Il coronavirus ha immalinconito i miei amici

  “Da tre settimane o poco più i miei amici hanno cambiato pelle, si sono immalinconiti. Che provino a essere ciarlieri o tacciano, sono in tutto simili a una scarpa frusta, a una cesta di biancheria sporca; da loro mi sarei aspettata un’incazzatura, avrei capito lo sconforto ma la malinconia, dissimile dalla mia che hanno sempre stigmatizzato come uno stato di alterigia o al più di intrepida ombrosità, proprio no. Uno ha confessato di sentirsi, ora, più vicino alla mia natura. Non è così. La sua è malinconia che nasce dalla prostrazione, la mia è sostanzialmente questa:

  “Anche se ha radici antiche e implicazioni religiose, oltre a un’inseparabile dimensione clinica, la malinconia è soprattutto una categoria, un modo di essere, una poesia del Moderno, che nasce segnato dalla consapevolezza di un peccato originale, di una perdita indefinibile – non di Dio – ma forse della “vita vera”, o meglio  del sentimento di poterla attingere. […]

   La malinconia non è solo depressione psichica o tristezza tortuosa e morbosamente accarezzata. La fugacità e l’imperfezione della nostra vita ne fanno una corda fondamentale dell’animo […]. Nessuna vita e nessuna poesia della vita possono ignorare la malinconia, la caducità del tempo che passa, ciò che sempre manca in ogni felicità e in ogni amore anche felice, il corrompersi delle cose e dei sentimenti anche più puri, il disincanto, l’incessante alterarsi e svanire. L’amore, ha scritto Charles-Louis Philippe, è tutto ciò che non si ha; questa mancanza può essere vissuta non necessariamente con voluttà masochista, ma con un senso forte – classico, antico – dell’inevitabile scompenso che c’è fra il cuore e il mondo […]. Non c’è incanto senza consapevolezza e non c’è consapevolezza senza malinconia. Un secolo fa un cultore di fisiognomica, descrivendo la bellissima bocca di Cléo de Mérode, grande attrice e grande amante, notava che, col passare degli anni, intorno a quella bocca si era disegnata come un’ombra di malinconia. Forse, così, era ancora più bella”.

da un articolo di Claudio Magris

In foto Cléo de Mérode