Concupiscenze

14 idee su Rodney Smith | fotografia, fotografia bianca, foto

La lettera che scriviamo è uno spazio condiviso da due persone; non inviandola, colui che l’ha scritta rivendica il potere di includere e al tempo stesso di escludere il destinatario. Un gesto che per vigliaccheria o autocontrollo viene compiuto in nome del tatto o del buonsenso“.

Yiyun Li, Caro amico dalla mia vita scrivo a te nella tua

Devo confessare, indipendentemente dal discorso di spedire o meno una lettera, che sono di parte: ho scritto così tante lettere che non posso che dirmi convintamente sostenitrice dell’importanza di coagulare un sentimento in inchiostro. Ma ora, nulla posso della vitrea immediatezza di una e-mail o peggio ancora di un whatsapp, le cui “prose”, usurate dalla servilità alla comunicazione contemporanea, i più presuppongono di maggiore efficacia perché “snelle”. E pazienza se il messaggio virtuale dice poco o niente dell’esercizio alla sincerità – o per converso della cattiva fede di chi lo ha scritto – né tanto meno è di qualche interesse rilevare, nel caso di uno scambio amoroso, la ricerca della frase giusta da parte del mittente per scongiurare l’eventuale spaesamento del destinatario. Nulla ha la meglio su quei miseri agglomerati di parole attraverso cui pretendiamo di saldare un legame.

Kindness

sara robin 2

Quando avevo cinque anni, una domenica nel nostro quartiere arrivò un venditore ambulante con una cesta di bambù piena di pulcini. Io seguivo mio padre, stavamo andando a fare la spesa settimanale dei generi alimentari razionati, e quando il venditore ambulante mi mise nel palmo della mano un pulcino, il cui piccolo corpo soffice e caldo tremava incessantemente, piansi prima di riuscire a chiedere a mio padre di comprarmelo. Non eravamo una famiglia ricca: mio padre lavorava come custode, e mia madre, malata da che avevo memoria, non lavorava, così avevo imparato presto a contare bene, con mio padre, le monete e le banconote di piccolo taglio prima di andare a fare la spesa. Deve essere stata una cosa dolorosa per quelli che conoscevano la nostra storia vedere l’angoscia di mio padre, infatti due donne si offrirono di comprarmi ognuna un pulcino.

Mio padre, mentre tornavamo a casa, mi avvisò con dolcezza che i pulcini erano troppo piccoli per sopravvivere più di un giorno o due. Con una scatola da scarpe e dei giornali strappati costruii una casetta per i pulcini, a cui diedi da mangiare chicchi di miglio ammollati nell’acqua; poi, il giorno dopo, siccome avevano l’aria di stare male, somministrai loro dell’aspirina sciolta nell’acqua. Morirono due giorni dopo; quello che avevo chiamato Punto, e marchiato con dell’inchiostro sulla fronte, se ne andò per primo, seguito da Fungo.

Rubai due uova in cucina mentre mio padre era da un vicino per aiutarlo con un lavandino che perdeva – mia madre in quel periodo non si vedeva spesso in giro – e le ruppi cautamente eliminando tuorlo e albume; ma nonostante tutti  i miei tentativi non ci fu verso di rimettere i pulcini nei gusci, e ancora oggi ho davanti agli occhi il mezzo guscio sulla testa di Punto, che come un buffo cappellino gli copriva la macchia d’inchiostro.

Da allora ho imparato che la vita è così, ogni giorno finisce come un pulcino che non si lascia rinfilare nell’uovo“.

Yiyun Li, Kindness

Patire un dolore nell’età dell’innocenza, ovvero in quella fase della vita in cui la mente è impossibilitata a comprendere il perché di uno strazio, è funzionale a sottrarci alla stupefazione dei futuri dolori. Al momento opportuno, grazie al riemergere del già stato, si imparerà che l’allora è ora, e la narrazione del quotidiano sarà un déjà vu.