le candele al sabato anche quando mi sono arreso all'elettricità. poi a un certo punto sei arrivato tu, signore discreto che portavi il silenzio dalla tua europa vecchia e chiassosa.
ho avuto le mie donne e ancora oggi non me la cavo male, ma ho rinunciato a volerne una sola, un amore eterno, per sempre. e già che si dovrebbe essere accorti ad usare certe parole, per sempre, questa promessa di infinità che dovrebbe essere riservata solo al divino e con cui invece noi esseri mortali ci riempiamo la bocca e gli occhi.
quell'amore lontano forse è stato l'inizio della rinuncia, ma la realtà è che sarei bugiardo se dicessi che fu solo quello. quel senso di mancanza mi fece capire che mi era mancato anche il mio mondo, e che l'avrei ritrovato solo rimanendo da solo.
ecco quello che fu, mancanza. non un motivo, nessun segnale, nessuna parola. un mobile inutile lasciato sul ciglio di una strada. ma non fu abbandono. solo mancanza.
allora mi sentii così, e da allora mai più, fino ad oggi.
la differenza è che allora combattei le mie vertigini e le mie paure con la mia locanda. lì ero padrone e vittima, vigile controllore o agnello sacrificale delle altrui stravaganze o debolezze. il bancone, la vetrina, i tavoli, il profumo del legno, l'odore di muffa in cantina, il fumo, le grida, violenti litigi e silenziosi abbandoni e gioiose allegrie. tutto questo mi dava forza e mi proteggeva.
ora mi resta solo la mia gente, e dico grazie a dio perchè è molto. ma quanto può resistere una tartaruga senza corazza?
"

un cane si avvicina alle macerie. si allontana portando via con sè solo i morsi di una fame non saziata. i gabbiani volano bassi sul porto, e accompagnano le barche che escono a pesca. tutti, animali, uccelli e pescatori, vanno incontro al proprio destino anche stanotte.
non si fanno sconti a nessuno, da queste parti. e spesso il prezzo è molto alto.

 
 
 
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Un blog di: cicuta4
Data di creazione: 24/10/2007
 

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