Gennaio 2018: The Who – WHO’S NEXT (1971)
Data di pubblicazione: 14 agosto 1971
Registrato a: Olympic Studios, Stargroves, Island Studios (Londra)
Produttore: The Who & Glyn Johns
Formazione: Roger Daltrey (voce, armonica), Pete Townshend (chitarre, organo, VCS3, sintetizzatori, piano, cori), John Entwistle (basso, tromba, piano, cori), Keith Moon (batteria, percussioni)
Lato A
Baba O’Riley
Bargain
Love ain’t for keeping
My wife
The song is over
Lato B
Getting in tune
Going mobile
Behind blue eyes
Won’t get fooled again
“Il rock non eliminerà i tuoi problemi, ma ti permetterà di ballarci sopra”
(Pete Townshend)
Se c’è un’esibizione di quel famoso festival di Woodstock del 1969 che proprio non si riesce a cancellare dalla mente è proprio quella degli Who. Erano circa le quattro del mattino del 17 agosto (qualcuno maligna sul fatto che il ritardo fu dovuto ad una lite con gli organizzatori del Festival per motivi di denaro), quando apparvero sul palco questi quattro figuri inglesi, e con un cantante biondo, con i riccioloni e una giacca a frange particolare, che teneva scoperto il busto, ma che permetteva un particolare effetto nei movimenti, dalle sembianze di un angelo. Gli Who allora stavano crescendo nella loro popolarità: venivano dagli ambienti mod di Londra, e si erano fatti conoscere con una canzone di particolare effetto debordante sulla cultura giovanile della metà degli anni ’60: My generation. Un inno prepotente, proto-punk si potrebbe tranquillamente asserire (tanto che anche Patti Smith anni più tardi ne farà una cover, poi inclusa nel remastered del suo capolavoro Horses), devastante, selvaggia, cruda. E nello stesso tempo avevano fatto passi importanti sia con A quick one che con Sell out, ma erano freschi della pubblicazione del loro concept capolavoro Tommy, incentrato sulla figura di un giocatore di flipper, hippy e completamente destabilizzato, e che musicalmente in diversi punti strizzava l’occhio al prog di scuola King Crimson. Senza dubbio alcuno si ponevano come una sorta di alternativa importante ed originale nell’ambito del pop-rock anglosassone, tra i Beatles e i Rolling Stones.
Quella notte gli Who ebbero incendiarono letteralmente la scena con un’esibizione talmente spettacolare, vibrante ed elettrica, da restare per sempre impressa nel cuore del tempo come una delle migliori in assoluto, se non addirittura la migliore (e surclassare gente come Jimi Hendrix, Janis Joplin o Jefferson Airplane non era certo un gioco da ragazzi!) di quel Festival, con un Pete Townshend letteralmente infiammato nel maneggiare la chitarra, oltre a distruggerla e lanciarla al pubblico sul finale, un Keith Moon indemoniato nel suo dimenarsi ritmico, folle e spietato, un John Entwistle cupo e possente (come nei suoi lugubri interventi nell’infuocata Summertime blues) e un Roger Daltrey carismatico e istrionico. In qualche modo si può dire che in quel contesto loro si conquistarono la fama di essere una delle live band più importanti della storia, come ha anche affermato in un’intervista per Rolling Stone Eddie Vedder. E conferma ne venne anche dal leggendario album dal vivo Live at Leeds uscito lo stesso anno.
La carriera degli Who comunque è disseminata di album fondamentali e importanti per la storia, sia dal già citato My generation, icona generazionale oltre che uno dei debutti più importanti di tutta la storia del rock, come anche l’altrettanto citato Tommy, imponente e geniale concept album, dove la creatività folle di Townshend aveva sfidato l’idea stessa del pop come atto banale e fruibile.
Optiamo per lo stupendo Who’s next, la loro quinta fatica in studio, oltre che una delle loro pietre miliari. Dice tutto la curiosa copertina, sorta di sberleffo a 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick: gli Who che pisciano su un monolite di cemento in un ambiente arido ma con l’orizzonte del cielo sopra di loro. L’intento è quello di sbeffeggiare la controcultura sixities e anche i miti, e la caustica domanda del titolo del disco, “chi è il prossimo?”, potrebbe intendersi come una sorta di tiro al bersaglio verso tutto ciò che è meritevole di derisione, sul quale appunto “ci pisciamo su”.
Who’s next comunque nasce dalle ceneri di un progetto ambizioso di Pete Townshend intitolato Lifehouse. Questo progetto avrebbe dovuto essere un doppio album in quadifonia, un film e un evento teatrale, tutto incentrato ad una sorta di società totalitaria in cui il rock’n’roll diventa l’arma sovversiva, lo strumento di liberazione per eccellenza. Pete si era imbevuto di musica e misticismo, Orwell e Huxley, degli insegnamenti del guru Meher Baba e del minimalismo elettronico di Terry Riley (vi dice niente?), e le sue intenzioni erano quelle di scovare una sorta di nuovo linguaggio “alieno” con cui parlare alle folle, ma nello stesso tempo il carico della mole di lavoro e le sue condizioni di salute lo portarono quasi ad un esaurimento nervoso. Fu così allora che il progetto ambizioso venne abbandonato, ma non del tutto visto che vi restavano le canzoni, alle quali aveva lavorato Glyn Johns.
Who’s next si apre con il suono rotatorio del synth e le aperture alari delle chitarra di Baba O’Riley, omaggio al guru Meher Baba e a Terry Riley, uniti in un profondo legame in questo pezzo energico e maestoso. Gli stacchi di batteria di Keith Moon segnano le traiettorie sulle quali prendono vita le sciabolate chitarristiche di Pete Townshed, con il contributo prezioso dello straniante violino di Dave Arbus degli East of Eden, aprendo delel contaminazioni per un rock che ancora doveva venire. La successiva Bargain parte dimessa, ma subito si impenna su una corsa elettrica al fulmicotone e con un Roger Daltrey bello e possente, semplicemente gigantesco in una delle sue prove vocali più belle di sempre. L’adrenalina resta ad alto tasso anche nel terzo episodio, Love ain’t for keeping, ma su una base musicale che lascerebbe intravedere degli spazi sonori bucolici e vagamente country. La tambureggiante My wife invece continua l’ormai consolidata tradizione del disco su un rock energico ed emozionante. Chiude il primo lato la power ballad immaginifica The song is over (che si avvale dell’apporto pianistico di un certo Nicky Hopkins, che suonerà anche su Getting in tune), malinconica ed incendiaria nello stesso tempo, scoppiettante ed estatica, in cui pare che gli opposti si attraggono e convivano in un amoroso connubio.
Il secondo lato viene aperto da Getting in tune, che recupera in qualche modo le atmosfere di Tommy, tra venature blues e un appeal avvolgente. Potrebbe tranquillamente essere definito come il “perfetto inno da stadio”, senza però la retorica pomposa e la tendenza allo strafare di tanti suoi epigoni. Going mobile si dimena nella sua inarrestabile frenesia, gioiosa e disincantata. Behind blue eyes invece è una vera e propria perla di pura bellezza: aperta da un dolcissimo arpeggio acustico, un canto delicato su una struggente melodia accompagnata da un deciso controcanto corale, che nel bel mezzo dell’esibizione viene follemente spinto sull’acceleratore, per proiettarla in una violenta e rabbiosa colluttazione vocale con la musa ispiratrice. Chiude il disco un altro eterno capolavoro della band. Come per il brano iniziale, Won’t get fooled again, viene aperta dal medesimo synth rotatorio, ma cavalca su un’energia divampante, con tutti i membri della band in vero stato di grazia. E come per My generation, Won’t get fooled again diventa il secondo manifesto generazionale degli Who: ogni vocalizzo, ogni rullata, ogni zampata chitarristica, ogni singolo suono, diventa la rivendicazione di una propria personalità di fronte alla disillusione dopo l’epoca idealista di fine anni ’60. Se la loro generazione doveva “morire prima di raggiungere l’età adulta”, qui invece rivendica il diritto a vivere per sempre, anche quando il cuore dovesse smettere di battere. L’urlo assassino di Daltrey sul finale, dopo l’intermezzo sintetico, è quello selvaggio e primitivo della generazione degli Who! Ed è così che Who’s next si manifesterà come uno dei dischi più belli mai concepiti!
Dopo questo disco, gli Who daranno alle stampe un altro concept album molto importante come Quadrophenia. Poi si comincerà a scendere sempre più verso un’aridità creatività che troverà i suoi abissi in dischi scialbi e brutti come Funny faces e It’s hard. Nel frattempo Keith Moon morirà per intossicazione di pastiglie clometiazolo (ne prese ben 32 per combattere la sua tossicodipendenza), dopo aver trascorso una serata in compagnia di Paul McCartney. Era il 7 settembre 1978. E anche John Entwistle lascerà a spasso gli Who, appena riuniti dopo anni di assenza, morendo il 27 giugno 2002.
Daltrey e Townshend avrannoa ancora tempo di dare alle stampe un fortemente autocitazionista Endless wire nel 2006, che pare più una sorta di vecchia cartolina ricordo che un progetto vero e proprio. Ma al di là di questo, la cosa di cui generazioni e generazioni saranno grate agli Who sarà sempre la stessa: quella cioè di aver reso il rock’n’roll la chiave di volta della salvezza di una vita!
“Gli Who sono stati la più grande live band di tutti i tempi. Quei ragazzi hanno cambiato tutto il mio mondo, e sono una grande parte del motivo per cui riesco a fare quello che faccio”
(Eddie Vedder)