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Ascari: I Leoni d' Eritrea. Coraggio, Fedeltà, Onore. Tributo al Valore degli Ascari Eritrei.

 

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L'Ascaro del cimitero d'Asmara.

Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe.
Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo......

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Storia. RIASSUNTO ANNI 1935-36

Post n°154 pubblicato il 11 Settembre 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

RIASSUNTO ANNI 1935-36

(Oggi diremmo che sono di parte; ma questo leggevano gli italiani; non dimentichiamolo)
(Noi qui cerchiamo solo di capire)

* LA POLITICA COLONIALE DAL 1878
FINO ALLA CONQUISTA DI ADUA (giugno 1935)
(una lunghissima storia)
(PRIMA PARTE)

* NAZIONE-GOVERNO - POLITICA COLONIALE dal 1878 FINO ALLA CONQUISTA DI ADUA (agosto 1935)
(seconda parte)
* RAPPORTO DEI "13" DEL 6 OTT. 1935 della S. d. N.: L'ITALIA "HA AGGREDITO!" - SANZIONI! !
(gli articoli sopra in neretto seguono nelle successive pagine)
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« L'Italia riassume tutta la sua arte di Stato nel motto inertia, sapientia ; proclama ai quattro venti grandi e virili propositi, e si ritrae per pochezza d'animo quando altri la prende sul serio e le stende la mano invitandola a tradurre le parole in azioni ; protesta, ingrossa la voce, ma senza volontà di operare, e compendia, in ultimo, la sua politica nel ripetere a sazietà, come spiegazione della sua eterna rassegnazione, che essa é e vuole essere un elemento di pace e d'ordine ; costretta, per tutto conforto ai suoi insuccessi, di compiacersi delle parole complimentose dirette all'On. Mancini, per cortesia tecnica, dalla diplomazia ufficiale o dai giornali esteri ufficiosi. Ma il nostro amor proprio nazionale - avvertì - patisce di tutto questo ; e siamo scontenti e abbiamo ragione di esserlo e tutti sanno che saremmo stolti a non esserlo ; sanno che quelle frasi di eterno disinteresse sono retorica e nulla più, retorica che mira a nascondere la inettitudine nostra sotto una parvenza di generosità di sentimento e a trovare acerba l'uva cui non abbiamo potuto stendere la mano. E poiché, non meno che gli individui, le Nazioni scontente di sé ed offese nel loro amor proprio sono pericolose per i vicini, ciascuno di questi diffida di noi e delle nostre intenzioni, e, non riuscendo a scorgere nettamente quale sia la méta che abbiamo prefissa ai nostri desideri, alle nostre ambizioni, e, quindi, alla nostra politica, sospetta che cospiriamo a danno di lui, che aspettiamo i momenti difficili per fargli il ricatto col ferro alla gola, e non crede alla nostra amicizia e fa voti per il nostro sempre maggiore indebolimento come garanzia di sicurezza per sé".
« È tempo - proclamò - é tempo di por fine a questa assurda maniera della politica dei Regno d'Italia : a questa politica inavveduta, e, soprattutto, inconseguente perché vanagloriosa e pusillanime ; che non é politica di raccoglimento ma di verbosa impotenza, che si crede operosa perché é faccendiera, che ha per solo ideale di fare la parte di mezzano tra i terzi, non accorgendosi che le mediazioni, per essere efficaci ed utili e dignitose, debbono essere condotte da un mediatore di forza almeno eguale a quella delle parti che si vogliono accordare».

L'on. Mancini, che al Senato l'anno prima si era rallegrato dell'esistenza di un patto, dovuto alla sua iniziativa, intercorso tra le varie Potenze e per il quale ciascuno Stato interessato si impegnava a non intraprendere in Egitto alcuna azione militare isolata senza il consenso e l'adesione degli altri ; il Mancini, dunque, che pur si era compiaciuto di codesto accordo sebbene l'Inghilterra l'avesse fin da principio svalutato accettandolo con riserve che lo distruggevano nella sua intima essenza, nei vari discorsi coi quali rispose al fuoco di fila dei critici che erano, in ultima analisi, gli ingegni più colti della assemblea nazionale, dichiarò che il rifiuto provvisorio - e insistette su questo aggettivo - alle offerte dell'Inghilterra si era inspirato non, come aveva lasciato supporre il Marselli, a difficoltà di indole militare ma a un insieme di ragioni radunabili in quattro gruppi : d'ordine politico, di eventualità internazionali, di ordine finanziario e di calcoli sul tornaconto degli sperabili compensi. E, agitando segnatamente lo spettro di un ripristino della tassa sul macinato e del ritorno del corso forzoso ai quali, a suo parere, sarebbe stato indispensabile fare appello per fronteggiare le spese dell'intervento, delineò la inanità di tanti sacrifici, visto che l'Italia, intervenuta, non avrebbe potuto mai - senza venir meno alle premesse ideali della sua risurrezione - chiedere annessioni, protettorati, occupazioni in terra egiziana.

Il Minghetti, in due discorsi pronunciati, l'uno prima del discorso del Mancini, e l'altro in replica ed a rettifica del discorso di quegli, confutò specificatamente gli argomenti addotti come capaci di sconsigliare un intervento italiano nella questione egiziana e, pur non negando, egli pure, la opportunità di subordinare sempre la politica della Nazione ai concetti che erano stati basilari per il Risorgimento, seppe porre a nudo la corrispondenza di consimili premesse con il caso specifico, osservando che nessuna comparazione era possibile fra la rivolta del 1881 in Egitto e la rivendicazione nazionale di altri popoli : una cosa - notò - é il popolo egiziano e altra cosa sono gli arabi e i turchi : arabi e turchi sono dei conquistatori che si sono sovrapposti alle razze dei vinti ; non v'ha luogo a questioni di natura nazionale : non si tratta che « di rivalità e di fanatismo ».
E precisò : «...l'aver invocato una così nobile idea come quella della nazionalità in sussidio di una cattiva causa, prova che, purtroppo, sentiamo ancora nel pensiero una parte di quelle idee astratte e generali che il secolo passato vagheggò sì ardentemente e ci tramandò in legato : idee astratte e generali che non sono ali a salire ma pesi che ci legano e che sono un impedimento allo svolgimento del programma liberale. Tali sono quelle dell'uomo naturale e perfetto, dell'onnipotenza delle istituzioni, dell'autonomia di ogni tribù, dei diritti politici ed imprescindibili di ogni uomo, e via dicendo. La scienza moderna é sperimentale, e, nella politica, l'esperienza é lo studio della storia ».

« Non é meraviglia - disse il Bonghi parlando della crisi di Oriente - che essendo così vuota la mente del Governo, sia parsa così confusa la coscienza del Paese ; é reciproco il legame tra la debolezza dei reggitori e il disinteressamento incurante del pubblico: l'una cosa é causa dell'altra e viceversa : se un Paese non pensa, é difficile che nel governo si trovino uomini capaci di pensare in sua vece ; e, se, dall'altra parte, in un paese intellettualmente vivace non arrivino al governo uomini capaci di scegliere una delle direzioni nelle quali lo spirito di quello suol essere diviso e darle un efficacia rapida, é impossibile che si crei una opinione pubblica davvero potente ed atta a reggere la politica di uno Stato in una via diretta »
(RUGGERO BONGHI : Il Congresso di Berlino e la crisi d'Oriente.. Milano Treves, 1878, pag. 183)

La stampa quotidiana fu di analogo parere e, se pur concesse più di quanto sarebbe stato desiderabile alle mire ed alle esigenze di Partito, scorse, tuttavia, distintamente gli errori compiuti e i pericoli da evitare.
La Perseveranza, che interpretava notoriamente il pensiero dell'On. Visconti Venosta, in un articolo nel quale venivano parafrasati i concetti svolti dall'On. Sonnino e riportati qui sopra, fece una diagnosi degli abbagli che, per più di tre lustri, avevano distratto gli occhi dei vari Gabinetti di Sinistra dalla contemplazione serena degli interessi della Patria ; « Noi - rilevò - ci siamo atteggiati a malcontenti e abbiamo detto che uscivamo umiliati dopo il Congresso di Berlino. Veramente non si sapeva da che dovesse originare codesta nostra umiliazione, poiché avrebbero dovuto esserlo altrettanto, e più di noi, la Germania e la Francia, le quali uscivano, esse pure, a mani vuote dal Congresso. Ma tant'é ; s'é voluto ad ogni costo vedere una umiliazione là dove non c'era che una conseguenza naturale della nostra condotta. Più tardi, é venuta la questione egiziana: in essa il Depretis s'é mostrato inabile, imprevidente, contraddittorio non meno del Cairoli nella questione di Tunisi. Certo che ne siamo usciti con una discreta mortificazione ma se si voleva anche qui gridare all'umiliazione, per essere nel vero bisognava aggiungere che l'umiliazione non veniva dagli altri, ma da noi... Certo che dobbiamo essere umiliati ; ma di chi é la colpa? Codesto vago sentimento che continuiamo a suscitare e a tener vivo in noi, non é atto che a tenerci in una inquieta impotenza. Ci desta nell'animo il desiderio indistinto di una condizione migliore di cose, mentre, dall'altro canto, accasciati sotto il falso sentimento di umiliazioni che non sono che nella nostra fantasia o sono opera nostra, ci togliamo il nerbo per conseguire qualsiasi intento anche legittimo. E così oscilliamo tra uno scoraggiamento punto giustificato, e una presunzione, una aspirazione a delle mete che non sono in ragione delle nostre forze.

« La molta fortuna ci ha, per questo riguardo, grandemente nociuto. Poiché gli effetti ottenuti sono stati straordinariamente maggiori degli sforzi che abbiamo fatto per conseguirli, noi abbiamo perduto ogni sano criterio della relazione tra il volere e il potere ; noi non sappiamo commisurare ai nostri mezzi le nostre ambizioni ; abbiamo gli ardori impazienti ma fugaci, non abbiamo la costanza dei propositi. Sicché ormai ci siamo fatta nel mondo una delle peggiori reputazioni che un popolo possa avere; la reputazione di un popolo tormentato da una grande e irrequieta ambizione accoppiata a una non meno grande impotenza. E per poco che perduriamo in questa via, noi diverremo agli occhi altrui un popolo di fanciulli » (La Perseveranza, 12 aprile '81).

E L'Opinione, deplorato l'isolamento pieno di deficienze in cui l'Italia si era venuta a trovare, « a chi risale - domandò - la responsabilità di questa situazione ? » E rispose : « Segnatamente ai Ministri che prepararono e condussero a fine le pratiche del Congresso di Berlino. Vi sono state parecchie occasioni propizie che non si seppero acciuffare. Qualunque grande Stato avrebbe desiderato la nostra cooperazione cordiale e ci avrebbe dato in cambio la sua ; noi, per non conprometterci con nessuno, abbiamo raffreddato tutti. E assistemmo inutili al Congresso di Berlino, dove le altre Potenze già avevano ordito i disegn del trattato memorando. Ma perché gli uomini di Stato della Sinistra commisero questo errore ? Per la loro inesperienza e per le preoccupazioni della politica interna. Turbati continuamente dal pensiero delle crisi provocate dai loro stessi partigiani, il Governo debole, vacillante, perdette il senso delle lontane previsioni e delle forti combinazioni » (L'Opinione, 17 marzo '80).

Il popolo, cioè una parte del popolo, una via la prese e la batté risoluta, e si affannò nelle piazze a vociferare guardandosi bene, però, dal domandarsi - e i reggitori, dal canto loro si guardarono bene dall'insegnarglielo - come e quanto quelle vociferazioni conferissero ad accreditare all'estero la Nazione.
Quale meraviglia che, tra i Governi incerti, abulici, legati ai partiti e alla politica interna e le frazioni demagogizzanti che presumevano di gridar contro l'Austria mentre i Ministri rompevano ogni cordialità di rapporto con la Francia e l'Inghilterra, il grosso del pubblico se ne stesse sconfortato e avvilito, disinteressandosi di tutti e sazio di tutto ?

Lasciamo stare i cabalisti che speculavano sui se e sui ma e che attendevano da un ritorno di tramontati regimi a Londra o a Parigi un trattamento un po' meno sfavorevole dei nostri interessi.
La verità attestava che non era stata sconfitta la nostra forza ma che era stata sanzionata la nostra debolezza : Congresso di Parigi, Tunisi ed Egitto non erano episodi isolati, momenti distinti, ma anelli indissoluti e indissolubili di una identica catena, effetti logici e inevitabili di una politica che raggiunse l'assurdo perché sull'assurdo pretese di edificare.
Che il conte di Cavour già nel '55, in un discorso nel quale indicò il compito mediterraneo che i governanti d'Italia avrebbero potuto attuare con un lavoro di decenni, avesse denunziato il pericolo dell'isolamento all'estero e avesse dimostrato la indispensabilità di una politica seria e coerente all'interno, per molti egregi uomini contò meno che nulla.

Fummo giocati perché credemmo di saper impunemente giocare : e cullammo, da prima, l'illusione di metter le mani, sol che lo avessimo voluto, sulla Tunisia, sulla Albania, sulla Tripolitania; sperammo, poi, di ottenere dei provvidenziali compensi per chi sa quali meriti oscuri, e, in fine, quasi sbigottiti di aver osato sogni così grandi, trepidi di farci perdonare le innocue ambizioni, ci demmo a reclamare la immobilità, lo statum quo nella Balcania, nell'Adriatico, nell'Africa e nell'Egeo, e ci avvolgemmo nei paludamenti delle frasi fatte e delle verbosità inconcludenti per rifarci una verginità che avevamo ormai irreparabilmente perduto.
Gli altri, al di là delle frontiere, ci guardavano stupiti, trovando una gioia pazza a turlupinare noi che essi giudicavano machiavellicamente disposti al tradimento, e sorridevano ammiccando fra di loro quando ci sentivano ripetere con melodrammatica insistenza gli appelli alla libertà, alla giustizia, al rispetto della indipendenza dei popoli.

I nostri reggitori, che in quel lasso di tempo si successero al potere, generalmente ingenui nell'intimo della loro anima, rimasero paralizzati nel turbinoso seguirsi delle vicende internazionali, e stimarono, spesso in buona fede, di governare la nuova Italia a loro modo, con metodi personali contraddittori.
Fu, forse, politica fatale, politica di buoni uomini che, nel diffondersi in Europa di una mentalità mercantile ed affaristica, continuarono a rimanere attaccati alle ideologie antiche nelle quali essi medesimi avevano fervidamente creduto e dalle quali era pur disceso il successo della azione italiana negli anni trascorsi ; fu, magari, politica necessaria, ma fu, in ogni maniera, politica estremamente misera nella sua fatale necessità : impotente, specie nei riguardi militari, la giudicò il Bismarck e impotente fu nelle altre attività sue dentro e fuori dei confini della Patria ; fu impotente non perché le facessero molto spesso difetto i mezzi materiali per la lotta, non perché la viziassero disorientamenti non illogici nell'irrompere della cruda e pratica politica d'oltrealpe, ma, e più, perché rappresentò il portato legittimo della impotenza morale della Nazione, della impotenza che la stampa e gli statisti della Destra deploravano ma che non davano affidamento alcuno di sapere, neppur essi, all'occorrenza, diminuire e ancor meno eliminare ; fu l'impotenza che deriva dalla dissennata sproporzione dei desideri e delle abnegazioni, della volontà di agire e della volontà di soffrire, dalla inconciliabilità della grandezza del fine e della pochezza dello sforzo, da una tendenza malsana a concepire piani arditi e smisurati escludendo rischi e pericoli.

Le preoccupazioni finanziarie prospettate dal Mancini per spiegare il rifiuto all'intervento italiano in Egitto e le riserve opposte dal Minghetti in proposito, sebbene in quantità diversa e con diversi spiriti, discoprono una affinità di timori che sono altamente pregiudizievoli quando si trovano in ballo i più gravi interessi della Patria.


L'occupazione di Massaua si intreccia con tutti gli episodi politici di questo periodo movimentato della nostra vita nazionale.
In tre mesi, sbarcati tre scaglioni di truppe, il colonnello Saletta occupa - oltre Massaua - Moncullo, Otumlo, Assab, Beilul, Arafali, non ostante le proteste egiziane e le opposizioni russe e francesi.
Estesa presto la occupazione ai territori limitrofi, il generale Gené, succeduto al Saletta nel settembre dello stesso anno, proclama sui territori la sovranità italiana.
Lasciato in vendicato il massacro della spedizione Porro nell'Harrar e occupate altre zone a sud di Massaua per impedire le razzie e i saccheggi, si hanno i primi contatti ostili con i luogotenenti del Negus che, respinti dal maggiore Boretti a Saati, distruggono il 16 gennaio dell'87, la colonna comandata dal tenente colonnello De Cristoforis a Dogali.
Leggiamo, con commosso animo, la relazione del Capitano Tanturri il quale, in quella giornata dolorosa, ricevuti due biglietti del De Cristoforis che prospettavano la gravità della situazione, presa con sé la sua compagnia con una mitragliatrice, corse in aiuto degli assaliti.
"...Poco dopo le tombe di Dogali vidi una cassa di mitraglia senza polvere e spolette, e quasi nel medesimo tempo i basci-buzuc che erano in esplorazione, segnalavano la presenza del nemico. L'interprete, interrogati due indigeni, mi disse che tutti i nostri erano stati massacrati, e che gli abissini erano ancora numerosissimi ed in posizione.
« Ciò mi sembrò esagerato, come di fatto (essendo l'interprete poco dopo fuggito pieno di paura), e proseguii la marcia. Giunto là dove la valle si allarga di un poco, gli esploratori tornarono di corsa avvisandomi che si avanzavano cavalieri abissini. Presi immediatamente posizione facendo staccare la mitragliera e formando la compagnia in quadrato. Nello stesso tempo mandai tre soldati nella direzione ove era stato segnalato il nemico. In questo mentre l'interprete e parte dei basci-buzuc scomparvero, i soldati tornarono presto dicendomi che non avevano visto altro che tre o quattro cavalieri abissini correre velocemente verso Saati.
«Per essere più sicuro, mandai il tenente Sartoro con una piccola pattuglia sulla mia destra, e questi ritornò riferendomi che non vi erano nemici, ma che aveva visto basti da cammello, un cammello morto, casse di cartucce vuote, scatolette di carne, ecc. Nello stesso tempo, feci arrestare un pastore Saortino che si trovava ivi presso nascosto.
« Questi, interrogato, alla meglio mi fece capire che gli abissini avevano attaccato i nostri, indicandomi anche la posizione da questi occupata. Immediatamente feci riattaccare la mitragliera e mi diressi a quella volta. Nessun segno, lungo il cammino, oltre quelli citati, di uno scontro ; solo cinque o sei tombe scavate di fresco indicatemi dal Saortino come quelle di abissini morti poche ore innanzi. Sul primo monticello, prima posizione occupata dai nostri, vidi un soldato ferito che mi disse trovarsi i nostri poco più su e tutti morti. Non credei alla funesta notizia e corsi con la compagnia sul sito indicatomi. Dietro la cresta del monticello superiore vidi l'immensa catastrofe. Tutti giacevano in ordine come fossero allineati ! » (A. ORIANI, Fino a Dogali. Bologna, Cappelli, 1927, pag. 353.).

Il soldato, ferito nella battaglia, attestò che il De Cristoforis, prima di morire, aveva ordinato ai pochi superstiti di presentare le armi ai caduti... Vittime o eroi ? L'uno e l'altro insieme (Cfr. F. MARTINI, Nell'Africa italiana, Milano, Treves, 1891, pag. 47).
Dopo Dogali, il Gené é richiamato e sostituito dal Saletta, promosso generale, il quale, avuti circa cinquemila uomini reclutati tra volontari - il Corpo speciale di Africa - e un paio di migliaia di irregolari, fortifica il porto e la città e costruisce una ferrovia a scartamento ridotto ad allacciare Saati e Massaua.
Verso la fine dell'87, il tenente generale San Marzano, giunto dall'Italia con una nuova spedizione, riusciti di dubbia garanzia i patti conclusi dall'Antonelli e l'intervento di Sir Portal per conto dell'Inghilterra, procedendo con prudenza e con cautela, rimasto per alcuni giorni in vana attesa di un attacco del Negus sceso a fronteggiarlo, estende il raggio dell'influenza italiana all'orlo dell'altipiano.

Ritiratosi il Negus senza combattere, di San Marzano rimpatria insieme con buona parte del corpo di spedizione, lasciando in Africa il generale Antonio Baldissera che, distratto nell'opera di riordinamento della colonia da due incidenti -- l'opposizione del viceConsole francese alla applicazione dei tributi locali, più tardi sconfessata dal Ministro On. Globet, e l'accerchiamento della colonna del capitano Cornacchia a Saganeiti per opera dell'infido capobanda Debeo - mentre a Re Giovanni, morto combattendo contro i Madhisti, succede Menelich, occupa Kerer, Ghinda e l'Asmara.

Menelich, incoronato imperatore a Gondar, sottoscrive il due maggio '89 il famoso trattato di Uccialli che, con l'articolo 17, pone l'Etiopia sotto il protettorato dell'Italia e con l'art. 3 riconosce ai nostri possedimenti i confini di Arafali, Halai, Saganeiti, Adi Nefas, Adi Johannes, con prolungamenti verso ovest di questa località ; nell'ottobre poi, per una addizionale, messa al trattato, sono ratificate a favore dell'Italia, le nuove conquiste fatte nel frattempo dal Baldissera, ma, nel dicembre dello stesso anno, a dispetto del trattato e del codicillo relativo, Menelich - senza ricorrere al tramite dell'Italia - comunica direttamente alla Francia e alla Germania la sua assunzione al trono.
Il primo gennaio successivo un regio decreto riunisce tutti i possedimenti del Mar Rosso sotto una sola amministrazione, col nome di « Colonia Eritrea».
È stato asserito che la impresa africana non fu, alle origini, se non una pedina nel giuoco iniziato da tempo per una espansione italiana al di là dei mari, ma é evidente - dopo lo sguardo dato ai casi del Congresso di Berlino, di Tunisi e dell'Egitto - che la opinione peccava, almeno, di una eccessiva benevolenza.
Non é illecito ritenere, al contrario, che, come per le azioni precedenti, anche alla nostra andata in Africa mancò una adeguata preparazione materiale e morale tanto in alto che in basso, tanto nei dirigenti che nel pubblico.

Lascio da parte la «ricognizione su Khartum » (Cfr. F. MARTINI, Op. Cit., loc. cit.) che ai capi della spedizione il Governo suggerì di tentare appena sbarcate le truppe sulla sponda eritrea : la crassa ignoranza di allora può fare benissimo il paio con la ancor più crassa ignoranza di un Presidente del Consiglio all'indomani della rotta di Caporetto, il quale, sul treno che portava gli Stati Maggiori alleati al convegno di Peschiera, al Foch che, tenendo spiegata davanti una carta topografica della regione veneta, chiedeva dove fosse il Montello su cui si era già affermata con successo la resistenza italiana, non seppe che cosa rispondere : la geografia non é stata la scienza preferita da parecchi dei più loquaci governatori d'Italia.

 
 
 
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   Agli Ascari d'Eritrea 

- Perchè viva il ricordo degli Ascari d'Eritrea caduti per l'Italia in terra d'Africa.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare alla bandiera al corpo Truppe Indigene d'Eritrea.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare al gagliardetto dei IV Battaglione Eritreo Toselli.

 

 

Mohammed Ibrahim Farag

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

Unatù Endisciau 

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

 

QUESTA è LA MIA STORIA

.... Racconterà di un tempo.... forse per pochi anni, forse per pochi mesi o pochi giorni, fosse stato anche per pochi istanti in cui noi, italiani ed eritrei, fummo fratelli. .....perchè CORAGGIO, FEDELTA' e ONORE più dei legami di sangue affratellano.....
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A DETTA DEGLI ASCARI....

...Dunque tu vuoi essere ascari, o figlio, ed io ti dico che tutto, per l'ascari, è lo Zabet, l'ufficiale.
Lo zabet inglese sa il coraggio e la giustizia, non disturba le donne e ti tratta come un cavallo.
Lo zabet turco sa il coraggio, non sa la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un somaro.
Lo zabet egiziano non sa il coraggio e neppure la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un capretto da macello.
Lo zabet italiano sa il coraggio e la giustizia, qualche volta disturba le donne e ti tratta come un uomo...."

(da Ascari K7 - Paolo Caccia Dominioni)

 
 
 
 

 
 
 
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