L’operato del governo Monti ( 2012 )

Mario Monti (Varese, 19 marzo 1943), oltre a tutte le cose che sapete e che potrete facilmente reperire in rete, è stato primo ministro del nostro paese dal 16 novembre 2011 (data di apertura di questo blog per i motivi qui ricordati) al 28 aprile 2013. Vorrei farvi un succinto riassunto dei risultati di questi 529 giorni di governo limitandomi ad alcuni fondamentali macroeconomici, con l’osservazione preliminare che, come credo sappiate, la maggior parte dei dati macroeconomici non sono ovviamente disponibili a cadenza giornaliera. Non sarà quindi sempre possibile riferire il loro andamento all’esatto intervallo temporale di governo del prof. Monti, se non per approssimazione o per difetto, cosa della quale mi scuso fin da ora con voi, e naturalmente anche con l’interessato.

Va ricordato il contesto nel quale il governo Monti si insediò: quello di una forte turbolenza finanziaria, che i giornali di allora attribuivano al debito pubblico italiano. Sappiamo però che già all’epoca la Banca Centrale Europea aveva chiarito nei suo documenti tecnici che la crisi cosiddetta dei “debiti sovrani” non dipendeva dal debito pubblico. Il periodo nel quale il saldo del settore privato del Sud passa in deficit, mentre il deficit pubblico del Sud sostanzialmente si riduce (la fonte è questa).

Eh già, non era una crisi di debito pubblico…

Nel 2012 ce lo ribadiva la Commissione Europea, che nel suo Fiscal sustainability reportchiariva come l’Italia non avesse mai avuto problemi di sostenibilità del debito di breve periodo (tradotto: il pagamento degli stipendi e delle pensioni pubbliche non era mai stato a rischio, con buona pace dei gazzettieri) .                                                                                         L’Italia non aveva nemmeno problemi di sostenibilità del debito nel lungo periodo (leggi: problemi di sostenibilità del sistema pensionistico).
Il nostro paese, anche qui, era praticamente l’unico sotto al livello di guardia, insieme alla Lettonia, cui vogliamo molto bene, ma che non rientra fra i paesi più significativi in termini di dimensioni – anche se certo non disconosciamo il suo contributo alla cultura europea).

Il motivo di questa collocazione, che sarà parsa strana a tutti, ma non ai miei lettori, era che:
Eh già! Non era una crisi di debito pubblico…

Nel 2013 lo confermava Vitor Constancio, ad Atene, in un discorso celebre .Non era una crisi di debito pubblico, in effetti: era aumentato solo in due dei cinque paesi in crisi, e aumentato di meno in quello che era più in crisi (la Grecia).

Mentre il debito privato…

Nel 2014 il discorso di Constancio diventava un articolo scientifico.

Nel 2015 ci arrivava anche Giavazzi (not a public debt crisis), e io salutavo la sua tardiva conversione con viva cordialità.

Oggi credo che tutti capiscano dov’è il problema: nelle banche, cioè nei debiti dei privati (famiglie e imprese), che, strozzati dalla crisi, non riescono a restituire alle banche i soldi che devono loro. Cosa che qui ci eravamo detti niente meno che il 20 novembre 2011.

Sì, proprio nei giorni in cui il professor Monti era alacremente intento a curare una crisi di debito privato come se fosse una crisi di debito pubblico, cioè tagliando i redditi dei privati (via aumenti di imposte e tagli di prestazioni sociali), per risanare le finanze pubbliche, con il risultato però di dissestare quelle private, e quindi, a valle, le banche.

Ah, che il legame fra dissesto dell’economia reale e dissesto delle banche esista non lo dicevo solo io nel novembre 2011: lo ha detto anche l’ABI nel dicembre 2015:
C’è chi parla perché ha coraggio, e c’è chi parla perché ha paura. Indipendentemente dalle motivazioni, alla fine la verità viene a galla.

Ora voi mi direte: “D’accordo, avevi ragione tu e te lo dicono ormai tutti (i dati, i colleghi, la stampa finanziaria internazionale…). Mancano all’appello i gazzettieri, ma datti una calmata! In fondo, che male c’era nella fissazione del professor Monti per il debito pubblico? Un eccesso di debito pubblico è comunque un problema, no? Ci hai fatto una tesi di dottorato, dovresti saperlo? Quindi, che problema c’è se il professor Monti si è adoperato per ridurlo? Va bene: ammettiamo pure che abbia amplificato i problemi dell’economia reale e quindi delle banche – nel grafico dell’ABI si vede che le sofferenze si impennano dal 2011 – ma almeno avrà risolto l’altro problema, no? Quindi?”.

Ecco, in effetti l’altro problema, quello del debito pubblico, quello che l’austerità avrebbe dovuto risolvere, non vorrei sembrare irrispettoso, ma a me non pare sia stato risolto.

Il fatto è che nel periodo del governo Monti il debito pubblico ha continuato a crescere come se niente fosse (con buona pace degli aumenti di imposte e delle sforbiciate varie).                                                            Una performance non esaltante, in termini di contenimento del debito, aggravata dal fatto che i tagli su qualcosa avevano avuto un impatto. Indovinate un po’ su cosa? Bravi, sul PIL: che inizia a scendere nel trimestre precedente all’arrivo di Monti (il terzo del 2011), ma poi mica smette, anzi: continua la sua caduta libera e si stabilizza, casualmente, solo quando Monti se ne va (dal secondo trimestre del 2013). Questo è il Pil reale, ma a quello nominale (a prezzi correnti, che quindi incorpora l’inflazione) non è che sia andata meglio:
La flessione è meno evidente (per forza! C’era un po’ di inflazione…), ma anche il Pil nominale diminuiva. Ora, dato nel rapporto debito/PIL il numeratore cresceva, ma il denominatore diminuiva, cosa pensate che sia successo al rapporto stesso? Pensateci un po’ su, non è difficile…

È successo questo:
Monti lo ha trovato attorno al 116%, e ce lo ha restituito attorno al 131% (la serie trimestrale è costruita dividendo il valore del debito nell’ultimo mese di ogni trimestre per la somma mobile del PIL nel trimestre e nei tre precedenti, e quindi coincide alla fine di ogni anno col valore annuale del rapporto debito/Pil).

Chiaro, no?

Cosa poteva determinare una politica di tagli così severi?

Bè, ce l’immaginiamo un po’ tutti. Intanto questo:
Nessuno si sarebbe mai aspettato che politiche procicliche potessero arrestare la crescita della disoccupazione (a dire il vero già iniziata da due trimestri). Monti l’ha trovata al 9% e ce l’ha restituita al 12%. Con quali conseguenze? Quelle viste sopra: una perdita di prodotto (perché se non si lavora non si produce) .
Monti ha trovato un’Italia con un milione di famiglie povere, e ha lasciato un’Italia con 1.6 milioni di famiglie povere, pari a 4.4 milioni di individui in povertà assoluta (erano solo 2.6 quando è arrivato).

Insomma: quando Monti è arrivato l’Italia aveva una gamba malata (la finanza privata) e una gamba relativamente sana, anche se un po’ zoppicante (la finanza pubblica). Per non sbagliare Monti ha “curato” la gamba sana. Naturalmente ora l’Italia non cammina meglio, ma consolatevi: poteva andare peggio.

La conclusione tecnica è che Monti ci ha lasciato con tre monti: un monte di debiti pubblici, un monte di disoccupati, un monte di poveri. Res sunt consequentia nominum…

Da Goofynomics.it , blog del prof. Alberto Bagnai, novembre 2016

Lettera di Draghi-Trichet a Berlusconi ( 2011 )

Correva l’anno del Signore 2011 ed era il cinque agosto, Mario Draghi e Jean-Claude Trichet, rispettivamente Governatore della Banca d’Italia e Presidente della BCE, così scrivevano al Capo del Governo, Onorevole Silvio Berlusconi:

“Caro Primo Ministro, Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un’azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori… omissis…
Nell’attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:
1. … omissis…
a) E’ necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. …omissis…
b) C’é anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione… omissis…
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti… omissis…
2.Il Governo ha l’esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche… omissis…
a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. …omissis… E’ possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi… omissis…
3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell’amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l’efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l’uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione). C’é l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (n.d.r. come le Province). …omissis…
Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate.
Con la migliore considerazione.
Mario Draghi, Jean-Claude Trichet”.

Questa lettera, dal carattere velatamente minaccioso, contiene una vera e propria lista di “desiderata”, i così detti compiti a casa, solamente che non ci troviamo di fronte ad uno scolaretto poco diligente, ma ad un Capo di Governo, eletto democraticamente, di una nazione sovrana.
Poichè l’On. Berlusconi era uno scolare riottoso, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si affrettò a sostituirlo con allievi più diligenti, ma questa è storia recente.
Abbiamo avuto, infatti, ben tre Governi che non sono usciti dalle urne e precisamente il Governo Monti, il Governo Letta e da ultimo il Governo Renzi attualmente in carica.
Sono Governi che non hanno alcun mandato popolare e per giunta nell’ambito di un Parlamento eletto in maniera incostituzionale.
Questi Capi di Governo, dimentichi del loro ruolo istituzionale ovverossia di rappresentanti degli interessi del popolo italiano, come umili famigli o servi sciocchi, si sono affrettati a realizzare quanto richiesto da Draghi con la lettera del cinque agosto 2011, con i seguenti provvedimenti:
-abolizione delle tariffe professionali (tranne quelle notarili);
-pareggio di bilancio inserito in Costituzione;
-modifica delle pensioni (innalzamento età pensionabile, esodati etc.);
-abolizione delle provincie;
-blocco dei contratti del pubblico impiego;
-stravolgimento dello Statuto dei lavoratori con il nuovo Jobs act;
-riforma della scuola statale su modello privatistico;
-riforma costituzionale con abolizione del bicameralismo perfetto.
I risultati prodotti sull’economia italiana sono stati praticamente nulli se non deleteri. La crescita è latitante (forse + 0,8% a fine d’anno… sic…), la disoccupazione è ben lungi dal dato quasi ottimale del 2008, il rapporto debito/PIL è in costante aumento.
L’unica cosa che è diminuita, purtroppo, non è il debito pubblico ma l’attesa di vita, cosa che non avveniva in Italia dal secondo dopoguerra.

Raffaele Salomone Megna

Scenari economici 04 / 10 /  2016

Il trattato di Maastricht ( 1992 )

Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 Febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1 Novembre 1993, è l’atto fondativo dell’Unione Europea. Ratificato dagli allora dodici paesi delle Comunità Europee, specifica i criteri politici ed economici per poter aderire all’Unione.                                                                 Analizziamo ora i contenuti del Trattato di Maastricht.                                 I punti principali del Trattato includono:                                                         L’organizzazione a tre pilastri dell’Unione Europea ;                                           Il principio di sussidiarietà  ;                                                                                                      La cittadinanza dell’Unione Europea ;                                                             La procedura di codecisione del Parlamento Europeo  ;                                        Il completamento dell’Unione Economica e Monetaria.                           L’organizzazione a pilastri divideva le competenze dell’Unione in tre gruppi. Il primo, socio-economico, vide la nascita della Comunità Europea, che avrebbe inglobato CEE, CECA e CEEA . Il secondo ed il terzo pilastro, rispettivamente Difesa e politica estera e Affari interni e giustizia, invece furono basati su un approccio intergovernativo.
Il Trattato di Maastricht introdusse inoltre il concetto di cittadinanza europea, di cui godono tutti i cittadini degli stati membri dell’Unione. La cittadinanza europea assegna il diritto di residenza in ogni stato membro, il diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni locali e il diritto di presentare una petizione al Parlamento Europeo sui temi di competenza comunitaria.        Il Trattato di Maastricht, con l’obiettivo di rafforzare il peso delle istituzioni democratiche all’interno dell’Unione, allargò poi al Parlamento Europeo il potere di ratifica degli atti legislativi della Commissione. Questa competenza è condivisa con il Consiglio Europeo, per questo motivo si parla di “procedura di codecisione”.                                                                L’Unione Economica e Monetaria (UEM) prevedeva l’adozione di una moneta unica e la conseguente creazione di un’autorità monetaria centralizzata per gli stati dell’Unione Europea, oggi conosciuta comeBanca Centrale Europea (BCE).
Nel 1979, con gli accordi che istituirono il Sistema Monetario Europeo (SME), gli stati europei adottarono dei regimi di cambio a banda di oscillazione. Quest’obiettivo assunse un’importanza ancora maggiore in seguito alla crisi monetaria del 1992, che spinse il Regno Unito e l’Italia ad uscire dallo SME.                                                                                                  Il Trattato stabilì un itinerario a due tappe dedicato al completamento dell’UEM.                                                                                                          La prima tappa vide la creazione nel 1994 di un Istituto Monetario Europeo, che aveva come obiettivi ilcoordinamento della politica monetaria degli stati membri e la cooperazione fra le banche centrali. Nel 1998 l’Istituto Monetario Europeo lasciò il posto alla Banca Centrale Europea, che assunse la direzione della politica monetaria degli stati aderenti all’EMU.
La seconda tappa ebbe inizio nel 1999, quando i paesi che rispettavano i cosiddetti “parametri di Maastricht” fissati dal Trattato adottarono l’Euro come moneta unica. I parametri di Maastricht sono un insieme di regole riguardanti il bilancio pubblico e il regime di cambio fissate dal Trattato.
Oltre a rimanere membri del già citato Sistema Monetario Europeo              ( SME ), che stabiliva il regime di cambio  ( fisso )per le monete degli stati membri, a livello di politica monetaria era necessario mantenere i tassi di interesse di lungo periodo intorno al 2% e far sì che la differenza tra la propria inflazione e la più bassa tra quelle degli altri stati aderenti non fosse superiore all’1,5%. La convergenza dei futuri stati membri su questi aspetti avrebbe contribuito alla stabilità monetaria durante il processo di transizione.
Per garantire la stabilità della futura zona euro, i parametri di Maastricht stabilivano inoltre regole addizionali per il bilancio pubblico: in breve, mantenere il rapporto tra il debito pubblico e il PIL sotto il 60e il rapporto tra il deficit pubblico e il PIL sotto il 3%.

Lorenzo Tondi , oilproject.org

Lettera Ciampi- Andreatta ( divorzio Tesoro- Banca d’Italia 1981 )

Correva l’anno del signore 1981, era il dodici febbraio ed il Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta così scriveva al Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi:

“Caro Governatore,
ho da tempo maturato l’opinione che molti problemi di gestione della politica monetaria siano resi più acuti da un’insufficiente autonomia della condotta della Banca d’Italia nei confronti delle esigenze di finanziamento del Tesoro.
In particolare l’esistenza di un obbligo di acquisto residuale in sede d’asta di BOT… omissis…
E’ mia intenzione perciò riesaminare la opportunità della deliberazione del 23 gennaio 1975 del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio… omissis…
Tale riesame dovrebbe portare ad un sistema in cui l’intervento della Banca d’Italia all’asta dei BOT sia una libera decisione della Banca stessa, e in cui l’offerta della Banca concorra, su un piano di parità con le altre, a determinarne il prezzo… omissis
Gradirei conoscere, su queste proposte, il pensiero della Banca d’Italia, sempre in quadro di rapporti di collaborazione stretti e proficui.
Con viva cordialità”.

Ma leggiamo il riscontro del Governatore Ciampi datato sei marzo 1981:
“Caro Ministro,
rispondo alla Sua (…omissis…), le cui linee di ragionamento mi trovano sostanzialmente d’accordo. A conclusioni similari ero pervenuto nel preparare la conferenza del 16 febbraio all’Associazione Nazionale di Banche e Banchieri.
Perché la politica monetaria non subisca vincoli imposti dalla dimensione e dall’andamento nel tempo del disavanzo statale è necessario che il finanziamento al Tesoro della Banca d’Italia possa essere da questo regolato in piena autonomia al fine di raggiungere gli obiettivi di controllo monetario.
…omissis…
Mi è gradita l’occasione per ricambiarle i sentimenti di viva cordialità”.

Queste due lettere, dalla stesura così garbata, anonime quasi quanto una comunicazione condominiale, avrebbero in realtà avuto una ricaduta epocale sugli italici destini.
Infatti, senza alcun dibattito sia nel Parlamento che nella società civile , si sceglieva con questo semplice scambio epistolare di spostare la ricchezza nazionale (PIL) dallo stato sociale, dallo sviluppo delle infrastrutture e dalla creazione di posti di lavoro alla remunerazione della rendita finanziaria.
Si era posto in essere il cosìddetto “divorzio” tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia.

Come riconosciuto da Andreatta successivamente, il “divorzio” nacque come “congiura aperta” tra Ministro del Tesoro e Governatore della Banca d’Italia, “nel presupposto che, a cose fatte, fosse poi troppo costoso tornare indietro”.
Dopo tale improvvida decisione, lo Stato italiano dovette collocare i titoli del debito sovrano, senza alcun intervento calmieratore della Banca d’Italia, in aste pubbliche a tassi di mercato, mentre gli altri stati europei continuarono nella aste “more solito” ovverosia con l’intervento delle rispettive banche centrali ad acquistare i titoli invenduti .
Negli anni a seguire questa condizione determinò una vera e propria esplosione della spesa per interessi passivi e quindi del deficit annuale e del debito complessivo.
Il deficit annuo rispetto al PIL, a causa della maggiore spesa per gli interessi passivi, passò dal 56,86 % del 1980 al 94,65% del 1990, fino al 105,20% del 1992.                                                                                               Questo è il motivo dell’enorme debito italiano, non di certo la corruzione o gli sprechi.
In questo modo, rendendo il sostegno alla domanda interna e quindi la creazione di nuovi posti di lavoro praticamente impossibile poiché non c’erano più le risorse per attuarle, si era cancellato di fatto un pezzo della nostra Costituzione, in particolare il Titolo III della Parte Prima (dall’art. 35 al 47). Ma ormai la politica abdicava al proprio ruolo e per contro nasceva il cosiddetto “vincolo esterno”.

Raffaele Salomone Megna

Scenari economici 04 / 10 /  2016

Discorso di Giorgio Napolitano contro l’entrata dell’Italia nello SME ( 1979 )

Riporto il discorso dell’ex- presidente della repubblica Giorgio Napolitano, al tempo deputato del PCI, nel dibattito parlamentare che ha preceduto l’entrata dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo ( SME ) cioè un sistema di cambi semifissi ( perchè c’era una banda di oscillazione ) nel 1979.

Signor Presidente, onorevoli colleghi, siamo tutti consapevoli, credo, del significato e della difficoltà di questo dibattito. E’ in gioco una decisione  importante, rispetto alla quale i pareri sono discordi, mentre vengono alla luce modi diversi di concepire lo sviluppo della Comunità europea e di intendere la presenza e il ruolo dell’Italia in seno alla Comunità.

Ma, se c’è un paese in cui la discussione attorno a questi problemi, attorno ai problemi suscitati dalla proposta di accordo monetario europeo, avrebbe potuto svolgersi in termini del tutto obiettivi, senza essere alterata e deviata da contrapposizioni ideologiche e da manovre politiche, questo paese, onorevoli colleghi, è il nostro.

In Italia, infatti, tra i partiti democratici, tra le forze fondamentali della nostra società e nello spirito pubblico non circolano pregiudizi antieuropeistici; non operano né tradizioni di isolamento, più o meno splendido, dal resto dell’Europa, né presunzioni di grandezza nazionale. Le tendenze nazionalistiche, sfruttate ed esasperate dal fascismo, e quindi travolte nel suo disastro, non sono risorte, neppure come vaghe correnti di opinione, anche grazie alla linea cui si sono ispirate tutte le forze democratiche italiane.

Non è meno importante il fatto che, pur muovendo da posizioni diverse, tutte le forze politiche e sociali che si riconoscono nei valori della Costituzione, si siano via via riconosciute anche nei valori dell’europeismo democratico, liberati dalle distorsioni e dagli strumentalismi del periodo della guerra fredda; si siano riconosciute nel difficile sforzo di costruzione di un’Europa comunitaria realmente ancorata a principi di solidarietà, di progresso sociale, di cooperazione internazionale e di pace.

Che in questo sforzo si considerino pienamente impegnati tutta la sinistra e il movimento operaio – come dimostra la loro adesione senza riserve alla scelta dell’elezione diretta del Parlamento europeo – è un fatto che differenzia in non lieve misura la situazione italiana da quella inglese o francese. E’ un punto di forza per il nostro paese sul piano internazionale, un punto di forza che solo polemiche pretestuose ,ed irresponsabili possono oggi tendere ad oscurare.

Nello stesso tempo, non può non considerarsi una naturale manifestazione di vitalità democratica e di ricchezza politica e culturale la dialettica di posizioni che si esprime – nell’ambito di una comune scelta europeistica – tra diverse valutazioni dell’esperienza comunitaria e diverse concezioni dell’azione – da condurre in seno alla Comunità. La discussione attorno al progetto di sistema monetario europeo avrebbe dunque, onorevoli colleghi, potuto svolgersi in Italia in termini del tutto obiettivi. E così è stato, nel complesso, sino ad alcune settimane fa: nonostante le disparità di opinioni, si è discusso a lungo, e a più riprese, nel Parlamento e sulla stampa, tra i rappresentanti dei partiti di maggioranza ed il Governo, tra gli specialisti di ogni tendenza, all’interno del mondo economico e sindacale, entrando nel merito dei problemi, nel concreto delle proposte avanzate e delle loro implicazioni, della trattativa in corso e della linea da seguire in tale trattativa e dei risultati che via via si ottenevano.

Oggi, nella fase finale, sono affiorate e prevalse forzature di varia natura. Su di esse tornerò più avanti. Mi limito ora a rillevare che queste forzature sono venute da una parte sola, cioè da coloro che hanno premuto per l’ingresso immediato dell’Italia nel sistema monetario.

Il Presidente del Consiglio ha dato atto, nel suo discorso di ieri mattina che né prima né dopo il vertitce di Bruxelles sono state fatte verso il sistema monetario di cui stiamo discutendo eccezioni mosse da riserve europeiste o da contrarietà alla creazione di un sistema monetario come tale. Non si può, invece, negare ,che le pessioni in senso opposto le la scelta conclusiva siano state viziate da schemi e da calcoli che prescindevano da una valutazione obiettiva dei termini del problema.

Ma mi si permetta, onorevoli colleghi, signor Presidente, di ripartire dalla posizione assunta da noi comunisti di fronte al vertice di Brema, di fronte alle indicazioni scaturite nel luglio scorso da quella riunione dei capi di Governo della CEE. Guardammo allora con interesse ai propositi di rilancio del processo di integrazione e di maggiore solidarietà, per far fronte ad una crisi di portata mondiale, per accelerare lo sviluppo delle economie europe e combattere la disoccupazione e, insieme, ridurre l’inflazione. Non negamno l’esigenza di realizzare, a questo fine, anche una maggiore stabilità nei cambi, non esprimemmo alcuna pregiudiziale negativa nei confronti dell’idea di un nuovo sistema monetario europeo.

Ponemmo invece il problema della relazione tra uno sforzo inteso a conseguire una maggiore stabilità nei rapporti tra le monete e lo sforzo inteso ad avvicinare le situazioni e le politiche economiche e finanziarie dei paesi della Comunità in funzione di obiettivi chiari di crescita, di riequilibrio, di progresso sociale. Ponemmo in questo senso il problema delle condizioni in cui il nuovo sistema monetario europeo avrebbe potuto nascere come strumento valido e vitale, al quale l’Italia avrebbe potuto aderire fiin dall’iniizio.

E’ un fatto, signor Presidente del Consiglio, che quindi ci riconoscemmo nelle condizioni formulate dal Governo italiano e illustrate alla Camera dal ministro del tesoro nella seduta del 10 ottobre, e valutammo via via l’andamento del negoziato in rapporto a quelle condizioni. Su di esse sembrarono concordare tutti i partiti della maggioranza; ma mentre alcuni hanno poi finito per discostarsene nei loro giudizi, è ancora ad esse che noi ciriferiamo nel valutare le conclusioni raggiunte a Bruxelles e la decisione a cui ieri è pervenuto il Presidente del Consiglio.

Consideriamo non seria – mi si consenta di dirlo – la tendenza a liquidare come problema tecnico irrilevante quello di una attenta verifica dei contenuti della risoluzione di Bruxelles del 5 dicembre per valutarne la rispondenza alle concrete esigenze poste da parte italiana. Quello delle garanzie da conseguire affinché il nuovo sistema monetario possa avere successo, favorire un sostanziale riequilibrio all’interno della Comunità europea (e non sortire un effetto contrario), contribuire a una maggiore stabilità monetaria e ad un maggiore sviluppo su scala mondiale, è un rilevante problema politico.

Le esigenze poste da parte italiana non riflettevano solo il nostro interesse nazionale: la preoccupazione espressa dai nostri negoziatori fu innanzitutto quella di dar vita a un sistema realistico e duraturo, in quanto – cito parole e concetti del ministro del tesoro e del governatore della Banca d’Italia – “Un suo insuccesso comporterebbe gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema monetario internazionale, sull’avvenire e sulle possibilità di avanzamento della costruzione economica europea e sulle condizioni dei singoli paesi”.

E come condizione perché il nuovo sistema risultasse realistico e duraturo si indicò uno sforzo volto a contemperare le esigenze di rigore che un sistema di cambi deve necessariamente avere con la realtà della Comunità, che presenta situazioni fortemente differenziate; e in modo particolare si sollecitò una flessibilità del sistema tale da accompagnare senza sussulti il cammino del rientro dell’Italia verso condizioni economiche generali e, più in particolare, verso condizioni di inflazione prossime a quelle dei paesi più forti.

Gli interessi della costruzione comunitaria e gli interessi dell’Italia si sono cioè presentati come strettamente intrecciati tra loro.

Ma, ciononostante, le condizioni poste da parte itaiiana sono state in notevole misura disattese, e i rischi paventati e indicati dai nostri negoziatori e da tanti osservatori obiettivi, da tanti studiosi ed esperti, rimangono sostanzialmente in piedi.

Ella, onorevole Andreotti, ha dato invece nel suo discorso di ieri un apprezzamento largamente positivo dei risultati ottenuti, e non ha parlato più dei rischi. Ma l’apprezzamento positivo, punto per punto, strideva, me lo consenta, con il suo stesso giudizio complessivo, secondo cui la riunione di Bruxelles ha solo in parte soddisfatto le aspettative, dando l’impressione che si dimensionassero sia la suggestiva cornice di Brema, sia taluni propositi di concreta solidarietà che erano apparsi realistici nella fase preparatoria.

Inoltre, mentre su alcuni punti è apparsa corretta la valorizzazione, che noi non contestiamo, dei risultati conseguiti (la possibilità per la lira di oscillare nella misura del 6 per cento anziché del 2,25 per cento; le disponibilità di quello che poi diventerà il Fondo monetario europeo; alcuni aspetti del funzionamento dei meccanismi di credito), nella sua esposizione, onorevole Andreotti, non sono stati però presentati nella loro effettiva e cruda realtà i punti più negativi delle conclusioni di Bruxelles.

Così, per quel che riguarda gli accordi di cambio in senso stretto, si è teso quasi a far credere che si sia ottenuta una equilibrata distribuzione degli oneri di aggiustamento o, come si dice, una simmetria degli obblighi di intervento, tra paesi a moneta forte e paesi a moneta debole, in caso di allontanamento dai tassi di cambio iniziali e di avvicinamento al margine estremo di oscillazione consentito.

Ma l’ulteriore alterazione nell’ultimo vertice di Bruxelles nella formula relativa a questo aspetto essenziale dell’accordo di cambio, quella sostituzione – che può apparire innocuamente bizantina dell’avverbio “eccezionalmente” con l’espressione “in presenza di circostanze speciali”, è stata solo la conferma di una sostanziale resistenza dei paesi a moneta più forte, della Repubblica federale di Germania, e in modo particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi ed a sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle monete e delle economie di paesi della Comunità.

E così venuto alla luce un equivoco di fondo, di cui le enunciazioni del consiglio di Brema sembravano promettere lo scioglimento in senso positivo e di cui, invece, l’accordo di Bruxelles ha ribadito la gravità: se cioè il nuovo sistema monetario debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, delle economie europee e dell’economia mondiale, o debba servire a garantire il paese a moneta più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania federale e spingendosi un paese come l’Italia alla deflazione.

E ben strano, mi si consenta, che di questo rischio, così presente nelle dichiarazioni del rappresentante del Governo il 10 ottobre alla Camera e il 26 ottobre al Senato, non si parli più nel momento in cui si propone l’adesione immediata, alle attuali condizioni, dell’Italia al sistema monetario europeo.

Non voglio ripetere le considerazioni già svolte puntualmente dal collega Spaventa sui motivi che giustificano e impongono un particolare sforzo del nostro paese per conseguire un più alto tasso di crescita, e sul rischio che invece i vincoli del sistema monetario, quale è stato congegnato, producano effetti opposti.

Ma desidero sottolineare che nulla ci è stato detto per confutare analisi come quella citata dal collega Spaventa secondo cui, di fronte ad una tendenza alla rapida svalutazione della lira rispetto al marco, che discende dallo scarto attualmente così forte tra tasso di inflazione italiano e tedesco, le regole dello SME ci possano portare ad intaccare le nostre riserve e a perdere di competitività, ovvero a richiedere di frequente una modifica del cambio, una svalutazione ufficiale e brusca della lira fino a trovarci nella necessità di adottare drastiche politiche restrittive. Il rischio è comunque quello di dissipare i risultati conseguiti negli ultimi due anni in materia di attivo della bilancia dei pagamenti e delle riserve, quei risultati di cui anche il cancelliere Schmidt, con un giudizio politicamente significativo, ha nei giorni scorsi messo in luce il valore. I1 rischio è quello di veder ristagnare la produzione, gli investimenti e l’occupazione invece di conseguire un più alto tasso di crescita; di vedere allontanarsi, invece di avvicinarsi, la soluzione dei problemi del Mezzogiorno.

Questi rischi erano tanto presenti al Governo e ai suoi rappresentanti nel negoziato per il sistema monetario che essi non solo avevano richiesto garanzie – in materia di accordi di cambio – ben più consistenti di quelle che si sono ottenute, ma avevano posto, come una delle condizioni non scambiabili con altre, quella del trasferimento di risorse e dalla revisione delle politiche comunitarie in funzione dello sviluppo delle, economie meno prospere.

Si disse che andava così compensata la più rigida disciplina economica, comunque implicita nel sistema monetario, e che occorreva procedere simultaneamente nelle diverse direzioni.

Mi pare che si tentasse di evitare che quella che il Presidente dal Consiglio ha ieri definito <la suggestiva cornice di Brema>, restasse solo una cornice e per di più ridimensionata. Da questo punto di vista, le cose sono andate purtroppo nel modo più deludente – non è giusto nascondercelo – per i limiti posti sia all’ammontare dei nuovi prestiti disponibili per l’Italia e l’Irlanda, sia alla misura (non più dd 3 per cento) degli abbuoni di interesse, sia all’utilizzazione dei prestiti stessi, con l’esclusione di qualsiasi progetto per lo sviluppo industriale (per quel ci riguarda nel Mezzogiorno) e addirittura di qualsiasi progetto che alteri i termini della <<competitività di particolari industrie all’interno degli Stati membri >>.

Il problema non era per altro solo questo, ma quello del concreto avvio alla revisione e allo sviluppo di determinate politiche comunitarie; anche se ovviamente nessuno si illudeva che tale revisione potesse essere conclusa entro il 4 o il 5 dicembre. Ma contano, a questo proposito, i segni negativi che si sono avuti.

Il primo vi è stato con il rifiuto francese di aumento del fondo regionale; rifiuto che significa molte cose: negazione dell’autorità del Parlamento europeo; negazione, al limite, della necessità di una politica di riequilibrio nell’ambito della comunità, di cui il mezzogiorno d’Italia sia tra i principali beneficiari; tendenza, comunque, della Francia a sottrarsi ad un maggior impegno in questo senso.

L’altro segno negativo è costituito dal fatto che a Brema non si sia niusciti ad avviare seriamente alcun processo di revisione della politica agricola comunitaria; che non si sia preso in esame neppure il memorandum a questo scopo predisposto e preannunoiato dal presidente della Commissione Jenkins. Non si sono nemmeno avuti chiarimenti esaurienti rispetto alle preoccupazioni esposte di recente nella Commissione agricoltura del Senato da esponenti di diversi gruppi, del partito repubblicano, della democrazia cristiana, e dallo stesso ministro dell’agricoltura, per quel che riguarda le ripercussioni di un’entrata immediata dell’Italia nello SME sul sistema dei prezzi agricoli, mentre non si sono definiti finora i correttivi di cui a questo proposito si è parlato, e le ipotesi pure ventilate di svalutazione della <lira verde> sollevano intanto seri interrogativi sugli effetti inflazionistici che ne potrebbero derivare.

Il tema della politica agricola comunitaria, onorevoli colleghi, è un tema centrale; e quando si compie il bilancio di questa politica, come di tutta l’esperienzacomunitaria, non si deve indulgere a semplificazioni retoriche di stampo idilliaco.

Non si può parlare di politica agricola comunitaria solo per ricordarne il fine dichiarato di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni rurali, e tacere sulle grandissime distorsioni che essa ha prodotto a beneficio dei paesi più ricchi a svantaggio di paesi come l’Italia, alla quale – se si calcola la differenza tra i prezzi dei prodotti CEE importati dall’Italia e quelli vigenti sul mercato internazionale – è stata addossata una tassa che da qualcuno viene calcolata (si tratta di calcoli probabilmente discutibili, ma non possediamo stime ufficiali) in 2 mila miliardi di lire.

Tornando, Signor Presidente, alle conclusioni raggiunte a Bruxelles, non c‘è dubbio che esse autorizzassero largamente la decisione, presa il 5 dicembre dal Presidente del Consiglio, non di aderire entro otto giorni, ma di riservarsi ancora sostanzialm,ente la scelta dell’adesione immediata e a tutti gli effetti oppure no.

E le valutazioni espresse nel merito dei risultati ottenuti dal ministro degli esteri e dal ministro del commercio con l’estero pubblicamente, dal ministro del tesoro in Parlamento, ed in sede tecnica dalla autorità monetaria (senza che questa per altro travalicasse i limiti della propria competenza ed invadesse il campo della autorità politica, senza che si prestasse a strumentalizzazioni né in un senso né nell’altro), queste valutazioni sono a noi apparse tali da giustificare pienamente una scelta che si limitasse ad una dichiarazione di principio favorevole e alla partecipazione a talune dellle operazioni previste dalla risoluzione di Bruxelles, e che escludesse l’accettazione dal 1° gennaio dei vincoli di cambio, del meccanismo del tasso di cambio, tanto più in presenza di una analoga decisione della Gran Bretagna, con tutto ciò che questa decisione comportava e comporta.

Una scelta che infine esprimesse un impegno positivo e incisivo- dell’Italia per l’ulteriore confronto su tutti gli aspetti del nuovo sistema monetario e della politica complessiva di sviluppo della Comunità.

Perché non si è seguita questa strada ?

Perché non si sono raccolte le preoccupazioni e gli avvisi di prudenza che venivano da diversi settori della maggioranza e dall’interno dello stesso Governo ?

Queste preoccupazioni nascevano anche dall’esigenza finora non sodisfatta di collocare la creazione di un’area di stabilità monetaria in Europa nel più vasto quadro – ne ha parlato il collega Spaventa – di una ridefinizione dei rapporti con l’area del dollaro e di uno sforzo per giungere ad un nuovo ordine monetario internazionale e per contribuire ad una accelerazione, non ad un rallentamento, dello sviluppo economico mondiale.

Perché non si sono ascoltate abbastanza nei giorni scorsi queste voci e si è giunti ad una decisione precipitata ed arrischiata ? Onorevoli collleghi, su questo punto noi non possiamo ritenere che si sia fatta sufficiente chiarezza finora e ci si permetterà di contribuire alla ricerca di risposte sodisfacenti.

Parto dalle sollecitazioni e motivazioni davvero più nobili, quelle dei più ardenti fautori dell’unità europea, tra i quali il collega ed amico Altiero Spinelli. Questi amici si sono preoccupati di non contribuire, con una decisione di non ingresso immediato dell’Italia nello SME, a un parziale insuccesso di quello che appare il primo rilevante tentativo di rilancio del processo di integrazione europea dopo anni ed anni di involuzione e di crisi. Ma quello che non ci ha persuaso in tale motivazione è la tendenza ad attribuire ad un tentativo del genere, così come è concepito e congegnato, la virtù di mettere in moto una reale ripresa su basi nuove e solide dell’integrazione europea.

No, onorevoli colleghi, noi siamo dinanzi ad una risoluzione, quella di Bruxelles, che assume i limiti ristretti della creazione di un meccanismo del tasso di cambio le cui caratteristiche rischiano per di più di creare gravi problemi ai partecipanti.

Naturalmente non sottovalutiamo la importanza degli sforzi rivolti a creare un’area di stabilità monetaria. Ma se è vero che le frequenti fluttuazioni dei cambi costituiscono una causa di instabilità e un fattore negativo per lo sviluppo del commercio intracomunitario (la crisi di questo commercio non può per altro essere ricondotta soltanto alle fluttuazioni nei cambi) è vero anche che esse sono il riflesso di squilibri profondi all’interno dei singoli paesi, all’interno della Comunità europea e nelle relazioni economiche internazionali.

La verità è che forse – come si è scritto fuori d’Italia – si è finito per mettere il << carro >> di un accordo monetario davanti ai <<buoi>> di un accordo per le economie. Ed è invece proprio su questo terreno, oltre che su quello della revisione del meccanismo dei cambi in quanto tale, che occorreva continuare a premere, a discutere, a negoziare.

Ma – ci si chiede – come: stando dentro o stando fuori?

Francamente di fronte ad una domanda di questo genere noi sentiamo il bisogno di osservare – e mi scuso per l’ovvietà – che il 5 dicembre non si è creata a Bruxelles una nuova Comunità europea al posto della vecchia.

Noi continuiamo, evidentemente, qualunque sia la decisione relativa allo SME, a stare dentro tutte le istituzioni e le sedi di confronto comunitarie; possiamo anche partecipare, pur non aderendo nell’immediato al sistema monetario, a consultazioni specificamente previste dalla risoluzione di Bruxelles in materia di politiche monetarie.

Il documento approvato il 5 dicembre – e questo è un suo aspetto indubbiamente positivo – non scava alcun solco fra chi aderisce subito e chi si riserva di aderire successivamente; né credo che il nostro  ingresso immediato avrebbe avuto un effetto traumatico, quasi che dipendesse da ciB che lo SME nascesse, come ha detto ieri l’onorevole Andreotti, a sei invece che ad otto e mezzo (tanto per restare nel gergo monetario, non riesco a capire quale unità di conto abbia adoperato l’onorevole Andreotti per attribuire un peso del due e mezzo all’ingresso immediato dell’Italia nel sistema monetario).

E nostra convinzione che avremmo potuto esercitare una maggiore forza contrattuale mantenendo la nostra riserva, la nostra posizione di non ingresso immediato.

Onorevoli colleghi, in quest’aula si è parlato (vi si è riferito poco fa anche il collega Cicchitto)delle sollecitazioni e delle assicurazioni pervenuteci negli ultimi giorni da governi amici; sembra anche che esse abbiano avuto un notevole peso nella scelta finale del Governo.

Per la verità voglio ricordare che anche qualche altra volta abbiamo ricevuto telegrammi. Ricevemmo – non è vero, ministro Marcora? – un telegramma pieno di assicurazioni dal cancelliere Schmidt anche nel maggio scorso, per invitarci a sciogliere la riserva sul negoziato per i prezzi agricoli e sul << pacchetto >> mediterraneo.

Quale seguito han. no avuto quelle assicurazioni telegrafiche ?

Anche in questa occasione più dei messaggi a fuochi spenti sarebbe valso l’accoglimento concreto di determinate istanze e proposte.

Queste sollecitazioni, comunque, confermano l’esistenza di un reale e forte interesse degli altri paesi membri della Comunità ad avere l’Italia al più presto presente nel sistema monetario. Si sarebbe, dunque, potuto far leva su questo interesse, non dando la adesione immediata allo SME, per portare avanti un serio negoziato, utilizzando le stesse scadenze previste dalla risoluzione di Bruxelles, in particolare la scadenza della revisione di determinate misure dopo sei mesi, nonché altre occasioni e scadenze, soprattutto quella della annuale trattativa di marzo sui prezzi agricoli, che va trasformata in un ben più ampio ed impegnativo negoziato sulla politica agricola nel suo complesso, partendo da proposte già elaborate in Italia dai partiti, dal Parlamento e dal Governo, per le modifiche da realizzare sia nell’immediato, sia nel medio periodo.

Si tratta, in definitiva, di muoversi in modo conseguente per una trasformazione della Comunità – a cui ci auguriamo possa contribuire anche quell’importante, primo elemento di democratizzazione che è costituito dall’elezione diretta del Parlamento europeo – che punti all’affermarsi di un nuovo modo di guardare allo sviluppo dell’economia europea, non concependo più – siamo d’accordo su questo punto fondamentale con il collega Spinelli – questo sviluppo come consolidamento delle economie più forti e come ulteriore elevamento del livello di benessere nei paesi più ricchi, ma come impegno di espansione verso le regioni più arretrate della stessa Comunità e verso i paesi di quello che veniva definito terzo mondo.

Ma se ci si vuole, onorevoli calleghi, confrontare con questi che sono i problemi di fondo, i problemi delle politiche economiche, del ritmo e della qualità dello sviluppo, bisogna sbasrazzarsi di ogni residuo di europeismo retorico e di maniera dando ben altra organicità, forza e coerenza alla presenza dell’Italia nella Comunità.

Sappiamo che passa qui una linea discriminante fra diversi modi di concepire e di praticare l’impegno europeista, ma sappiamo anche che su questo punto esistono posizioni convergenti fra diversi partiti; in primo luogo, come hanno dimostrato le vicende di queste settimime e questo dibattito, tra il partito comunista ed il partito socialista, ma non salo tra essi.

Nella nostra visione – desidero ribadirlo – tutela degli interessi nazionali e impegno per il rilancio dell’integrazione europea fanno tutt’uno.

Nessuno di noi ha commentato il vertice di Bruxelles ponendo i problemi come li ha posti il primo ministro Callaghan ai Comuni, senza essere per questo accusato di golpismo.

“La semplice verità” – ha dichiarato Callaghan – “è che noi a Bruxelles abbiamo valutato i nostri interessi nazionali esattamente come altri paesi hanno valutato i loro”.

Noi non poniamo i problemi in questi termini, proprio perché siamo convinti che l’interesse ,del nostro paese, e specificamente l’interesse del nostro Mezzogiorno, coincida con la causa di uno sviluppo della Comunità su base di maggior coordinamento e integrazione delle politiche economiche e in direzione delle regioni più arretrate. Ma quella che non possiamo accettare è una posizione di rinunci a battersi per la trasformazione della Comunità e ‘dei suoi indirizzi, di sfiducia radicale nel ruolo ,del nostro paese e di utilizzazione strumentale dei nostri impegni comunitari a fini interni, quali che siano.

Da parte di alcuni esponenti del partito repubblicano si è giunti a sostenere che << l’Italia non dovesse scegliere in questi giorni se appartenere o meno ad un meccanismo valutario o ad un’area di stabilità dei cambi, ma se recidere >> – dico recidere – << o meno i suoi legami con i paesi dell’Europa occidentale, sul terreno economico e sul terreno politico.

Ma questa è una tesi che non trova alcun riscontro obiettivo, che non poggia su atcun argomemto razionale e si colloca, invece, nel quadro di una drammatizzazione gratuita ed esasperata della scelta che era davanti al nostro paese.

Si è giunti anche a dire che, d’altra parte, noi saremmo nell’imbarazzo, perché l’europeismo dei comunisti deve ancora tradursi in atti pratici.

Ma atti pratici, coatributi pratici sul terreno europeistico ne abbiamo dati assai più di altri, in dieci anni di lavoro altamente qualificato nel Parlamento europeo, che qualunque osservatore obiettivo ha riconosciuto ed apprezzato.

Al di là di ciò già un mese fa non è mancata in qualche discorso da me personalmente ascoltato l’affermazione che il nostro paese non fosse in grado di porre alcuna condizione e che la sola speranza di salvare l’Italia da sviluppi catastrofici della crisi attuale fosse il vincolo esterno di un rigoroso meccanlsmo di cambio.

Chi sostiente questo fa un grave torto a tutte le forze democratiche italiane dimenticando prove come quella dell’autunno 1976, quando, di fronte ad una drammatica caduta della lira i partiti dell’attuale maggioranza, i partiti democratici, con la collaborazione delle forze sociali, con la collaborazione del movimento sindacale, seppero assumere impegni severi, che valsero ad evitare il peggio e permisero di conseguire quei risultati, per quanto parziali, su cui oggi possiamo fare affidamento per fronteggiare le difficoltà che ci stanno davanti.

Noi non attenuiamo minimamente – ella lo sa, onorevole Ugo La Malfa, ma io tengo a ribadirlo – il nostro giudizio sulla persistente e per certi aspetti crescente gravità degli squilibri di fondo che minano lo sviluppo economico e sociale del nostro paese. Noi non ci nascondiamo l’acutezza di problemi come quelli della produttività, del costo del lavoro, della competitività.

Concordo con le considerazioni che sono state svolte a questo proposito da altri colleghi. Non può reggere a lungo – è questa la nostra persuasione – una << via italiana >> alla competitività, basata su una svalutazione strisciante, su un alto tasso di inflazione, sull’economia sommersa e sul lavoro nero.

E – voglio aggiungere – non ci nascondiamo le difficoltà che incontra lo sforzo per trovare consensi nelle parti sociali attorno a comportamenti coerenti con le esigenze del rilancio degli investimenti, di sviluppo del Mezzogiorno e dell’occupazione e, insieme, di lotta all’inflazione.

Ma queste difficoltà non vengono solo dall’interno del movimento sindacale e lì, comunque, siamo noi che con più chiarezza e coraggio reagiamo a posizioni che consideriamo sbagliate. La si smetta, però, onorevoli colleghi, di guardare da una parte sola, senza vedere le responsabilità che altre forze si stanno assumendo (parlo di forze imprenditoriali) con i loro atteggiamenti negativi nei confronti di ogni prospettiva di programmazione e nei confronti proprio delle più qualificate proposte del movimento sindacale.

Comunque, proprio per rispondere a queste  difficoltà fu concepito il << docunento Pandolfi>>  e si assunse l’impegno del piano triennale il cui obbiettivo – non si dimentichi – deve essere la riduzione graduale del tasso di inflazione ma, insieme, il rilancio degli investimenti e della occupazione, in un contesto di rinnovata solidarietà europea.

E’ sul piano triennale che si deve realizzare il necessario severo confronto fra tutte le parti investite di responsabilità nella vita politica, economica e sociale.

Ma in quale rapporto con questo impegno così importante andava posta la questione dell’ingresso immediato o meno dell’Italia nel sistema monetario europeo ?

Condividiamo l’opinione che è stata espressa, secondo cui il confronto sul piano triennale previsto per le prossime settimane andava assunto come la necessaria preparazione ad una entrata credibile dell’Italia nel nuovo sistema, piuttosto che come insostenibile conseguenza di una entrata prematura.

Se oggi, comunque, tra i fautori dell’ingresso immediato circolasse il calcolo di far leva su gravi difficoltà che possono derivare dalla disciplina del nuovo meccanismo di cambio europeo per porre la sinistra ed il movimento operaio – eludendo la difficile strada della ricerca del consenso – dinanzi ad una sostanziale distorsione della linea ispiratrice del programma concordato tra le forze dell’attuale maggioranza, dinanzi alla proposta di una politica di deflazione e di rigore a senso unico, diciamo subito che si tratta di un calcolo irresponsabile e velleitario, non meno di quelli che hanno spinto determinate componenti della democrazia cristiana a premere per l’ingresso immediato dell’Italia nello SME in funzione di meschine manovre anticomuniste, destinate a sgonfiarsi rapidamente ma non senza aver prodotto il danno di una irresponsabile mescolanza tra fatti di corrente e di partito e scelte altamente impegnative, sul piano internazionale e sul piano interno, per il nostro paese.

Noi attendiamo, onorevoli colleghi, le risposte del Governo – dando già ora ed essendo pronti a dare il nostro contributo costruttivo – sui problemi aperti acutamente e posti con forza dal movimento sindacale per Napoli, la Calabria ed il Mezzogiorno, problemi ormai non più prorogabili, sui temi di una politica di seria lotta all’inflazione ed alla disoccupazione sui contenuti e gli strumenti del piano triennale per la finanza pubblica e per la economia che dovrà essere presentato entro il 31 dicembre.

Anche in questo momento difficile, che vede una divisione non certo irrilevante in seno alla maggioranza, il nostro obbiettivo, la nostra scelta non è una crisi di Governo, ma il superamento delle debolezze e delle ambiguità che hanno finora caratterizzato l’azione di Governo, il rilancio della solidarietà tra i partiti della maggioranza per superare l’emergenza, per risanare l’economia italiana rinnovandola nelle sue strutture, per risanare la finanza pubblica attraverso una pratica di effettivo rigore in tutte le direzioni e garantendo una effettiva giustizia – dalla quale si continua a restare molto lontani – nella ripartizione dei sacrifici.

Dicevo all’inizio, onorevole Andreotti, che condividiamo oggi un dibattito difficile; ma nella vita di un’ampia maggioranza come quella che oggi sorregge il Governo vi sono momenti in cui si impongono la chiarezza delle rispettive posizioni e la distinzione delle responsabilità.

Questa distinzione, onorevole Presidente del Consiglio, noi non l’abbiamo ricercata. Ella ha ritenuto di dover compiere una scelta, che consideriamo rischiosa e da cui dissentiamo, e di doversi assumere una responsabilità che non ci sentiamo di condividere.

Ci auguriamo che le prossime scadenze vedano una seria ripresa dell’impegno comune dei partiti dell’attuale maggioranza a fare uscire il paese dalla crisi.

Ci guida comunque la serena coscienza di aver operato lealmente nell’interesse dell’Italia e dell’Europa

(Vivi applausi dell’estrema sinistra – congratulazioni).

Fonte: http://www.camera.it/_dati/leg07/lavori/stenografici/sed0383/sed0383.pdf