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NAUFRAGIO

Post n°22 pubblicato il 13 Aprile 2012 da viensur

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Nella notte tra il 14 ed 15 aprile 1912 scompariva negli abissi il TITANIC. Il suo stesso nome ci fa comprendere quale sogno di grandezza e maestosità incarnasse nell’immaginario collettivo di quel tempo. Questo non è il solo naufragio che le cronache storiche riportano con dovizia di particolari e neanche, in assoluto, il più grave; forse, però, rimarrà per sempre fra i più famosi. Eppure...eppure il primato è stato tenuto per centinaia di anni da un affondamento ormai quasi dimenticato; oggi, solo gli esperti o gli appassionati si ricordano che nel 59 d.C.…........

 

In viaggio verso l'Italia.

Quando dunque fu determinato di far vela per l'Italia, Paolo e cert'altri prigionieri furono consegnati a un centurione, di nome Giulio, della coorte Augusta. E, saliti sopra una nave di Adramitto che doveva costeggiare i porti dell'Asia, salpammo, avendo con noi Aristarco, macedone di Tessalonica. Il giorno seguente arrivammo a Sidone; e Giulio, che trattava Paolo con benevolenza, gli permise di andare da' suoi amici a ristorarsi. Poi, partiti di là, navigammo sotto Cipro, perché i vènti erano contrari; e, traversato il mare di Cilicia e Panfilia, arrivammo a Mira di Licia. Qui il centurione, trovata una nave alessandrina che faceva rotta per l'Italia, ci trasferì in essa. E dopo aver navigato lentamente per molti giorni, arrivammo con pena dirimpetto a Gnido, trattenuti dal vento, ci accostammo a Creta, dalla parte di Salmone; e costeggiando con gran difficoltà, venimmo a un certo luogo, chiamato Beiporti, vicino a cui era la città di Talassa. Passato così molto tempo, e il navigar facendosi sempre più pericoloso, perché era passato il digiuno, Paolo li ammoniva dicendo: «Uomini, io vedo che la navigazione riuscirà di danno e perdita grande, non solo del carico e della nave, ma anche delle nostre vite». Ma il centurione credeva più al pilota e al padron della nave che non alle cose dette da Paolo. E siccome quel porto non era adatto a svernare, i più furono di parere di partirne e, se fosse possibile, spingersi fino a Fenice, porto di Creta, che guarda a libeccio e a maestro, e di passarvi l'inverno. Soffiando poi l'australe, credettero d'essere al loro proposito, quindi, tolte le ancore, costeggiavano Creta più da vicino.

 

Fiera tempesta.

Ma poco dopo si rovesciò su essa un vento tifonico, che si chiama Euro-Aquilone (oggi Tramontana); e siccome la nave era portata via, non potendo resistere al vento, noi la lasciammo andare, trascinati con essa. Così, correndo sotto un'isola chiamata Cauda, riuscimmo con gran difficoltà ad assicurarci della scialuppa. Tiratala su, misero in opera i ripari, ricingendo la nave, e, per timore di finir sulla Sirte, ammainarono le vele lasciandosi trasportare a deriva. In tal modo, trovandoci fieramente sbattuti dalla tempesta, il giorno appresso cominciarono a far getto del carico; e il terzo giorno, con le loro proprie mani buttarono a mare gli attrezzi della nave. Più giorni passarono senza veder né sole né stelle; la tempesta infuriava su noi; già perduta era ogni speranza di salvarci. E poiché si stava da un pezzo senza prender cibo, Paolo, ritto in mezzo a quelli, disse: «Uomini, bisognava darmi ascolto, e non partire da Creta; vi sareste risparmiati questo strapazzo e questo danno. Ma ora vi conforto a star di buon animo, giacchè nessuno di voi perirà, e solo la nave andrà perduta. Mi è apparso proprio questa notte un angelo di quel Dio, di cui io sono e a cui servo, dicendomi: Paolo, non temere; tu devi comparire dinanzi a Cesare; ed ecco, Dio t'ha fatto dono di tutti quelli che navigano con te. Perciò, uomini, fatevi animo, perché ho fede in Dio che avverrà così, come m'è stato detto. Or ci bisogna d'esser gettati su una qualche isola».

 

Naufragio.

Eravamo alla quattordicesima notte, sbattuti per l'Adriatico, quando verso la mezzanotte i marinai credettero d'esser vicini a qualche terra. Calato lo scandaglio, trovarono venti braccia; e più in là, trovarono quindici braccia. Temendo allora di dar negli scogli, gettarono da poppa quattro ancore, e sospiravano che facesse giorno. Ma, siccome i marinai meditavano fuggir dalla nave, e avevano messo in mare un battello col pretesto di stendere le ancore, dalla prua, Paolo disse al centurione e a' soldati: «Se costoro non restano sulla nave, voi non potete scampare». Allora i soldati tagliarono le funi del battello, e lo lasciarono cadere. E come si fu all'alba, Paolo esortava tutti a prender cibo, dicendo: «Oggi son quattordici giorni che state spettando digiuni, senza prender nulla; perciò vi esorto a prender cibo per la vostra salvezza; del resto nessun di voi perderà neppur un capello del capo». Detto così prese del pane, rese grazie a Dio in presenza di tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare. Tutti allora si fecero animo e presero anch'essi del cibo. Nella nave eravamo duecentosettantasei persone. E quando si furono saziati di cibo, alleggerirono la nave gettando il frumento in mare. Fattosi giorno, non riconoscevano la terra; ma scòrsero un certo seno che aveva spiaggia, e deliberarono di spingervi la nave, se venisse loro fatto. Quindi, lasciate le ancore e sciolti i legami de' timoni, s'abbandonarono al mare; e alzato l'artimone, secondo il soffiar del vento, tiravano al lido. Ma, avendo dato in una punta di terra che aveva il mare dai due lati, arenarono; e mentre la prua, affondatasi, stava immobile, la poppa si sfasciava sotto i colpi del mare. Il parere de' soldati era d'uccidere i prigionieri affinché nessuno scappasse a nuoto. Ma il centurione, che voleva salvar Paolo, mandò a vuoto quel disegno, ordinando che quanti sapevano nuotare si gettassero giù i primi e andassero a terra; gli altri poi li portarono parte su tavole, e parte su rottami della nave. E così avvenne che tutti si salvarono a terra.

 

Tratto da “Atti degli Apostoli”, capitolo 27

 

 

 

 
 
 
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