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Zagara&Pepe

La Metamorfosi è uno stato dell'Anima

 

 

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Scirocco

Post n°73 pubblicato il 09 Ottobre 2007 da pro_mos

Il rumore del cucchiaino che roteava nella tazza del cappuccino era sommerso dal brusio degli avventori che affollavano in quell’ora mattutina il piccolo bar, ma a pensarci bene, forse, non lo si sarebbe potuto sentire neppure nel silenzio più assoluto. Elena ruotandolo quasi con meccanica insistenza, ci stava pensando, cercava di ricordare una volta, una volta sola in cui aveva sentito distintamente quel rumore: l’acciaio che rotea sul fondo di porcellana spessa.

 

Forse era la schiuma che attutiva il raschiare oppure la levigatezza del fondo, un fondo perfettamente liscio dove nulla apparentemente, poteva incidere la scorza pur sfregando lungo quelle molecole superficiali.

 

Silenzio dentro la tazza. Solo il parlottare della clientela che cicaleggiava. Elena era attratta da quel silenzio. Si forse era la sua levigatezza. E pensò per un istante che sarebbe stato bello essere cos, levigata dentro e fuori, una parete liscia, inscalfibile, dove tutto  sarebbe  passato e scivolato via, senza rumore, senza lasciare traccia.

 

Essere un’anima di porcellana  era quello il desiderio di quel mattino, il sogno che si materializzava fra la schiuma d’un latte riscaldato di malavoglia dal ragazzo al bancone, lo stesso che  quando gli aveva chiesto un cappuccino, anzi –“”un cappuccio”-, prima di posarle gli occhi addosso come una seconda pelle aderente alla prima, sotto quel vestitino leggero, con i fiori piccini piccini, l’aveva guardata come un’aliena a chiederlo con quei 40° che soffiavano con lo scirocco fuori dal bar, anche se eran solo le 9 e 30 di un primo mattino.

 

Ma cosa contavano i 40° fuori quando dentro, nel di dentro, il freddo montava fino allo sgomento?


Ed era un freddo umido quel suo stato d’umore. Era tristezza montata a panna che le copriva il cuore.

 

Elena voleva scaldarsi, sentire quel caldo, magari sentirlo come il ragazzo dietro al bancone che di certo ne soffriva, a giudicare dalla goccia di sudore che gli rigava la tempia e che Elena cominciò a seguire con la coda dell’occhio. Scendeva quella goccia lungo lo zigomo pronunciato e poi giù giù per la guancia. Elena così intravvide le labbra carnose, sensuali, dov’era spuntato un sorriso lievemente beffardo, ironico o semplicemente orgoglioso, e  poi proprio fra quelle labbra, una punta di lingua che s’insinuava umettandole, facendole brillare un istante per poi stringersi avide risucchiando dentro a sé quell’attimo, quell’stante intravisto, quell’invito sfrontato lanciatole in faccia.

 

Cercava il caldo, caldo dentro che si sarebbe propagato poi per osmosi, molecola per molecola. Dal dentro al fuori. Caldo al cuore tanto da sciogliere, staccare, sublimare quello strato di tristezza montata a panna, quel ghiaccio, quel silenzio.

 

Fosse stata certa di trovarlo lo avrebbe cercato fra le labbra e sul corpo di quel banconista. Gli avrebbe sorriso fingendo noncuranza e poi, assecondando il fato, il destino o solo la  voglia di lui che immaginava crescente, l’avrebbe seguito ovunque fosse pure nel bagno di quel piccolo bar che immaginava lurido ma non le sarebbe importato. Nulla l’avrebbe impressionata. Non quell’ambiente sporco, non le mani di lui frettolose che le avrebbero frugato il corpo senza curarsene, con  trascurata bramosia, non la pressione che avrebbe di certo avvertito sul suo capo  o sulle sue spalle, fino a spingerla più in basso. E sarebbe scesa con il corpo e con l’animo di cristallo che avrebbe infangato sul quel pavimento melmoso di piscio, di acqua che gocciolava dai rubinetti mal lavati.

 

Lì sarebbe scesa e lì sarebbe rimasta ad assaggiare quell’umiliazione a toccare il fondo per ritrovare, immaginava, poi la redenzione.  Per succhiare e poi leccare via, con la sua stessa bocca, quella la panna dal cuore sciogliendo fra le labbra la brina che l’avvolgeva

 

 

Non sarebbe bastato, o peggio non sarebbe servito. Non avrebbe mondato il gelo che l’avvolgeva quel sacrificio. No non l’avrebbe aiutata.

 

Smise di mescolare facendo riemergere il cucchiaino colmo di schiuma dalla tazza. Lo portò alla bocca. Quella schiuma di latte densa la riportava indietro con gli anni, nei ricordi di quelli passati alle sue colazioni fatte all’alba con i cornetti caldi gustati fra le risate e gli sguardi d’intesa che si scambiano vicendevolmente gli amanti dopo una notte passata avvolti di tenerezza e di passione.

 

Le passarono così davanti in un lampo, anche gli occhi di Giorgio, quegli occhi verdi cangianti nel miele e nell’oro, a seconda della luce. Quegli occhi capaci di sguardi intensi e buoni, di sorrisi larghi come spianate in mezzo ad un deserto. A volte freddi, incostanti, lontani. Dov’erano adesso quegli occhi e quel Giorgio? Tutto sembrava così passato, così lontano.

 

Certe storie passano e basta altre invece paiono attraversarti così in profondità che anche quando credi che siano trascorse in realtà trovi sempre un angolo del tuo corpo che ancora ne trattiene un ricordo. Scorrono tumultuose e trascinano nel loro alveo pietre e rami e staccano le zolle d’erba dagli argini, nascono limpide poi con la forza del loro incedere, s’intorbidiscono si fanno melmose, avide di mangiare i limiti imposti dal loro letto invadono i campi adiacenti e succhiano la terra.

 

Così vanno le storie quando ingigantiscono oltre ogni limite, sono alluvioni che ti colgono all’improvviso e tutto inondano, investono allagano e non lasciano nulla come prima dopo il loro passaggio.

 

Com’era il sapore di quel cappuccino? Elena si scoprì a domandarselo, e prima di rispondersi si chiese il motivo di quella domanda. Una di solito si chiede il perché di una cosa se in quella cosa avverte un fondo di disturbo, un qualcosa che distoglie la sua attenzione dalla normalità che altrimenti avrebbe assorbito quell’attimo nel sottofondo del vita, se quell’attimo fosse stato normale. Accade così con ogni cosa. Una cammina e d’improvviso si scopre a domandarsi l’origine di quel dolorino, lì, proprio lì all’anca, ed esempio, o al braccio, o che ne so. Quel qualcosa che richiama la coscienza vigile su una parte del corpo che, altrimenti, sarebbe rimasta anonimamente ancorata alla persona.

 

Oppure come viaggiando in auto quando fra il rotolare delle gomme ed il ronzare del motore appare un cigolio insolito, magari appena accennato, e subito si è lì a tendere l’orecchio, ad interpretarlo come segno o presagio di qualcosa di peggio a venire. Magari una sosta inaspettata o peggio un guasto.

 

Com’era il sapore di quel cappuccino? Così ritornava a pochi istanti dalla prima volta, quella domanda. Elena l’ascoltò incerta se rispondersi o lasciarla vagare rimanendo assorta nei propri pensieri. E le dedicò quell’incertezza con cui si guarda la pallina del flipper quando imboccata la corsia laterale, resta in bilico fra due strade quella che la riporterà verso i respingenti e l’altra che la farà carambolare verso l’uscita dal gioco.

 

Rimase in bilico quella domanda. Un istante, due, forse tre, poi, lentamente ma inesorabilmente, prese la via dell’uscita dal gioco ed allora Elena sentì l’urgenza di rispondersi.

 

-“Pungente…..aspro…amaro”- così era quel cappuccino. Sgradevole alla lingua ed al palato che attendevano un soffice e caldo abbraccio dolce.

 

Allungò la mano verso la zuccheriera e quindi versò un generoso cucchiaino di zucchero dentro alla tazza.

La schiuma lo trattenne prima di farlo affondare nel liquido.

 

In quel preciso istante Elena si sentì così: sospesa.

E forse sospesa era stata tutta la sua vita, sempre in bilico fra scelte e non scelte, o forse solamente scelte opposte, diverse che l’avrebbero portata lontana, in un'altra vista forse, o in un’altra sé.

 

Chissà se davvero facendo altre scelte sarebbe cambiato solamente il percorso o se quel nuovo tratto di via in definitiva l’avrebbe cambiata in modo imprevisto? Chissà se fosse nata un’altra sé?

 

Chissà se ogni bivio, ogni scelta cambiavano solamente la vita o se invece mutava anche la persona?

 

Lo zucchero d’improvviso venne inghiottito dal liquido scuro sotto la schiuma. Sparì in un istante.

 

A quell’immagine Elena ebbe una folgorazione. Perché le cose oppure lo stato d’animo o il suo umore cambiavano così, d’improvviso. Era quello il suo modo di vedersi mutevole, anzi, cangiante. Una rosa assetata di vita a cui basta una goccia d’acqua per ritornare viva.

E fu così in quell’istante per una confusa congiunzione di immagini rubate da un sottofondo o per il mutar del vento, o perché le cose cambiano e per quanto ci sforziamo di interpretarle, loro, le cose, gli umori, hanno sempre un chè di misterioso, di magico. Son figlie delle maree, allora diciamo, o della luna che poi fa da madre a tutte le cose ed i misteri che turbinano dentro al buio.

E dentro al buio di quel liquido scuro che inghiottiva lo zucchero nascondendolo alla vista Elena colse il brillare di una verità nascosta. Sentì germogliarle dentro in un brevissimo istante il bagliore di un senso prima rimastole celato. Ecco cos’era la felicità! Era come quello zucchero. La vedi un istante e poi, mentre sei intento a rimirarla, sparisce inghiottita dal liquido nerastro delle cose. E li si confonderà, sciogliendosi, miscelandosi, a quello sfondo che se l’era presa.

 

E lo sfondo era quel paesaggio a volte melmoso altre inciso, scolpito. A volte umido altre rinsecchito. Era la scena su cui proiettava ogni suo agire quotidiano. Era la gente che la sfiorava, l’aria il vento che le scompigliava i capelli, era il respiro della notte, la rugiada umida che si era ritrovata su ciglia e capelli una mattina al risveglio in un prato. Era l’acqua fredda di un ruscello dove s’era bagnata e le aveva increspato la pelle, erano i baci immaginati, presi a volte rubati e dati. Era il confuso mescolarsi delle cose che ogni giorno l’attendevano dopo il risveglio e la lasciavano soltanto all’inizio del sonno.

 

Così a volte cambiano le cose, repentinamente, senza un perché apparente, senza un motivo logico, come in quella canzone che la cantava, si, proprio lei, l’illogica allegria.

 

E proprio lei, illogica ma allegria era lì dentro ad ogni istante di quell’attimo, di tutto il giorno, della vita intera. Disciolta  c’era tutta la felicità di un’esistenza intera, quella che ricolma il cucchiaio e poi sparisce mescolandosi ai giorni.

 

Si sentì bene, d’un tratto. Bevve d’un fiato quel cappuccio dentro la tazza. Senza respirare. Gettando ogni pensiero dietro il bancone.

 

Si diresse verso la porta, decisa a sciogliesi come quello zucchero, come la felicità, dentro i 40° di quell’afoso mattino, pensando di farsi portar via, da quel vento caldo, umido per disegnar come sabbia, percorsi nuovi, di quel suo nuovo giorno, di quella sua nuova vita.

 

 



 

 

 

 
 
 
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