Volo in spider rossa sorpassa tutti (purtroppo)

Fabio Volo: «Sono sopravvissuto a me stesso. Il mio più grande successo? Aver pagato i debiti di papà»- Corriere.it

Autore di best seller, nonché attore dalle dubbie capacità, questa settimana è (gia!) in vetta alla classifiche dei libri più venduti: ottima operazione prenatalizia per Fabio Volo e il suo Una vita nuova. Del resto essere nazionalpopolare, in una terra di non lettori come l’Italia, paga. Sono anni che mi resta l’amaro in bocca, e benché mi venga ripetuto che tanti scrittori meritevoli sono caduti nell’oblio e che altri hanno ottenuto a stento il riconoscimento che pure meritavano, io non mi rassegno, e nel mio piccolo continuo con l’accanita condanna di ogni culto della mediocrità.

Dall’incipit:

Mio padre l’ho amato da subito, era il mio gigante buono.

Un giorno da bambino gli ho chiesto di volare per me, mi ha risposto che non sapeva farlo. Ero convinto che si sbagliasse.

Nella vita poi ha preferito camminare lento, forse era il passo più adatto al suo sguardo triste, ai suoi occhi buoni, ai suoi silenzi.

Era fatto di silenzi che non sono mai riuscito a interpretare, mio padre era le cose che non diceva.

Mi sono chiesto più volte cosa non si fosse perdonato. Si è tenuto tutto dentro, il dolore, la vita, le parole che volevo sentire. La cosa di lui che ho amato di più è la dolcezza che teneva nascosta: quando sorrideva si squarciava il cielo, come un arcobaleno dopo la pioggia, e subito arrivava il pudore“.

Fabio Volo

Non sono riuscita ad andare oltre…

Elena Ferrante, la scrittrice senza volto

“Un professore che stimavo molto – gli attribuivo grande autorità – mi chiamò una mattina in disparte e mi chiese con i toni accattivanti dell’adulto comprensivo:

“Perché ti comporti così, com’è che non studi più, che cosa vuoi fare della tua vita?”. Risposi, solo perché mi incalzava:

“Voglio scrivere”.

“Scrivere cosa?”.

“Racconti”.

Mi guardò in un modo che mi è rimasto impresso per sempre, come se gli avessi mancato di rispetto: “Racconti? E con quale faccia tu, a tredici anni, mi vieni a dire: non studio perché voglio scrivere racconti? Spiegami: con quale faccia”.

Non gli spiegai niente, feci invece una cosa molto stupida: mi misi a piangere.

Sono passati parecchi decenni da allora. Questa storiella è sbiadita, non ricordo granché di quell’uomo, e in verità nemmeno le parole esatte che mi disse, a parte la certezza che usò proprio quell’espressione: con quale faccia. Era un bravo insegnante, ci parlava di poesia con una passione che mi stordiva. Leggeva spesso versi d’amore e durante la lettura sudava, forse per un eccesso di partecipazione. Quando mi misi a piangere si turbò, seppellì rapidamente il tono di indignata irrisione sotto i balbettii concilianti, e in seguito non accennò mai più, nemmeno per prendermi in giro, alla confidenza che gli avevo fatto. Restai con la mia ferita”.

Questo è l’incipit di un testo di Elena Ferrante, scritto in occasione del Sunday Times Award for Literary Excellence, assegnatole quest’anno e vinto in passato da Margaret Atwood e altre “eccellenze”. Fa specie che una delle scrittrici più importanti della scena contemporanea rifugga la notorietà, e non credo sia ascrivibile al fatto che “siamo organismi mutevoli e il viso è la nostra componente più instabile” (parole sue); direi piuttosto che il suo essere schiva sia una dichiarazione d’amore per la scrittura, più forte d’ogni anelito alla vanità da plebiscito.

Pia Pera e la meraviglia delle piccole cose

Al giardino ancora non l'ho detto”: l'amore per la Natura in un libro di Pia Pera - Envi.info

Torna in una nuova edizione il libro di Pia Pera L’orto di un perdigiorno, questa volta introdotto da Emanuele Trevi che con Due vite, dedicato all’amicizia con la narratrice e Rocco Carbone, ha vinto il Premio Strega. Alcuni stralci dell’introduzione in oggetto:

[…]

“Considero L’orto di un perdigiorno, pubblicato nel 2003 a quarantasette anni, un vero e proprio nuovo esordio. Ma devo subito aggiungere a questa impressione un’osservazione a mio parere decisiva: anche nell’ultima – la più luminosa – stagione della sua vita, Pia rimase quello che era sempre stata, una scrittrice, e la sua lingua rimase quella della letteratura. Questo non equivale a dire che scriveva bene: ci mancherebbe, ma non è l’essenziale. Scrivere bene è relativamente facile; si può scrivere bene una legge, una dieta, un messaggio di WhatsApp, e ovviamente anche un libro sul proprio orto. La lingua letteraria è tutta un’altra cosa. La si può iniziare a definire in negativo: è un linguaggio che non può essere divorato dal suo argomento. Ovviamente ha pure lei un argomento, che nel caso di Pia è il suo orto, ma quello che conta è una specie di perpetuo slittamento. Il visibile allude all’invisibile, il dicibile è il codice cifrato dell’indicibile”.

[…]

“Dal punto di vista poetico, la metafora che sostiene questo libro è di quelle antiche, di ottima lega: l’atto della coltivazione e quello della scrittura possiedono analogie talmente sorprendenti che, senza nemmeno bisogno di esplicitarle, parlare dell’uno e parlare dell’altro è un po’ la stessa cosa. Il rettangolo dell’orto e quello della pagina bianca, omologhi nella forma, sono il luogo di un investimento, o meglio di una proiezione di contenuti psichici che possono maturare in maniera del tutto inaspettata”.

[…]

Complice un azzeccato andamento diaristico (che presuppone una totale ignoranza di ciò che sta per accadere) la scrittura del libro è lo specchio fedele di quella che evidentemente è una specie di scrittura dell’orto. Non manca una serie di fenomeni, anche negativi, che sono comuni all’esperienza dello scrittore e del coltivatore: le direzioni sbagliate, i troppo facili entusiasmi, i cattivi risultati che si ottengono copiando quello che fanno gli altri, ovvero trascurare di mantenersi fedeli al proprio stile. Tutto questo, per inciso, distanzia sotto ogni aspetto il libro dal genere del manuale, che per sua natura esclude tutto ciò che non è efficace per il conseguimento di un risultato. Ma non a caso, qui si parla dell’orto di un perdigiorno“.

[…]

Si può aggiungere che Pia, ai tempi in cui scrisse L’orto di un perdigiorno, si era avviata verso il periodo – ahimè troppo breve – della sua piena auto-realizzazione. Ciò significa che aveva trovato la strada per realizzare il compito più arduo che tocca in sorte a noi viventi, che non consiste nella cura di un orto o di un giardino o nella scrittura di un libro, ma nel sottrarsi alla tirannia dell’Io, che certo non può essere distrutto, ma almeno scalzato quanto più possibile dal centro. È per questo che, in una delle pagine finali, paragona l’orto a un mandala tibetano, simbolo del “divenire perpetuo della natura”, o della “ruota in cui danza Shiva”. Bellissima immagine: ma per essere veritiera bisogna arrivare a sognare, come fa Pia in questa pagina, che l’orto un giorno si coltiverà, per così dire, da solo, in un “meraviglioso ciclo di nascita crescita raccolto”, che non ha più bisogno delle mani amorose che hanno avviato il ciclo. È un sogno impossibile, ma per questa scrittrice romantica l’impossibile è una stella polare. Ma perché questo sogno sia credibile oltre che impossibile, bisogna che non ci sia più nessuno al centro della ruota: né noi, e nemmeno Shiva. È solo un centro vuoto che potrà dirsi realmente, pienamente fecondo”.

Emanuele Trevi

Paradiso in terra, paradiso terrestre. Non ricordo più dove, Kafka ha scritto che ci sarebbe da chiedersi non perché l’uomo abbia perduto il paradiso terrestre, ma perché non faccia nulla per tornarci. A lui, cittadino di Praga, forse è sfuggito che chiunque torni alla campagna, chiunque voglia per sé un giardino, è spinto da questo desiderio, di un ritorno all’Eden“.

Pia Pera, L’orto di un perdigiorno