Il dono della malinconia

Già prima della pandemia da Covid-19 e prima che le divisioni politiche guadagnassero il centro della scena, circa il 30% degli americani soffriva o aveva sofferto nel corso della vita di ansia, circa il 20% di depressione maggiore, e più di 15 milioni di persone avevano assunto antidepressivi negli ultimi 5 anni. Eppure i  nostri rituali culturali celebrano solo la nascita e non ne abbiamo neanche uno che ci aiuti a convivere con la precarietà della vita e con il dolore. Noi non onoriamo i morti come fanno i messicani nel Dia de los Muertos. Non capovolgiamo il bicchiere la sera come fanno i monaci tibetani per ricordarsi che il mattino dopo potrebbero non esserci più […] Perfino le nostre cartoline di condoglianze tendono a negare il diritto alla tristezza…sono colorate e piene di asserzioni, positive come ‘L’amore non muore mai’ e ‘I ricordi saranno di conforto’“.

Susan Cain, Il dono della malinconia

Per quanto riguarda l’Italia, dagli anni della Milano da bere in poi, fatta eccezione per la tristissima parentesi da Covid-19, l’arte, la moda, la musica hanno teso a privilegiare narrazioni incentrate sulla felicità e sul think positive, di fatto condannando alla solitudine e al silenzio i malinconici, per natura incapaci di provare una gioia totalizzante anche quando sono presenti tutti quegli elementi che il fruitore sano ascriverebbe a uno stato di beatitudine. Se dovessi descrivere la mia malinconia, la direi una sorta di madeleine neppure assaggiata e, se fosse un film, sarebbe The Whale che, nonostante la drammaticità dei toni, fa di tutto per non strapparti una lacrima. Proprio come la malinconia, che s’accompagna al sorriso e mai al pianto.

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Il coronavirus ha immalinconito i miei amici

  “Da tre settimane o poco più i miei amici hanno cambiato pelle, si sono immalinconiti. Che provino a essere ciarlieri o tacciano, sono in tutto simili a una scarpa frusta, a una cesta di biancheria sporca; da loro mi sarei aspettata un’incazzatura, avrei capito lo sconforto ma la malinconia, dissimile dalla mia che hanno sempre stigmatizzato come uno stato di alterigia o al più di intrepida ombrosità, proprio no. Uno ha confessato di sentirsi, ora, più vicino alla mia natura. Non è così. La sua è malinconia che nasce dalla prostrazione, la mia è sostanzialmente questa:

  “Anche se ha radici antiche e implicazioni religiose, oltre a un’inseparabile dimensione clinica, la malinconia è soprattutto una categoria, un modo di essere, una poesia del Moderno, che nasce segnato dalla consapevolezza di un peccato originale, di una perdita indefinibile – non di Dio – ma forse della “vita vera”, o meglio  del sentimento di poterla attingere. […]

   La malinconia non è solo depressione psichica o tristezza tortuosa e morbosamente accarezzata. La fugacità e l’imperfezione della nostra vita ne fanno una corda fondamentale dell’animo […]. Nessuna vita e nessuna poesia della vita possono ignorare la malinconia, la caducità del tempo che passa, ciò che sempre manca in ogni felicità e in ogni amore anche felice, il corrompersi delle cose e dei sentimenti anche più puri, il disincanto, l’incessante alterarsi e svanire. L’amore, ha scritto Charles-Louis Philippe, è tutto ciò che non si ha; questa mancanza può essere vissuta non necessariamente con voluttà masochista, ma con un senso forte – classico, antico – dell’inevitabile scompenso che c’è fra il cuore e il mondo […]. Non c’è incanto senza consapevolezza e non c’è consapevolezza senza malinconia. Un secolo fa un cultore di fisiognomica, descrivendo la bellissima bocca di Cléo de Mérode, grande attrice e grande amante, notava che, col passare degli anni, intorno a quella bocca si era disegnata come un’ombra di malinconia. Forse, così, era ancora più bella”.

da un articolo di Claudio Magris

In foto Cléo de Mérode