La fine dell’amore

La fine dell'amore. Amare e scopare nel XXI secolo : Tenenbaum, Tamara, Bile, Alberto: Amazon.it: Libri

Cercare di far chiarezza nelle dinamiche sottese a un rapporto di coppia è impresa ardua; Tamara Tenenbaum ci prova nel suo La fine dell’amore, affrontando il tema da diverse angolazioni. Il focus, però, sono le donne contemporanee, inquadrate in questi termini:

Nel ventunesimo secolo le nostre ambizioni amorose sono intrepide. Non ci basta sposarci con una brava persona, uno che porti il pane a tavola, né basta una relazione che da fuori appare corretta e dal di dentro ci fa sentire miserabili. Vogliamo legami egualitari e onesti, e siamo ansiose di capire cosa significhi. E poi vogliamo innamorarci, vogliamo scopare e vogliamo essere amate, vogliamo stabilità e vogliamo adrenalina, il salvagente e e le onde, tutto allo stesso tempo. Ma si può avere tutto questo? O è una ricetta per la frustrazione?“.

C’è poi un risvolto che attiene esclusivamente alla sfera sessuale della donna, e che per Tenenbaum si gioca su due sillabe, “sì” e “no”, con la prima a fare la parte del leone, in quanto la donna risente ancora di certi retaggi che la spingono a compiacere il partner anche quando desidererebbe ben altro.

La fine dell’amore è il classico libro da tenere sul comodino. Perché alzi la mano chi può dire di capirci davvero qualcosa sul sesso e sull’amore.

I cani del nulla

I cani del nulla - Emanuele Trevi - Recensione libro

Le 156 pagine de I cani del nulla hanno come perno Gina, “avanzo di canile municipale”, con le orecchie enormi e le zampe troppo lunghe. Tutt’intorno Emanuele Trevi, ironico, poetico e malinconico nel descrivere non solo la vita di Gina, ma anche la sua e quella della moglie. Ci si perde in questo libro, in senso buono.

Gina ha guardato la porta chiudersi. Si è prodotta in una scenetta di saluto, seduta in mezzo all’ingresso, scodinzolando rasoterra, allungando il muso, strizzando gli occhi. Vuole esprimere, con questa pantomima, acuta nostalgia per i suoi cari, così acuta e pura da farsi sentire prima ancora della loro assenza. È da pensare che in quel momento – ma non ne sono sicuro – Gina creda in sé stessa, nella sua capacità di commuoversi e commuovere. Sarò buona, sarò onesta, sarò degna di un maniero inglese, sembra dire, e dicendolo ci crede. E infallibilmente ci crediamo anche io e mia moglie. Diretti al cinema, o a cena fuori, col cuore leggero: come gente normale, ben radicata nel proprio mondo, nelle prime ore della sera.

Escogitiamo saluti teneri, rassicuranti, a effetto prolungato. Forgiamo su due piedi soprannomi, adatti alla delicata solennità del distacco. È un apice emotivo, una prova di nervi.

– Ciao, chicca, stai buona, – dice mia moglie.

– Ciao, cipolla, divertiti, – aggiungo io.

Lei allunga il muso, sull’attenti, e strizza gli occhi, come se volesse mettere in scena, lì per lì, una riuscita imitazione di un animale molto miope, e ci guarda fino a che la porta, descritto il suo arco, si chiude e ci esclude.

Ciao, chicca. Ciao, cipolla.

Sii buona. Sii chicca, sii cipolla.

Esisti buonamente.

Probabilmente Gina è ancora sincera, qualche minuto dopo. O almeno, non vuole uscire troppo presto da quel ruolo così intonato al suo carattere. Sa di avere tempo, sa che quando usciamo, di sera, non è per poco. Inoltre, aggiungo io, che la conosco bene, Gina sa pure che, in quei primi minuti di solitudine, conviene comunque non muoversi molto. Spesso, in quel breve lasso di tempo, ci capita di tornare sui nostri passi. Ad arraffare il portafoglio, le chiavi della macchina, una sciarpa. Farà bene, in tal caso, a lasciarsi trovare ancora lì, immersa nella sua inguaribile tristezza di animaletto abbandonato in un grande appartamento pieno di ombre. Non è ancora il momento di muoversi. Bisogna avere pazienza, bisogna che i due fessi siano chiusi in un cinema, imbottigliati nel traffico, immersi nella conversazione in un remoto appartamento di amici, per agire.

Perché l’animaletto triste sulla soglia si trasformi in una presenza malefica, infantilmente crudele, odiosa a sé prima ancora che agli altri, non è dato sapere. Il Dottor Gina e Mister Hyde, dico io, tra me e me. Lo sdoppiarsi della personalità, abbiamo constatato fin dai primi giorni di forzata coabitazione, produce in lei un terribile malessere. La troviamo, al ritorno a casa, in condizioni pietose – e difficilmente descrivibili. Acquattata vicino alla porta, o sotto un tavolo, rinuncia all’uso delle zampe, in tale circostanza, limitandosi (è una cosa da vedere) a strisciare nella nostra direzione, sottoponendo il suo corpo a una specie di ondulazione motoria da lombrico appena emerso dalla terra. Come ad accentuare l’aspetto verminoso, tiene gli occhi chiusi, desiderando in qualche modo annullare, o almeno mettere tra parentesi, le tristi evidenze della realtà circostante. Sacchi della spazzatura smembrati. Avanzi di rapine in cucina. Inspiegabili atti di sabotaggio: pile di libri e sedie rovesciate, panni sparsi sul pavimento, vasi di piante svuotati della terra.

Così, nel fango della vergogna, e nell’incarnazione contrita di questo ruolo da verme, si concludono molte serate di Gina la Triste, spiacevolissimo – a sé e al prossimo – tra gli animali”.

Emanuele Trevi, I cani del nulla

Qui un estratto

Il razzismo spiegato agli europei

Reni Eddo Lodge - Alchetron, The Free Social Encyclopedia

Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche è un saggio-manifesto che fa il punto su questioni quali privilegio bianco e razzismo strutturale; l’ha scritto la 32enne giornalista britannica di origini nigeriane Reni Eddo-Lodge, basandosi su esperienze vissute sulla propria pelle, una per tutte l’interiezione con i bianchi che minimizzano o negano la discriminazione cui sono soggette le persone non razzializzate. Nel libro la scrittrice si sofferma sui concetti di diversity e inclusione, e in un’intervista ha squarciato il velo d’ipocrisia dietro dietro cui si celano media e grandi aziende. Testuale:

I posti di comando continuano a essere occupati da persone bianche che, quindi, si impegnano su certi temi non perché ci credono, ma perché conviene alla loro immagine. Questo è un problema, perché se oggi la causa da sposare è questa, tra cinque anni potrebbe essere un’altra. E noi non possiamo dipendere da questa volubilità. Occorre un ricambio: si può parlare quanto si vuole di diversity, ma se l’identità razziale e le priorità di chi decide non mutano, non si andrà da nessuna parte. Devo essere sincera: non ho fiducia nei bianchi che siedono nei posti di potere. Sono più interessata all’autodeterminazione, alla possibilità di stabilire i termini della discussione“.

Dunque, stando alla disanima di Eddo-Lodge, le discriminazioni sistemiche sono una realtà ben radicata nelle società europee, Italia inclusa, con buona pace di quella minoranza che, almeno in teoria, propugna il “siamo tutti uguali” – più cool se reso con l’inglese color-blindness – che tuttavia non sempre è un valore aggiunto giacché, non comprendendo fino in fondo, seppure in buona fede, le tematiche dei neri, si rischia di incappare in una visione idealizzata del mondo.

Dalla prefazione del libro:

“Il 22 febbraio 2014 ho pubblicato un post sul mio blog. L’ho intitolato Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche. Diceva:

 

Ho smesso di affrontare l’argomento “razza” con le persone bianche. Non con tutte, solo con la stragrande maggioranza che rifiuta di ammettere l’esistenza del razzismo strutturale e dei suoi sintomi. Non posso più affrontare l’abisso di dissociazione emotiva che si spalanca sui loro volti quando una persona di colore – di qualsiasi colore – racconta la sua esperienza. Vedo i bianchi chiudere gli occhi, lo sguardo farsi duro, freddo. È come se nelle loro orecchie venisse versata melassa, ostruendone i canali uditivi. È come se non riuscissero più a sentirci.

Questa dissociazione emotiva è il risultato di una vita vissuta senza avere consapevolezza che il colore della loro pelle è la norma e ogni altro una deviazione. Nella migliore delle ipotesi, le persone bianche sono state educate a non dire che quelle di colore sono “diverse” – caso mai questa parola rischi di offenderci. Sono davvero convinte che l’esperienza del loro vissuto, conseguenza dell’avere la pelle bianca, possa e debba essere universale. E io non riesco più a sostenere il loro sconcerto, il loro mettersi sulla difensiva, mentre tentano di scendere a patti col fatto che non tutti sperimentano il mondo esattamente come loro. Non hanno mai dovuto riflettere su ciò che significhi, in termini di potere, essere bianchi, e ogni volta che qualcuno glielo ricorda, anche solo in maniera vaga, lo prendono come un insulto. Sgranano gli occhi per l’indignazione o lo sguardo gli si vela di noia. Iniziano a contrarre la bocca in modalità di difesa. Strepitano tentando di interromperti, smaniosi di farti cambiare idea ma senza ascoltarti davvero, perché hanno bisogno di convincerti che ti sbagli, hai capito male.

Ancora oggi, il percorso verso la comprensione del razzismo strutturale richiede alle persone di colore di dare priorità ai sentimenti dei bianchi. Ma anche se possono sentirti, le persone bianche non ti ascoltano. È come se, nel momento in cui le parole ci escono di bocca per arrivare alle loro orecchie, succedesse qualcosa. Le parole cozzano contro un muro di negazione, senza riuscire ad andare oltre. È la dissociazione emotiva”.