Omnia vincit amor et nos cedamus amori

Lontano dagli occhi lontano dal cuore? Probabilmente sì, ma solo per coloro che possono brindare al raziocinio. Non così per Anne che volontariamente si allontana dall’uomo che ama, e lascia che il destino la irrigidisca su quella posizione per otto anni. Quando però Frederick riappare ogni cosa torna al suo posto, ed è come se entrambi avessero fatto otto passi in direzioni opposte e otto passi a convergere.

È così che va quando le leggi dell’amore intersecano l’asimmetria della vita: la sospensione temporale corteggia la gioia futura, e poi scuce i punti di sospensione.

«Mezzo minuto più tardi i due camminano faccia a faccia, scambiando le parole necessarie a dirigere i loro passi verso il tranquillo e appartato vialetto di ghiaia, dove la conversazione avrebbe reso benedetta quell’ora, e degna di quell’eternità che, in futuro, il ricordo dei loro momenti più felici avrebbe loro concesso. Qui allora si scambiano di nuovo quei sentimenti e quelle promesse che un tempo erano parsi definitivi e che invece erano stati seguiti da tanti e tanti anni di separazione e di estraneità. Si immergono di nuovo nel passato, forse ancora più squisitamente felici in questo ritrovarsi di quanto vi si erano sentiti la prima volta: più teneri, più provati dalla vita, più consapevoli di conoscersi da vicino, più sicuri della sincerità e dell’affetto, più pronti all’azione, più giustificati nel comportamento».

Jane Austen, Persuasione

Cortesie per gli ospiti

Venezia - Racconto di un Viaggio Fotografico • PHOTO EXPERIENCE

Cortesie per gli ospiti non è considerato il libro migliore di Ian McEwan (Espiazione resta il capolavoro indiscusso), ma amando le descrizioni che a detta di chi lo ha letto abbondano, mi ci butterò a capofitto. Del resto, se la narrazione scorre come in queste due pagine, ne sarà valsa la pena. E se il finale non è piaciuto ai più perché McEwan non si è curato di definirlo, pazienza. Lavorare di fantasia non ha mai ucciso nessuno.

Ogni pomeriggio, quando la città oltre le scure persiane verdi cominciava ad animarsi, Colin e Mary si svegliavano al metodico picchiettio degli arnesi d’acciaio contro le chiatte di ferro ormeggiate accanto al bar galleggiante del loro albergo. Al mattino i barconi rugginosi e butterati, senza alcun carico o mezzo di propulsione visibile, non c’erano più; ricomparivano sul finire della giornata, e gli uomini dell’equipaggio si mettevano inspiegabilmente all’opera con martello e scalpello. Era allora, nel caldo rannuvolato del tardo pomeriggio, che i clienti cominciavano ad affluire sul pontone per mangiare un gelato seduti ai tavolini di metallo, e anche le loro voci riempivano l’oscurità della stanza, sollevandosi e abbassandosi in ondate di allegria e discordia, sommergendo i brevi silenzi tra un penetrante colpo di martello e l’altro. Si svegliarono simultaneamente, o questa fu la loro impressione, e restarono immobili sui letti separati. Per motivi che non era ormai possibile definire con chiarezza, Colin e Mary non si parlavano più. Due mosche roteavano pigre attorno al lampadario, in corridoio una chiave girò nella serratura, dei passi si avvicinarono e si allontanarono di nuovo. Finalmente Colin si alzò, scostò le persiane e andò in bagno a fare una doccia. Ancora assorta nei postumi di un sogno, Mary si voltò su un fianco mentre lui passava, e fissò il muro. Lo scroscio regolare dell’acqua nella stanza accanto era un suono suadente e lei richiuse gli occhi.

Ogni sera, durante l’ora rituale che trascorrevano sul terrazzo prima di mettersi alla ricerca di un ristorante, ciascuno aveva ascoltato pazientemente i sogni dell’altro in cambio del lusso di raccontare i propri. I sogni di Colin erano del tipo raccomandato dagli psicanalisti, sognava di volare, diceva, di denti che si sbriciolano, di trovarsi nudo di fronte a uno sconosciuto seduto. Per Mary il materasso duro, l’insolita calura, la città a stento esplorata si coalizzavano e sguinzagliavano nel suo sonno un turbinio di sogni rumorosi e polemici che, si lamentava, intorpidivano le ore da sveglia: e le belle chiese antiche, le pale d’altare, i ponti di pietra sui canali, le cadevano scialbi sulla retina come su uno schermo lontano“.

Ian McEwan, Cortesie per gli ospiti

*Ian McEwan ha scelto di non dare un nome alla città in cui si muovono Colin e Mary. Ma tutto lascia supporre che si tratti di Venezia.

Un cuore semplice

Leggendo pagine come queste, l’abbonamento a Netflix non serve:

[…] Era un edificio rivestito d’ardesia, posto fra un viottolo coperto e una stradina che portava al fiume. Da un locale all’altro c’erano differenze di livello su cui era facile incespicare. Un’angusta anticamera separava la cucina dalla “sala” dove la signora Aubain se ne stava tutto il giorno accanto alla finestra, seduta in una poltrona di paglia. Contro i pannelli dipinti di bianco che rivestivano le pareti erano allineate otto sedie di mogano. Su un vecchio pianoforte, sotto un barometro, scatole di legno e di cartone formavano una sorta di piramide. Il camino di marmo giallo, stile Luigi XV, aveva ai due lati una coppia di bergères ricamate. Nel mezzo, la pendola, fatta a imitazione di un tempio di Vesta; e tutto il locale odorava un poco di muffa, perché il pavimento era più basso del giardino.

Al piano di sopra la prima stanza era quella della “Signora”, molto grande, con una tappezzeria di carta a fiori sbiaditi e il ritratto del “Signore” in panni da moscardino. Accanto, comunicante, una stanza più piccola, con due lettini senza materasso. Poi veniva il salotto, sempre chiuso, pieno di mobili protetti da un lenzuolo. Più in là, un corridoio portava allo studio; libri e scartafacci gremivano i ripiani d’una biblioteca che circondava su tre lati una larga scrivania di legno nero. Di fronte, i due tratti di parete sparivano sotto disegni a inchiostro, acquerelli con paesaggi e incisioni di Audran, ricordi d’un tempo migliore e d’un lusso svanito. Un abbaino, al secondo piano, dava luce alla camera della serva, con vista sui prati.”

Gustave Flaubert, Un cuore semplice nella traduzione di Giovanni Raboni

Gustave Flaubert by Tullio Pericoli | Disegno ritratti, Illustrazione ritratti, Ritratti

Disegno di Tullio Pericoli

In veste di critico Flaubert scrisse:

“Le opere più belle sono quelle nelle quali c’è meno materia (…) È per questo che non esistono argomenti belli o argomenti brutti; e si potrebbe stabilire come assioma, mettendosi dal punto di vista dell’Arte pura, che l’argomento proprio non esiste, perché lo stile in sé stesso, da solo, è una maniera assoluta di vedere le cose”.

Concetto poi ripreso da Proust ne Il tempo ritrovato:

Lo stile non è una questione di tecnica, è una qualità della visione”.