C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina.
Si vede da come è entrato in ufficio, da come ha centrato l’attaccapanni con la giacca e da come mi ha salutato unendo pollice e indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè.
Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso e non può fare a meno di sorridere.
Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca dell’ingessatura, “…come un’altalena”; non riconosco quella calligrafia.
Mi ha sorpresa a sbirciare ed ecco i miei occhi cadere consapevolmente nei suoi.
“E’ vero”, sottolineo.
“Lo so”, risponde, compiaciuto.
Sta per grandinare. Siamo ancora a giovedì e io non faccio altro che pensare alla domenica passata e a quella che verrà, cercando di capire se le mie mani invecchieranno nelle sue.
Torno a sedermi, lontana dai respiri insoddisfatti degli altri; quasi tutti sono intenti a guardare fuori, dalle finestre, il vento che scuote quei Liquidambar altissimi e porta l’unica risposta sensata alle preghiere di chi ama seppure stia sbagliando: tutto cambia.
Come è giusto che sia, la grandine inizia a picchiare sul vetro alle mie spalle; il tic-tac è un sonnifero, poi una sveglia. Tic-tac, tic-tac, tic-tac, e richiamo alla mente quelle due ore di quattro giorni fa, splendide in un luogo squallido.
Settemila lire all’ora, per la riservatezza che una stanza spoglia in zona Fuorigrotta può dare.
Prima di entrare mi ero ripromessa di non cedere —non esiste cervello tra le carni delle bestie innamorate— poi ho ceduto. La luce soffusa è stata complice del suo profumo. Non riesco a dimenticare la parete fredda sulla schiena, le sue dita brave sotto il cotone, quella lingua di brace. E ho proteso le braccia, con le mani sul suo sedere me lo sono spinto contro; in quell’attimo è stato mio, solo mio. I nostri corpi impazziti, ballerini, si sono respirati addosso e lasciati andare al richiamo delle pulsioni. Le sue labbra bollenti sul collo, mentre ero la preda consenziente, mi hanno fatto aprire occhi e gambe; “ti voglio”.
La verità è che sono sempre stata troppo brava a mentirmi, perché una donna sola può creare castelli dal nulla, come può farli diventare latrine.
Mi ha portato le mutandine alle ginocchia, tirandole coi denti, mentre la sua barba precisa sfiorava la pelle; infine è risalito arricciandomi la gonna del tailleur alla vita e la sua lingua mi è impazzita dentro, poi fuori e ancora dentro, come fosse una moltitudine di pistilli ebbri di passione.
In quel momento avrei voluto essere muta —se la mente è vergine il corpo tace— invece ho strillato, beata. Mi sono amata.
Ero felice. Tremavo. Tremo, ma sto bene; chiunque lo nota!
“Ti senti bene?”
“Sì, sì certo, scusami, …Schiani?”
“Schiano, Schiano! Alberto Schiano. C’è una cessione del fabbricato, te la lascio qui. Sicura di stare bene?”
“Grazie Schiani, sto bene, …sto bene”
Sembra quasi che ogni vita altrui debba essere collegata alla mia; mi chiedo se sia possibile farli sparire in un pentolone e mescolarli sino a farli diventare un unico, insignificante, individuo da poter ignorare. Invece sono qui, sono troppi, avvoltoi che bramano lacrime, a cercare quel lembo d’infinito che possa riempire la loro stupida e abitudinaria vita: sono cravatte, cravatte strette e poi allentate, spioventi da quei colli senza testa.
I chicchi di ghiaccio sono fermi, morti, poi scivolano sul cristallo mentre altri finalmente li rimpiazzano; “forse siamo tutti immobili e deceduti, oppure ruzzoliamo lenti in qualche sacca nascosta di un qualsiasi viandante, vivi ma impotenti”. Tutto cambia e tutto resta certo.
Le mie dita non riescono a stare ferme, il nervosismo impera, i miei occhi lo cercano sempre e lo trovano distratto o altrimenti attento a tutt’altro.
Sono una poco di buono, una guasta-famiglie, una pazza, oppure un pesce d’acquario illuso; le sue parole, però, mi hanno sempre viziata:
“Troverò una soluzione, fidati di me. Mia moglie ha un altro, lo sospetto, prima o poi chiederò il divorzio”
“Io non ce la faccio più a stare così, non ho un punto di riferimento!”
“Sono io il tuo punto di riferimento. Cristo santo! ma li vedi i miei occhi? ti sembra che stia fingendo?”
“Io ti amo! lo vuoi capire? Non posso pensare che sono solo un ripiego, uno sfogo, oppure la tua distrazione dalla famiglia! Tu, tu sei instabile; sei il mio divertimento come la mia paura, un complesso d’insicurezza che mi esplode nel petto ogni volta che te ne vai, poi sei la cassaforte chiusa bene dove ripongo il mio cuore, quando ci sei. Non so definirti, non so più come definirti, sul serio…“
Poi si è rotto il braccio, chissà dove e come; eppure un mio conoscente giurerebbe di saperlo: sulle scale all’uscita di un Motel, ma non in zona Fuorigrotta.
Ha smesso di grandinare, finalmente.
Tra poco dividerò anche questo caffè, senza zucchero, facendo l’ennesimo giro di parole, sorretta dalle stesse catene fragili, attorno all’uomo che mi fa vivere, mi uccide, poi mi fa volare sussurrandomi che soffrirò, come su una giostra innocente.
Lui, …come un’altalena.
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(Autore: Limite.Esente)