“L’uomo senza inverno” di Luigi La Rosa

“Gustave Caillebotte vi si avvicinò, riconoscendolo come si farebbe con un destino.”

Gustave Caillebotte è poco più che un ragazzino quando si ritrova davanti al dipinto di Manet, Le déjeuner sur l’herbe. Un quadro incompreso, beffeggiato, ma che per lui è quasi una rivelazione. Le sensazioni provate davanti al colore, al soggetto, alle atmosfere del quadro gli parlano di una realtà e di un talento che forse la sua epoca non è pronta a capire. Ed è sempre molto giovane quando sente il bisogno di riprodurre su un foglio ciò che i suoi occhi e la sua mente vedono, anche se vorrebbe fosse un segreto. Le aspettative della famiglia Caillebotte non contemplavano, infatti, quella di vedere il maggiore dei loro tre figli trafficare con pennarelli e tele come uno di quegli artisti che popolavano i café parigini. Cosa può, però, l’uomo davanti a un destino e un talento già tracciato?

La narrazione de “L’uomo senza inverno” di Luigi La Rosa“, è scandita dalle quattro stagioni che segnano, in maniera figurativa, i momenti salienti della vita dell’uomo e dell’artista.

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Gustave Caillebotte, Autoritratto (Olio su tela, 1892)

Così nella primavera e nell’estate troviamo Gustave giovanissimo, un ragazzino che scopre il canto delle sirene fatto di colori e tavolozze. Un nuovo mondo, una nuova percezione della vita attraverso le prime pennellate che si scontrano con le rigide aspettative della sua famiglia. Un arco temporale scandito dalla scoperta della pittura e dalle palpitazioni legate alla scoperta di sé, del suo corpo e della sua anima. Una primavera che vede l’uomo lasciare dietro di sé le spoglie dell’adolescente e far sbocciare, lentamente, i petali del pittore, attraverso un mondo che vortica intorno ad artisti il cui nome oggi ci fa emozionare: l’amicizia con Monet, Renoir, i battibecchi con Degas, i consigli di Manet. Tanti nomi illustri, tanti universi che fecero della Parigi dell’epoca il prato fertile dove l’arte si impose con nuovi schemi.

Ogni scena è una pennellata che La Rosa regala ai suoi lettori: ci sono i toni chiari e soffusi dell’infanzia, le tinte fosche delle dure scelte di vita e i colori accesi della passione per la pittura. Un quadro di sensazioni che fanno a gara con quelle dei colori delle tele di Caillebotte, una cornice per una vita trascorsa a omaggiare l’arte della pittura, fra i contrasti e le incomprensioni.

“Gridare che l’arte non era affatto una passione ma l’unico mestiere che da qualche tempo sognava di svolgere non sarebbe giovato a granché. Gustave sapeva che suo padre non avrebbe capito.”

Un uomo a tratti solo, nonostante l’affetto per i fratelli, la voglia di non deludere il padre, nonostante l’amore spesso riposto nelle persone sbagliate. Importante sarà nella sua vita la figura di Anne/Charlotte, una donna che verrà identificata di volta in volta come la sua amante, la sua concubina, come un’arrampicatrice, come un donnaccia, ma che forse conobbe come pochi i segreti di un uomo che aveva un’anima complessa che la sua epoca non poteva comprendere.

Caillebotte è un pittore che lotta per trovare la propria dimensione, per far si che la sua arte non sia solo la copia di quella in circolazione. Il suo nome, nell’autunno che l’autore delinea nel suo romanzo, viene associato a quella degli Impressionisti, termine coniato con disprezzo ma che noi associato a un’ampia corolla di capolavori che l’arte ha prodotto. Eppure Caillebotte non sembra esserne l’esponente principale. I suoi quadri sembrano a tratti delle vere fotografie, dai colori accesi, dai temi apparentemente simili a quelli riprodotti dai pittori suoi colleghi. Fu sicuramente il mecenate di un gruppo di artisti che non erano stati compresi e l’aiuto finanziario di Gustave fu l’ancora di salvezza per molti di loro.

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“Les raboteurs de parquet” (olio su tela, 1875)

Fra le sue opere sicuramente la più identificativa è quella intitolata “I piallatori di parquet” dove l’artista ritrae, con una luce e una forza vibrante, i lavoratori alle prese con la rifinitura dei assi di legno. La potenza e il gioco delle luci in questo quadro lascia senza parole. È una novità, un respiro nuovo in una panoramica di lavori che non osano tanto. Nel libro si assiste, quando Gustave vede per la prima volta gli operai a lavoro, all’incontro di un uomo, non solo quindi l’artista, con qualcosa che non può governare:

“Aprì la porta oltre la quale gli uomini lavoravano senza prevedere che quella visione lo avrebbe cambiato. La aprì con delicatezza, con innocenza, e colmo di un segreto stordimento, perché è così che si va incontro all’amore. Sempre. Solo che lui non poteva ancora saperlo”

La lettura del romanzo mi ha travolta, incatenandomi alla storia con una potente presa sull’anima. L’autore riesce con il suo stile curato, mai fronzoloso, a farti calare nelle atmosfere parigine dove impari a conoscere Gustave ragazzino, dove assisti alla crescita dell’artista e dove, infine, accompagni il pittore sulla soglia di un inverno che non vivrà mai. Suggestivo, infatti, il titolo, che allude alla giovane età, forse più per noi che per l’epoca,  in cui Caillebotte muore, lasciando l’arte, e i suoi protetti, orfani di in genio troppo poco conosciuto.

E ciò che resta a fine lettura è un’emozione che si arrampica sul cuore e la voglia di conoscere ancora di più questo personaggio forse troppo in fretta messo da parte. Ma nessuno muore davvero solo perché non esiste più sulla Terra.
Per conoscere un’artista bisogna conoscere le sue opere. Gustave Caillebotte è ancora lì, fra le pennellate di quei quadri che gli sono sopravvissuti.