Gli autoritratti di Rembrandt

Autoritratto con capelli scompigliati, 1628 (22 anni)

Se mi accompagnassi al sacrilegio, definirei l’olandese come il primo addicted to selfie della storia; ma ho troppo rispetto del genio per buttarla in caciara. Ovviamente, i miserevoli selfie cui siamo usi non hanno nulla della forza e dell’unicità degli autoritratti di Rembrandt, dei quali sarei rimasta all’oscuro se non stessi perseverando nella lettura de Il dio dietro dietro la finestra che a pagina 21 riporta:

Sulla sua scrivania, ancora aperto, c’è un catalogo degli autoritratti di Rembrandt, che mia moglie aveva letto prima di andarsene. Quando non avevo nient’altro da fare, mi sedevo sulla sua sedia e guardavo le immagini. Che cosa può indurre una persona a dipingersi continuamente a distanza di tempo per constatare ogni volta che sulla tela c’è un altro? Manca infatti l’ultima immagine, quella dipinta nell’attimo della morte, che potrebbe correggere gli altri autoritratti. Era Rembrandt a guardarmi, e non viceversa. Mi guardava in un modo così penetrante che scattavo in piedi e me la davo a gambe“.

Off topic ma non troppo: quando incontri una persona che senti affine e non sai spiegarne esattamente i motivi, devi solo dare tempo al tempo. A me succede la stessa cosa con i colpi di fulmine letterari. Iniziato un libro, basta che continui a leggere. E infatti è ancora  Krüger, ma questa volta a pagina 32, a offrirsi da tramite per certe mie dissonanze. Che sarebbero anche banali se, nella percezione altrui, non fossero bollate come eccentriche:

Non ho mai amato gli album di fotografie e io stesso non ho mai fatto fotografie – anche se esistono purtroppo mie immagini – perché ritengo che ci siano troppe foto a questo mondo, che non per questo è più accogliente“.

Quadro autoritratto giovanile

Autoritratto giovanile, 1634 (28 anni)

Rembrandt: Autoritratto con due cerchi

Autoritratto con due cerchi, 1665 (59 anni)

Guarda come piove

Attimi di grande poesia e intensità | Meer

Robert Doisneau, Le violoncelle sous la pluie

Pioggia fresca su prato blu. Erba estiva umida, effluvi di terra nera. Sempre questi acquazzoni di agosto sui gambi rasati bruciati d’oro. Le grosse gocce scorrono sinuose sul vetro, serpeggiano e si intersecano in lunghi nastri di luce liquida. Quanti pomeriggi passati dietro il velo vaporoso della tenda a seguirne col dito il tracciato nervoso e allo stesso tempo languido“.

Perrine Tripier, Le guerre preziose

Perrine Tripier è considerata la nuova enfant prodige della letteratura francese. I più entusiasti l’hanno paragonata a Proust. Non un accesso di febbre come si sarebbe portati a credere avendo un’idea della magnificenza della Recherche; piuttosto, uno degli effetti collaterali della grandeur che al suo meglio provoca scompensi tali da offuscare il senso dell’oggettività. Queste poche righe di Proust mettono in chiaro che certe arditezze critiche si offrono al riso degli dèi:

Un piccolo colpo sui vetri, come se qualcosa li avesse urtati, seguito da un’ampia caduta leggera come di granelli di sabbia che qualcuno avesse gettati da una finestra del piano di sopra, poi la caduta che s’estende, si normalizza, trova un ritmo, diviene fluida, sonora, musicale, innumerevole, universale: era la pioggia“.

Continua a sorprendermi Michael Krüger, in questo caso con la descrizione di pochi istanti goduti fino in fondo. Strappati alla banalità di un sabato senza data:

Mentre ero alla finestra che osservavo con gioia ansiosa le gemme gonfie del mio melo, cominciò a cadere una pioggia leggera, quasi un’acquerugiola, che si raccolse sul vetro, si ingrossò pian piano e soltanto dopo un tempo penosamente lungo si decise a scivolare sulla superficie liscia sotto forma di goccia. Ero così occupato dal processo di formazione della goccia che notai solo di sfuggita il postino che, di sotto, sul prato, faceva strani gesti per richiamare la mia attenzione. Ma il fatto che qualcosa (come quella acquerugiola) che si vedeva appena potesse formare gocce spesse che all’improvviso quasi facevano a gara a chi correva più veloce sul vetro catturava il mio spirito, quel sabato mattina forse non molto smanioso di sensazioni, più dell’agitarsi del postino“. da Il dio dietro la finestra

Armando Testa

05armando testa caballero e carmencita 1965 gesso e tecnica mista 25x11x11 cm credito fotografico fabio mantegna A Venezia durante la Biennale ci sarà una grande mostra su Armando Testa tra pubblicità e arte

Armando Testa, Caballero e Carmencita (1965)

La condizione perché un ricordo si dia è che trovi un canale per riaffiorare. Può trattarsi di un canale privato o pubblico come nel caso della pubblicità. Che ci è tanto invisa ma, quando d’autore, fa la differenza.

Armando Testa

03armando testa pippo 1966 1993 faiberglass e tecnica mista 130x220x100 cm credito fotografico nino chironna A Venezia durante la Biennale ci sarà una grande mostra su Armando Testa tra pubblicità e arte

Armando Testa, Pippo (1966-1993)

ARMANDO TESTA | Studio ESSECI

Armando Testa, Gufo (1968)

ARMANDO TESTA | Studio ESSECI

Armando Testa, Cane strabico (1967)

Armando Testa, la mostra a Ca' Pesaro a Venezia * Sgaialand

Armando Testa,  Elefante Pirelli (1954-1984)

La Poltrona, Ideazione dell'opera, opera di Armando Testa | Artsupp

Armando Testa, Papalla (1966)

In filigrana

Gustav Klimt, Melo

Addio

“Il giorno in cui arrivò la sua ultima lettera – una cartolina infilata in una busta – dopo una notte quasi insonne, al mattino rimasi a lungo alla finestra a fissare il melo nel giardino davanti casa, che cominciava a fiorire. Questi tre o quattro giorni dell’anno, nonostante la pioggia frequente, sono tra i più preziosi. Mentre si guarda con malcontento a un mondo svigorito, il vecchio albero spinge con perseveranza un fiore dopo l’altro fuori dal suo corpo mutilato. Ogni anno prego che conservi questa capacità di sopportare la sofferenza, perché è evidente quanta fatica gli costi fare finta ancora una volta di poter competere con tutte le boriose giovani piante che nei giardini vicini sono in piena fioritura.

Si levò un vento leggero che con mano lieve gettò in alto una parte delle foglie del melo e verso il basso l’altra, prima che tutte schizzassero di nuovo nella posizione di partenza. Come se si allenassero, pensai, per rafforzare l’elasticità dei piccioli. Da quando si diceva che le api correvano il rischio di venire sterminate da un virus sconosciuto, guardavo ogni mattina se mi facevano l’onore, come ultimo atto della loro vita terrena, di operare nel mio albero. Ma non si vedevano ancora, la concorrenza le attirava di più. Erano evidenti soltanto le conseguenze di quel vento bizzarro che riusciva a girare le foglie in direzioni differenti come se dovessero applaudire i suoi strani capricci. Mi ero ripromesso già tante volte di potare l’albero perché tra i suoi rami curvi c’era molto legno secco e altri rami stavano morendo, ogni volta però avevo deciso di rimandare ancora di un anno. Da dove venisse lo scrupolo a toccare quel vecchissimo albero evidentemente rachitico era oggetto di un lungo dibattito con me stesso quando lo osservavo la mattina. Profondo rispetto, vergogna di modellare cose sacre secondo le proprie fantasie – e cosa poteva esserci di più sacro di un albero in fiore – oppure solo pigrizia o, peggio, indifferenza, perché in realtà l’albero aveva bisogno di essere potato con urgenza. Negli ultimi anni non ho mai colto una mela, ma mi sono accontentato di raccogliere quelle che erano nell’erba e dato che l’albero è così vecchio e scontroso ed esausto, alla fine dell’estate quasi tutte le mele finiscono lì. Soltanto alcune restano attaccate al ramo, proprio quelle nella corona e quindi facilmente raggiungibili dagli uccelli che però, a quanto pare, le disdegnano e così qualcuna ha l’ambizione di trascorrere tutto l’inverno tra i propri rami. Le mie mele non sono molto buone, hanno poco succo e poco zucchero, qualche volta gli do un morso sbadato per non lasciarle lì per terra, poi le getto via con un rimorso di coscienza.”

Michael Krüger, Il dio dietro la finestra

Comparando. E per una volta i due termini di paragone si equivalgono.

“A intervalli simmetrici, nell’inimitabile ornato delle loro foglie che è impossibile confondere con quelle di qualsiasi altro albero da frutta, i meli aprivano i loro larghi petali di raso bianco o lasciavano pendere i timidi mazzolini dei loro boccioli rosseggianti. È dalla parte di Méséglise che ho notato per la prima volta l’ombra rotonda proiettata dai meli sulla terra soleggiata, e anche quelle sete d’oro impalpabile che il tramonto tesse obliquamente sotto le foglie, e che io vedevo interrotte, senza mai essere deviate, dal bastone di mio padre.”

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto

Dedicato. Ancora mi chiedo attraverso quale criterio riuscisti a descrivere il mio giardino. In che modo pervenisti a dare voce e forma ad alberi e piante che non avevi mai visto. L’invisibile e l’inudibile convertiti in un paragrafo di cui non resta traccia. Ma che ho sottratto per tempo alla spietatezza del qui e ora accogliendolo in un respiro.

Emotions of the Sun

Alex Webb, The Many Suns of Oaxaca

Non è il sole il mio fido alleato ma, preso in dosi che non inficiano l’umbratilità di cui sono portatrice, contribuisce a migliorare l’umore. Per visionario che sia, in un raggio di sole a volte colgo un afflato affabulatorio da cui mi arriva l’adrenalina necessaria per vagabondaggi tra campi incolti o strade che soddisfano la flânerie. Niente di più e niente di meno di epifanie dove, dopo il tramonto, la luminescenza notturna non è ascrivibile a quella di un drone. A meno che non mi tocchi in sorte di finire nella variante orientale a scoprire il confine effimero tra un hortus conclusus e l’inferno.

Nanna Heitmann, The Sun That Binds Us

Emotions of the Sun | Magnum Photos

Steve McCurry, Sun Cycle on Mount Fuji

"Emotions

Newsha Tavakolian, Nurturing Sun

Emotions of the Sun