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Le foto del nuovo libro di Umberto Pasti, Un Giardino Atlantico

Umberto Pasti, scrittore e botanico, vive tra il Marocco e Milano. Arabesco è il suo ultimo libro, un buon prodotto a detta di chi lo ha già letto. Ma c’è da scommettere che non eguaglierà, in bellezza, il suo giardino di Rohuna.

Un estratto da Arabesco:

Perché Tangeri? Perché avevamo preso la strada sbagliata. Un dicembre di tanti anni fa. Era la prima volta che Stephan e io, su una R4 scassata, ci arrampicavamo in testa al Reame, nei meandri di questo vecchio Nord spagnolo che brillava come una corona di latta incastonata di culi di bottiglia. Poco dopo il bivio, ci ritrovammo su una pista che si inoltrava in un mare ancora più viola della lama infilata nell’orizzonte. Ci sdraiammo tra quelle migliaia di iris in fiore, con gli steli che dondolavano come cobra al flauto del vento.

Sentimmo un verso lugubre. Dalla cresta dei fiori spuntavano delle penne di pavone. Lunghe, rigide, alcune spezzate, erano infilzate nel berretto di un omino. Sceso dalla bicicletta, si faceva inerpicare su una spalla, poi sull’altra, i due falchi incappucciati appollaiati sul manubrio. Gli si rivolgeva con quei singhiozzi di pavone. Forse per la disposizione delle penne, simile alla raggiera di una maschera esquimese, forse per l’intimità con i rapaci che trapelava dalla disinvoltura dei gesti, o per la naturalezza delle sue grida, ebbi la sensazione che fosse uno sciamano, fuori dal sesso e dal tempo.”

Unleashing the Beauty of Moroccan Botanical Gardens

Per quanto riguarda i gusti letterari di Pasti, preferisco non proferire parola. Sarei di parte. Sarei fluviale. Così, lo cito e basta:

“Ho iniziato la terza lettura della Recherche che è stata il mio grande amore da ragazzo. Mi piace la parte mondana, mi annoia il Proust che parla dell’amore e di Albertine. Ma trovo Charlus uno dei personaggi più straordinari della storia della letteratura”.

Rohuna — Bud to Seed

Discover a Paradisiacal Garden Outside Tangier, Morocco | Architectural Digest

Però, quando si tira in ballo un fuoriclasse sarebbe un sacrilegio non riportare a galla almeno una sua pagina:

“Adesso, l’astratto s’era materializzato; l’essere, finalmente capito, aveva perso di colpo il potere di rimanere invisibile, e la metamorfosi del signor di Charlus in una nuova persona era così completa che non solo i contrasti del suo viso, della sua voce, ma anche, gli alti e bassi dei suoi rapporti con me, tutto ciò che, fino a quel momento, il mio intelletto aveva trovato incoerente, diventava intelligibile, appariva evidente, così come una frase che non offriva alcun senso finché restava scomposta in lettere sparse a casaccio esprime, non appena i caratteri vengano rimessi nella giusta successione, un pensiero che non potremo più dimenticare. Capivo anche, adesso, come avessi potuto pensare, vedendolo uscire poco prima dall’abitazione di Madame de Villeparisis, che il signor di Charlus sembrava una donna: in effetti, era una donna! Apparteneva alla razza di quegli esseri – meno contraddittorî di quanto non appaiano – il cui ideale è virile proprio perché il loro temperamento è femminile, e che sono nella vita, ma solo in apparenza, simili agli altri uomini; là dove per ciascuno, inscritta negli occhi attraverso i quali vede tutte le cose del mondo, cesellata sulla faccetta della pupilla, vi è la silhouette d’un corpo, loro non hanno quella d’una ninfa, ma d’un efebo. Razza su cui pesa una maledizione, costretta a vivere nella menzogna e nello spergiuro perché sa che il suo desiderio – ciò che costituisce per ogni creatura la suprema dolcezza del vivere – è considerato punibile e vergognoso, inconfessabile; costretta a rinnegare il proprio Dio, giacché, se anche siano cristiani, quando compaiono in veste d’imputati alla sbarra del tribunale, devono, davanti al Cristo e al suo nome, difendersi come da una calunnia da ciò che è la loro stessa vita; figli senza madre, cui sono obbligati a mentire persino al momento di chiuderle gli occhi; amici senza amicizie, malgrado tutte quelle che il loro fascino sovente riconosciuto può far nascere e che il loro cuore, non di rado buono, saprebbe provare; ma è lecito chiamare amicizie le relazioni che vegetano solo col favore d’una menzogna e dalle quali il primo slancio di confidenza e di sincerità cui fossero tentati d’abbandonarsi li farebbe respingere con disgusto, a meno che non avessero a che fare con uno spirito imparziale, se non addirittura simpatetico, che in tal caso, tuttavia fuorviato nei loro confronti da una psicologia convenzionale, attribuirebbe al vizio confessato anche l’affetto che gli è più estraneo, allo stesso modo che certi giudici suppongono e giustificano più facilmente l’assassinio negli invertiti e il tradimento negli ebrei, per ragioni tratte dal peccato originale e dalla fatalità della razza? E infine – almeno secondo la prima teoria ch’io ne abbozzavo allora, destinata, come si vedrà, a modificarsi più tardi, e nella quale proprio questo elemento li avrebbe più d’ogni altra cosa urtati se la contraddizione non fosse stata sottratta ai loro occhi dall’illusione stessa che li faceva vedere e vivere – amanti ai quali è pressoché preclusa la possibilità di quell’amore la cui speranza dà loro la forza di sopportare tanti rischi e solitudini, giacché s’innamorano appunto d’un uomo che non ha nulla della donna, d’un uomo che non è invertito e che, dunque, non può amarli, così che il loro desiderio sarebbe perennemente inappagabile se il denaro non facesse cadere fra le loro braccia dei veri uomini, e se l’immaginazione non gli facesse scambiare per veri uomini gli invertiti cui essi stessi si sono prostituiti.

Marcel Proust, Sodoma e Gomorra I

Traduzione di Giovanni Raboni per i Meridiani Mondadori

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Umberto Pasti con il compagno Stephan Jansons

Mrs Ramsay

10 Best To the Lighthouse Quotes for Virginia Woolf Lovers丨PDF Reader Pro

Mrs Ramsay sapeva bene come creare armonia tra le persone, persino tra quelle che avresti detto dissonanti. Quando aveva ospiti per cena, si adoperava affinché ciascuno si sentisse a proprio agio, meglio ancora considerato; era solita avviare la conversazione partendo dallo stile mondano per poi cedere via via a una maggiore spontaneità del colloquio e delle risate.

Nessuno immaginava che la signora Ramsay, subito prima che la cena avesse inizio, avvertiva il bisogno di rifugiarsi nel “cuneo di tenebra” in cerca di quiete; quel turbamento, in tutto simile a una malinconia ristoratrice, copriva lo stesso spazio temporale di un petalo di rosa che precipita al suolo: presto si riscuoteva e tutto finiva per srotolarsi come da lei auspicato. Una volta, muta ormai la sala, accadde che:

Col piede sulla soglia sostò un altro momento in quella scena, che mentre la guardava già svaniva e, appena si mosse (…), cambiò, prese un’altra forma: era già diventata, lo capì dandosi un ultimo sguardo alle spalle, il passato“.

Mrs Ramsay è la stessa che un giorno andò in gita al faro. Per saperne di più chiedere a Virginia Woolf.

Quando qualcosa sembra scritto proprio per te

Leggendo certe pagine, archiviati meraviglia e senso di gratitudine, non puoi che ringraziare l’autore. Perché nel suo racconto hai ritrovato la parte di te che si raggruma nel silenzio. Che è più articolato di quanto non si creda. Ma vaglielo a spiegare a chi per il silenzio nutre solo spavento e diffidenza.

“V come Vegetazione«È un vegetale» si dice dei malati terminali o dei sessantottini imborghesiti, di chi vive ormai solo di flebo o di pantofole. Un’espressione davvero stupida, infamante per gli alberi ed i fiori. Un’ennesima prova della limitatezza della vista umana, dell’ottusità quasi fiabesca della specie. Da parte mia sono persuaso che quella vegetale sia la forma di vita più felice, più intensa e più gioiosa su questo tragico pianeta. I vegetali: loro sì che sanno vivere! Nella nostra ansia di movimento a tutti i costi, nel nostro infantile dinamismo, li disprezziamo perché stanno fermi. Non cambiano indirizzo. Non vanno mai in vacanza. Non salgono e non scendono le scale. Non fanno a botte, non si prendono a cornate per la leadership del branco. Sembrano perfino poco interessati all’affermazione della loro personalità individuale. Come distinguere, in un ginepraio, un ginepro dall’altro? Ma il loro dinamismo è tutto di testa, come quello dei saggi, degli yogi. Di testa, non di piedi. Affondano le radici nel punto che il destino gli ha assegnato. Lo accettano, il destino, senza protestare. Ne succhiano gli umori. Trovano l’acqua, anche nel deserto. Qui, di certo, la trovano. Sembra poca, in superficie. Ma, sottoterra, c’è acqua dappertutto. Loro sanno trovarla. Viene su di tutto, qui, qualsiasi cosa: basta lasciar cadere un seme, anche per sbaglio: crescono foreste. Se poi piove, come quest’anno, bisogna aprirsi la strada col machete. È uno spettacolo stare a guardare come si muovono le piante, come muta di continuo lo spazio che le ospita, che invadono. Dove ieri c’era un insignificante cespuglio di sterpi, oggi puoi trovare un’esplosione di fiori, un trionfo di giallo o di azzurro, improvviso come un’idea, come un’illuminazione. Prendi l’asfodelo, fiore dal passato cimiteriale. L’asfodelo, per tutto l’anno, non è che un gambo trascurabilissimo, un tubicino di materia organica verdastra che se ne sta lì, dritto non si sa ben perché, a far cosa. Un nulla, fra gli ulivi, i mandorli, i mirti e i lentischi: come un pelo pubico, dal quale la vista non è minimamente attratta: al contrario, distratta da attrazioni ben più forti, lo oltrepassa fino a ignorarne del tutto l’esistenza. Questo, per undici mesi, è un asfodelo: un pelo della terra, e niente più. Poi, d’un tratto, fiorisce. Qui succede nel tardo gennaio, e dura a stento fino al far di marzo. Una mattina imbocchi il solito sentiero e, miracolo, lo trovi cosparso di asfodeli. Tutti fioriti, bianchi senz’esser troppo bianchi, senza dar nell’occhio individualmente, ma solo nell’insieme. Il paesaggio ne è trasformato a un punto che ti può cogliere il sospetto d’esser morto e di stare camminando sulle nuvole. Non riconosci più le stesse svolte, gli stessi arbusti torti, gli stessi formicai. Ora l’asfodelo assume un’importanza preponderante, enorme, l’occhio vede solo quello, fugge d’asfodelo in asfodelo fino alla cima del colle, misura i passi calcolando le distanze da fiore a fiore. Sarebbe come se i peli del pube dell’amante, un bel giorno, si facessero d’oro o di diamanti o di rubini, scintillassero al punto di trasformarsi nella vera attrazione della zona. Animalmente, non accade. Vegetalmente, sì. Mi sembra interessante, la creatività della natura vegetale, paragonata alla ripetitività dell’animale. Ho fantasie botaniche, talvolta.”

Ezio Sinigaglia, Sillabario all’incontrario