Molly, che non ha imparato a (soprav)vivere

   È morta suicida l’8 marzo scorso, alla vigilia del suo quarantesimo compleanno, la poetessa americana Molly Brodak. Al suo esordio si era guadagnata il consenso della critica grazie alla maturità e precisione del linguaggio della raccolta poetica A Little Middle of the Night che le valse l’Iowa Poetry Prize. Assecondando la propria natura, Molly continuò a scrivere per passione e per bisogno, quel bisogno che nasce dalla volontà di dare una qualche identità a ciò che si cela oltre l’apparenza; sulle spalle il dolore che le veniva dall’appartenere a una famiglia complicata, su tutti il padre, rapinatore di banche e mentitore seriale. A onor del vero va detto che anche la vita di Joseph Brodak era stata tutt’altro che lineare: traumatizzato dalla famiglia d’origine, incontra la madre di Molly quando ha già una moglie e una bambina; divorzia e si risposa creando un nuovo ménage famigliare costellato da continui litigi che Molly ricorda così: “Restavo in silenzio, ero buona, furba, leggevo e giocavo da sola, collezionavo sassi, disegnavo. E volevo diventare anche meno di questo, niente“.

   Certe vite vengono segnate troppo presto dal disincanto, quel disincanto che ha conseguenze perturbanti e talvolta fatali come nel caso di Molly. A differenza dell’Oriente, dove il suicidio ha valenza estetica, nel mondo occidentale esso continua a conservare sfumature romantiche e, forse perché figlia di questa sensibilità, non riesco a non provare empatia per vite spezzate volontariamente, per anime geneticamente disposte a soccombere.

Dal memoir di Molly Brodack:

When I was seven, I stole a book. It was just a pamphlet of baby names but, as kids sometimes do, I wanted it so I took it. My father Joseph realised what I’d done and furiously marched me back to the shop to return it and apologise to the owner. It was ironic, given that a few years later he started robbing banks.

Dad carried out 11 robberies in the summer of 1994, after losing his job in a car factory. He’d walk into a bank and slide a handwritten note across the counter: “This is a robbery, give me all the bills in your drawer.”

When the police eventually caught up with him, he was sitting in a bar, drinking a beer and eating a sandwich. I was 13 and my sister Boo was 15, and his crimes were a complete surprise to us. We didn’t know he’d lost his job, so didn’t question where his money was coming from.

My mum Nora had divorced him in 1989. She suspected something but never confronted him as she didn’t want to get involved.

My sister had to identify Dad for the FBI – she had chosen to live with him, whereas I lived with our mum. Looking at blurry CCTV footage, Boo recognised him because he was wearing her University of Michigan hat. It seems Dad was always in disguise. For one robbery he wore braces and a  false moustache, which earned him the nickname “the Mario Brothers bandit”.

Boo wanted to go to every court appearance, but Dad’s trial dragged on and eventually Mum said she’d had enough, so we read about it in the paper. In late 1995, he was sentenced to 10 years in prison. I was angry with him, but also relieved.

Dad didn’t even keep much money as he was a compulsive gambler – that was what had led to him robbing banks. But the courts made him pay back what he’d stolen – about $53,000.

When he was arrested, some of my childhood memories of Dad’s strange behaviour and the tension between him and Mum made more sense. Once, when I was six, I found a bag in his wardrobe with a gun in it.

I’d never seen a real weapon before and thought it was a toy, but I can still remember how heavy it was. I don’t know why he had it, but after the robberies, I wondered if that was the gun he’d used.

I chose not to visit Dad in prison – I got on with my life and went to college.He was released after serving seven years, and Boo and I went to see him at his brother’s house. Dad was in the kitchen, laughing with a beer as if nothing had happened. My sister hugged him, but I was wary, certain he’d soon be back to his old habits.

Sure enough, in 2010, Dad was sentenced to 10 years in prison for robbing three more banks. It wasn’t a surprise, but it was still disappointing.

For a while, I worried I had his addictive genes and even found myself experimenting with shoplifting. I never got caught but it didn’t give me a buzz, so I stopped. I tried gambling, too, but didn’t get a thrill from that either. Thankfully, I realised that my father’s ways weren’t hereditary.

I found a bag in his wardrobe with a gun in it. I’d never seen a real weapon before and thought it was a toy.

I used to worry that I’d never be able to trust men, but that’s not the case as I’ve been with my boyfriend Blake ever since we met at a poetry reading five years ago. I can’t wait to marry him next spring.

In spite of everything, I still love my father, even though he’s made it very difficult. When he gets out of jail in the next couple of years, he’ll be in his 70s, and I imagine too old to return to his criminal ways.

At least, that’s what I’m hoping“.

Molly, che non ha imparato a (soprav)vivereultima modifica: 2020-04-01T09:46:49+02:00da VIOLA_DIMARZO

10 pensieri riguardo “Molly, che non ha imparato a (soprav)vivere”

  1. La descrizione asciutta delle vicende familiari farebbe pensare ad una persona che non avrebbe mai mollato, avendo trovato un senso comunque del proprio esistere. Ma personalità così malinconiche e chirurgiche sul punto sono permeate da un senso di ineluttabilità dove il ”giving up’ può essere questione di un solo attimo,essendo la premeditazione già compiuta da tempo. Toccante.

  2. “appartenere a una famiglia complicata, su tutti il padre, rapinatore di banche e mentitore seriale. A onor del vero va detto che anche la vita di Joseph Brodak era stata tutt’altro che lineare: traumatizzato dalla famiglia d’origine, incontra la madre di Molly quando ha già una moglie e una bambina; divorzia e si risposa creando un nuovo ménage famigliare costellato da continui litigi”

    Io non lo so se i tuoi post hanno una sequenza random o sono uno conseguenza dell’altro. Se mi dici “random” ti rispondo però che non è così perché hanno quasi sempre un fil rouge che li collega. Giorni fa parlavamo della nostra incapacità a pensare ad un mondo diverso. Poi, con “un altro mondo è possibile” qualcuno aveva preso coscienza e qui mi riallaccio a quello che ho virgolettato, che la piramide della società va rivista per mettere al suo vertice i bambini ovvero non l’oggi ma il domani e, una volta su tutte, qualcuno ha capito che il tanto leccato concetto di famiglia è la puttanata che va a fare la guerra al concetto di comunità perché i mali che si vivono/subiscono in famiglia li pagano sempre i figli e la famiglia diventa, in termini protettivi e culturali, un conflitto sociale.
    Del resto, il concetto di famiglia è un retaggio religioso e, quindi, tribale che quando non funziona (e funziona sempre meno) non sono certo gli assistenti sociali o le case famiglia a risolverli. Ripensare ad una società diversa è tassativo visto che è proprio la famiglia il primo luogo di eventuali disagi.

  3. I miei post non hanno un fil rouge, quando è presente è opera del caso. Quello che però non ho capito è se, con questo post, sono venuta meno alla speranza di un mondo diverso/migliore o se mi stai semplicemente dicendo che ho ripreso contatto con la realtà.

  4. Con questo post sottolinei la necessità di un mondo diverso/migliore e mostri, attraverso il fatto, una realtà che restando immutata si oppone, invece, a quella necessità di cambiamento.

  5. Purtroppo i tempi d’attesa per quel cambiamento saranno lunghi… a meno che, e dio non voglia, non ci piombino addosso virus peggiori del covid-19

  6. Pensare ad un cambiamento delle società attuali presuppone una catastrofe, ed ancora non ci sono garanzie di una rinascita su regole nuove Ma la possibilità di un vivere diverso esiste già e tutto sommato non è così irraggiungibile . Richiede però di allontanarsi anche fisicamente dal contesto presente ed abbracciare un ‘piccolo mondo’ con le sue regole ed organizzazione simil-tribali .Un ritorno più vicino alle origini delle società evolute che non chiede necessariamente di abortirle in toto

  7. Dal momento che né io né te potremo mai raggiungere quelle comunità simil-tribali, auguro a quelle genti di fare in tempo a piantare un bel cartello che a caratteri cubitali dica: “Solo autoctoni”. Se invece intendevi la creazione di piccole comunità ex-novo, allora è un altro discorso.

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