Chiara guarda…

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Chiara guarda… Guarda il muro che le sta di fronte. Chiara guarda oltre il muro che le sta di fronte. Fissa un punto preciso. Situato a una certa distanza dal suo cuore. Dal mio cuore. Quella certa distanza. Che io non riesco a vedere. C’è un oscuro segreto nei pensieri di Chiara. Un oscuro segreto che persino lei ignora.

… Ho vissuto da sempre. Nello spazio che dura deviato di un sogno. In un buio accecante. Nell’istante prolisso di un gesto che tarda. O vissuto da sempre… Una vita infinita. Di altre vite infinite. Ero una bimba perduta. Il suo pianto. Una strada malcerta. Rinnovato abbandono. Una donna più lenta. Che ritorna al tramonto. Una nebbia sottile. Un lieve soffio di vento. La canicola torrida di un deserto di polvere. Una mite stagione. Sono il tutto. L’indizio. Sono me che mi guardo attraverso i suoi occhi. Sono te che ti guardi attraverso i miei occhi…

I suoi occhi… Ha distolto lo sguardo. Che la teneva legata a sé stessa. All’ipotesi nostra del tempo. Io lo sento. Spesse volte lo sento. Che riuscendo a svelare il segreto cangiante del suo sogno. La potrei ritrovare. In quel luogo preciso. Situato a una certa distanza dal suo cuore. Dal mio cuore. Quella certa distanza. Che io non riesco a vedere.

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D. è il maratoneta

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D. è il maratoneta. E’ ospite da due anni. Passa tutto il suo tempo “per strada”, non che possa nuocere agli altri, se mai a se stesso. Cammina ininterrottamente lungo il perimetro della sua agevole stanza. Un cammino infinito, che solo a volte le pareti interrompono. Sembra quasi seguire un percorso che conosce a memoria. Un percorso che dura da sempre. Che dura per sempre. D. procede spedito, assorto, rasentando il perimetro e svoltando al momento opportuno, tranne a volte in cui ignaro del limite delle pareti, gli sbatte contro col muso. All’inizio era tanta la forza dell’urto, che veniva respinto cadendo all’indietro, per poi alzarsi ed andare a cozzare ricadendo di nuovo, fino a quando qualcuno lo spostava in un punto diverso da cui poter proseguire. Ora, invece, l’impatto non l’atterra, perché si muove più lento, ma si ignora se per ridurre l’effetto dell’urto, se è più stanco dopo tanto cammino, o se questo è previsto dal suo arcano progetto. Ogni tanto, senza mai rallentare, si ferma di colpo, si stende per terra e chiude gli occhi rimanendo impietrito. Chissà che non usi le pause per studiare il percorso di quell’altro cammino che l’attende all’arrivo.

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Il dottor K

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Il dottor k direttore della casa azzurra è un grosso omaccione. Ha movenze lente, ma precise, una folta barba bianca e una voce dal suono dolcissimo. E’ il buon Babbo Natale amato ed atteso da tutti i bambini, che nella magica notte dell’anno, in cui nevica sempre e siamo tutti più buoni, arriva per tempo a donare i regali e a te quell’unico gesto di cui hai tanto bisogno, proprio quello che nessuno mai ti ha donato. Questa sera è in ritardo (lo è sempre del resto), ed è assai contrariato per avere percorso molta strada, con in mano una lunga barba bianca, che in alcuni frangenti, per poco, non veniva travolta dalle zampe impietose delle renne al galoppo. Bisognava accorciarla. Stava, infatti, già uscendo col pensiero di doverla tagliare, quando lungo le scale si sentì accusare da un bimbo -tu non sei un vero Babbo Natale! Quelli veri hanno una lunga barba bianca, la magia per i doni, il tappeto volante e un vestito lucente, tutto d’oro, diamanti, d’argento e di stelle. Non come il tuo che fa proprio schifo! – Dopo queste parole il buon Babbo Natale è distrutto, accasciato, schiantato. Sta pensando che forse sarebbe meglio mollar tutto e rientrare in casa a guardare la televisione, che stasera trasmette il programma dei quiz per i quali è un maestro, anzi un grande dottore, il dottor k. Ma poi pensa che in fondo, comunque, c’è bisogno di lui pur s’è un Babbo Natale assai scarso, alla buona, senza neanche il vestito lucente, il tappeto e la magia per i doni. Per la barba soltanto c’è rimedio, se la può far crescere in fretta strada facendo… E strada facendo, tra l’altro, ha perduto una scarpa per correr dietro alla slitta che l’aveva lasciato appiedato, in un attimo che si era distratto. Saltellando su di un piede, contrariato e in ritardo, come ben sappiamo, finalmente ora è giunto, ha bussato alla porta, tu gli apri, entra in casa, ed in fretta si dirige nell’angolo dov’è acceso il camino e senza perdere tempo, affonda il suo piede gelato nella brace che arde. Si compie il miracolo… Già si scioglie la morsa che teneva serrato il tuo cuore ed a lui il piede destro congelato.

 

 

(c)

La casa azzurra

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E’ domenica. Il giorno delle visite. Da due anni, la domenica, per me è il giorno delle visite. Non che Chiara se ne renda conto, (non mi riconosce, neppure è certo che mi percepisca diversamente da una sedia, o da un temperino, incapace com’è, verosimilmente, di distinguere alcuna categoria), ma pur capitando dalle sue parti in altri momenti mi sento più tranquillo quando posso incontrarla quel giorno: il giorno stabilito per le visite. La domenica non sono soltanto colui che legato per alcune ragioni ad una determinata persona giunge a farle visita. Sono più generalmente l’uomo sano (speranza e promessa) che si reca in quel luogo dove giace in attesa una donna malata.
La casa azzurra è immersa in un bosco fittissimo che la nasconde fin quando non le giungi dinanzi. Il bosco è talmente intricato, ostile, da non potersi neppure supporre che racchiuda una così dolce radura, arabescata nella bella stagione, da un’infinità di fiori multicolori raggruppati in aiuole, i cui confini delimitati da ciottoli allineati, formano una confusa miriade di sentieri minuscoli nei quali perdersi come in un labirinto, dove entrando non badi a segnare la strada con le piccole briciole per ritrovare l’uscita. Ma chi dovrebbe ritrovare l’uscita? E da dove? Io che giungo alla casa azzurra da fuori o da essa immagino di guardar fuori, mi chiedo se il bosco sia soltanto una casuale barriera naturale e non altrimenti quella “terra di nessuno”, la definizione di un confine del nostro cuore tracciato da chi sta dentro per difendersi o da chi sta fuori per esorcizzare se stesso. Mai chi sta fuori? Chi sta dentro? Un labirinto di profumi, colori e suoni per chi forse non po’ coglierli e da cui non sa di dover fuggire. Il labirinto della realtà per chi può e forse non vuol coglierla e da cui vorrebbe ma non può fuggire. Non si fugge dalla realtà. Non si fugge dalla casa azzurra. Quando vi giungo mi trattengo un po’ nei suoi pressi prima di entrare, per cercare di scoprire, ogni volta, il punto preciso che forzato ti consenta d’accedere a quell’altra dimensione dello spazio e del tempo dove tutto è diverso, la memoria, i sogni, persino la luce che giungendo ricrea gli oggetti, le immagini ed i volti che non si riconoscono. Cosicché, poco dopo, quando ne esci, sono invece passati molti anni, che puoi scorgere tutti scolpiti sul tuo viso.

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L’istantanea di un paesaggio è un’assenza…

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L’istantanea di un paesaggio è un’assenza…
La stessa realtà che ci circonda comincia ad esistere allorquando viene impressa/impressionata dalla nostra coscienza.
“Attraversare” un paesaggio, per me, significa provare a rendere visibile l’idea complessiva, emozionale, delle “vicinanze”; riuscire a cogliere la persistenza fugace dell’emozione, che l’ipotesi percettiva del luogo mi suggerisce, in un’essenza più intima e vera…più reale.

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