“Un professore che stimavo molto – gli attribuivo grande autorità – mi chiamò una mattina in disparte e mi chiese con i toni accattivanti dell’adulto comprensivo:
“Perché ti comporti così, com’è che non studi più, che cosa vuoi fare della tua vita?”. Risposi, solo perché mi incalzava:
“Voglio scrivere”.
“Scrivere cosa?”.
“Racconti”.
Mi guardò in un modo che mi è rimasto impresso per sempre, come se gli avessi mancato di rispetto: “Racconti? E con quale faccia tu, a tredici anni, mi vieni a dire: non studio perché voglio scrivere racconti? Spiegami: con quale faccia”.
Non gli spiegai niente, feci invece una cosa molto stupida: mi misi a piangere.
Sono passati parecchi decenni da allora. Questa storiella è sbiadita, non ricordo granché di quell’uomo, e in verità nemmeno le parole esatte che mi disse, a parte la certezza che usò proprio quell’espressione: con quale faccia. Era un bravo insegnante, ci parlava di poesia con una passione che mi stordiva. Leggeva spesso versi d’amore e durante la lettura sudava, forse per un eccesso di partecipazione. Quando mi misi a piangere si turbò, seppellì rapidamente il tono di indignata irrisione sotto i balbettii concilianti, e in seguito non accennò mai più, nemmeno per prendermi in giro, alla confidenza che gli avevo fatto. Restai con la mia ferita”.
Questo è l’incipit di un testo di Elena Ferrante, scritto in occasione del Sunday Times Award for Literary Excellence, assegnatole quest’anno e vinto in passato da Margaret Atwood e altre “eccellenze”. Fa specie che una delle scrittrici più importanti della scena contemporanea rifugga la notorietà, e non credo sia ascrivibile al fatto che “siamo organismi mutevoli e il viso è la nostra componente più instabile” (parole sue); direi piuttosto che il suo essere schiva sia una dichiarazione d’amore per la scrittura, più forte d’ogni anelito alla vanità da plebiscito.
booooo
“booooo”, come svelarsi in un monosillabo.