Marzo 2018: David Bowie – HEROES (1977)

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Data di pubblicazione: 14 ottobre 1977
Registrato a: Hansa Studios (Berlino)
Produttore: David Bowie, Brian Eno & Tony Visconti
Formazione: David Bowie (voce, tastiere, chitarre, sassofono, koto), Carlos Alomar (chitarra ritmica), Dennis Davis (batteria, percussioni), George Murray (basso), Brian Eno (sintetizzatori, tastiere, chitarre trattate), Robert Fripp (chitarra), Tony Visconti (cori), Antonia Maass (cori)

 

 

Lato A

 

                        Beauty and the beast
                        Joe the lion
                        Heroes
                        Sons of the silent age
                        Blackout

 

Lato B

 

                        V-2 Schneider
                        Sense of doubt
                        Moss garden
                        Neukoln
                        The secret life of Arabia

 

 

Sono soltanto una collezione di idee di altre persone
(David Bowie)

 

Parafrasando Pirandello, a proposito di David Bowie, viene in mente il titolo “Uno, nessuno e centomila”, e ti chiedi: chi è davvero costui? “L’uomo che cadde sulla terra” nel corso della sua lunghissima carriera si è distinto per un trasformismo mutante, una genialità brillante e un camaleontico adattamento alle varie scene dello starsystem, divenendo una delle icone più imitate e uniche nell’immenso panorama del rock. David Bowie è stato tra i primi ad intendere il rock come arte globale, aprendo alle contaminazioni con il mondo del teatro, con il mondo della danza, del cinema, del fumetto, delle arti visive in genere. Con lui il rock non è più affare delle masse giovanili, ma entra in una dimensione colta e nello stesso tempo provocatrice. Non vi sono più confini tra ciò che viene percepito come “eletto” e ciò che viene misconosciuto come cibo per la plebaglia: il rock diventa un linguaggio colto e soprattutto “visivo”. E’ con lui che l’artista stesso non è immagine di sé stesso, ma simbolo di qualcosa che deve lasciar intendere, intravedere. Basti pensare ai suoi particolari “alter ego”, da Ziggy Stardust al Duca Bianco, che davano un’immagine particolare ai suoi viaggi sonori, dalle ondate psichedeliche che accompagnavano il Maggiore Tom nella suo perdersi nello Spazio, alla fusione con il glam rock, l’hard, la new wave, l’elettronica, il soul, il punk, il synth pop, la dance, in una dimensione di continuo cambiamento (un po’ come cantava in Changes: “Time may change me, but I can’t trace time”).
Le sue vite artistiche non solo erano l’impronta di qualcosa di veramente speciale, ma lanciavano semi alle future generazioni per nuovi esperimenti e nuovi travestimenti (in questa sede mi preme ricordare perlomeno il travestitismo di Bono degli U2 dei primi anni ’90, quando proprio grazie alla sua ispirazione diede vita ai personaggi di The Fly, del Million Dollar Man e del diabolico MacPhisto). Scegliere quindi il disco che possa rappresentarne in assoluto la vita artistica è un’impresa davvero ardua, perché le sue disparate personalità e i suoi viaggi sonori meritano quasi tutti di essere raccontati, e ognuno di loro nasconde delle nozioni di grande interesse per coglierne l’importanza e le sfumature. Si pensi ad esempio al manifesto glam di Hunky Dory (1971), con le sue atmosfere malate di Velvet Underground, Frank Zappa, Bob Dylan o Lou Reed, e i suoi viaggi nello spazio e nelle altre dimensioni (ad esempio nella bellissima Life on Mars?). Si pensi al concept The rise and fall of Ziggy Stardust and The Spider from Mars (1972), sull’ascesa e l’autodistruzione di una rockstar, con un linguaggio fortemente autobiografico. Si pensi al linguaggio decadente di Alladin Sane (1973) e alla chiusura col glam rock. Si pensi anche alle incusioni di Diamond dogs (1974) e ai territori sonori teutonici di Station to station (1976), che difatti aprono alla famosissima trilogia berlinese, o al divertissement soul di Young americans (1975). Ognuna di queste tracce ha segnali di una maturità artistica degna di rilievo e di importanza storica. Ci soffermiamo quindi sul capitolo centrale della trilogia berlinese: il celebratissimo e fascinoso Heroes.
Il David Bowie che va a Berlino è un personaggio devastato dalla dipendenza dalle droghe, chiudeva il percorso del Duca Bianco, e aveva preso parte da protagonista nel film fantascientifico L’uomo che cadde sulla terra di Nicholas Roeg. Il tempo lo aveva portato a lavorare su Transformer di Lou Reed, ma soprattutto con Iggy Pop, prima con Raw power degli Stooges, e poi nei suoi The idiot e Lust for life. Il percorso accidentato e la dipendenza dalle droghe gli imponevano un cammino di disintossicazione (anche se qualche maligno faceva notare come fosse più facile procurarsi cocaina ed eroina a Berlino Est negli anni ’70, ma glissiamo), e nello stesso tempo gli aprì un percorso artistico con Brian Eno, focalizzandosi sul minimalismo e la musica ambient, e nello stesso tempo con l’elettronica e il krautorock. Primo capitolo della trilogia fu il capolavoro Low, direttamente influenzato dalla musica dei Neu! e dei Kraftwerk, distanziandosi dal semplice motivo pop per addentrarsi nell’ambizione di una musica più “astratta”, eterea, sfuggente, come già gli era successo con Station to station.
Non passa molto tempo (nove mesi appena), e Low trova nel successore Heroes il suo fratello gemello. Glaciale sin dalla famosissima copertina (poi riadattata in versione iconoclasta per The next day del 2013) con un Bowie in giubbotto di pelle immerso nel grigiore teutonico, in perfetta controtendenza con l’acceso arancione del disco precedente, Heroes vanta però una maggiore fruibilità lirica e melodica rispetto al disco precedente. Basti pensare alla celeberrima title-track, che vide Brian Eno nelle vesti di coautore, e alle sue ariose aperture sintetiche, che raccontava una delicata storia d’amore di due amanti che si baciano sotto il Muro di Berlino mentre sulle loro teste crepitano le armi: l’amore è il vero eroismo. Particolare è anche l’apporto di Robert Fripp alla chitarra solista, a modo di dire di Bowie, “suonata come Albert King”.
Il disco viene aperto dall’elettrofunk incalzante di Beauty and the beast, unendo sia l’essenza glam alla Roxy Music alla modalità hardcore. Joe the lion, martellante e stridula, si caratterizza per un’ulteriore sferzata chitarristica di Robert Fripp e con Bowie che da vita ai deliri del protagonista. Dopo l’uragano di emozioni della title-track, le atmosfere cominciano a cambiare, e ci si immerge nella malinconia disperata di Sons of the silent age, particolarmente impressa degli umori teutonici, e chiude il primo lato l’angolosa declamazione di Blackout.
Dopo queste tracce l’album cambia decisamente orientamento e mette in fila alcuni pezzi strumentali di spettrale bellezza, attraversando i sentieri oscuri dei Cluster, dei Kraftwerk, dei Tangerine Dream, dei Can e anche dei Popul Vuh. Si pensi al fondale crepuscolare di V-2 Schneider o alla fluttuazione sintentica e drammatica di Sense of doubt. Gli orizzonti orientali di Moss garden strizzano l’occhio agli esperimenti sonori tanto cari al Brian Eno più ambient, mentre l’espressionista Neukoln (nome ispirato da un quartiere di Berlino, dove i turchi abitavano in orribili casermoni a ridosso del Muro) si dipana a tinte fosche. Si torna al cantato nella conclusiva e arabesca The secret life of Arabia, prendendo luce e un bizzarro ritmo dance.
Dopo Heroes seguirà Lodger, che completerà la trilogia berlinese intingendosi di retromania. David Bowie continuerà la sua carriera all’insegna del trasformismo dilagante, dalla new wave che si veste di glam in Scary monsters alla frecce acuminate dal pop di Let’s dance. Dopo la sua carriera proseguirà tra alti e bassi, sdoganandosi al pop di facile fruibilità ma di scarsa vena (Tonight o Never let me down, ma inseriamoci anche il confuso Reality) a ritorni alla brillantezza e alla genialità espressiva dei tempi migliori (pensiamo a 1.Outside e The next day). Suoni e visioni di un genio ribelle e sfuggente, inclassificabile in qualsivoglia cliché o prevedibile immagine. Lui resta legato alla sua immagine vagabonda e alla sua sostanza artistica che ha dato magia al suo marchio di fabbrica: trasformismo e personalità eclettica, rendendolo “eroe”, e non per un giorno solo!

 

Da David Bowie ho appreso il linguaggio del corpo, ho imparato a controllare ogni gesto, a caricare di intensità drammatica ogni movimento, ho imparato insomma a stare sul palco
(Linsday Kemp)

 

Marzo 2018: David Bowie – HEROES (1977)ultima modifica: 2018-03-19T15:04:25+01:00da pierrovox

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