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« UN NUOVO PALAVOBISMessaggio #23 »

PRIMA LE LEGGI CONTRO CASELLI ORA CONTRO MAGISTRATI ANTIMAFIA

Post n°22 pubblicato il 25 Marzo 2007 da ziggystardust10

dal corriere on line gian antonio stella ci dà questa notizia
ROMA — Proprio un bel bidone hanno preso, i magistrati mandati a far la guerra alla mafia e alla 'ndrangheta. Prima lo Stato li ha convinti a rischiar la pelle nelle zone di frontiera promettendo in cambio la precedenza nelle tappe successive della carriera, poi si è rimangiato tutto. Con una nuova leggina e infine con una sentenza del Tar del Lazio che dà ragione a 27 giudici che temevano d'essere scavalcati. Giudici quasi tutti comodamente seduti su poltrone, strapuntini e sofà ministeriali e romani.

Una figuraccia. Per capire la quale occorre fare un passo indietro, alla primavera del 1998. Siamo negli anni a ridosso delle uccisioni di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, di Paolo Borsellino e delle loro scorte. Nei tribunali siciliani sono appena stati celebrati o sono cominciati i processi per gli omicidi di altri tre giudici: Giangiacomo Ciaccio Montalto, Rosario Livatino e Antonino Saetta, assassinato col figlio Stefano. Le Procure siciliane sono al collasso: a parte i «giudici ragazzini» spediti sui fronti più caldi senza avere la statura e l'esperienza per annusare gli ambienti spesso infidi, sottrarsi alle pressioni, affrontare temi più esplosivi del tritolo, nessuno vuole andarsi a infognare in sedi pericolose e talvolta lontanissime.
Le regole sono chiare: un magistrato non può esser trasferito contro la sua volontà. Quindi il panorama è questo: in certe procure una parte dei giudici è anziana e non ha nessunissima voglia di rovinarsi il fegato o rischiare un attentato alla vigilia della pensione e un'altra fetta è troppo giovane per muoversi con la necessaria autorevolezza. Servirebbero professionisti già dotati di qualche esperienza. Ma le confessioni degli stessi Falcone e Borsellino sul senso di abbandono e di isolamento possono dissuadere anche gli animi più nobili e coraggiosi. Lo stesso accade in Calabria, lo stesso in Campania o in Puglia.
A quel punto il ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick vara un disegno di legge che, sia pure col voto contrario della Lega e qualche distinguo di Forza Italia viene approvato dalla stragrande maggioranza.
All'articolo 5, la nuova norma (n. 133 del 4 maggio 1998) dice chiaro e netto: «Se la permanenza in servizio presso la sede disagiata del magistrato trasferito supera i 5 anni il medesimo ha diritto, in caso di trasferimento a domanda, ad essere preferito a tutti gli altri aspiranti».
Accettano questo contratto con lo Stato, trasferendo la famiglia o facendosi carico di cinque anni di pendolarismo e solitudine, un centinaio di magistrati. Che vanno finalmente a rimpolpare le sedi di frontiera sotto organico. Applausi. Bene. Bravi.
Appena la legge comincia a venire applicata nella seconda parte, cioè là dove tocca allo Stato risarcire i suoi servitori, ecco però che i colleghi che si vedono scavalcati cominciano a mugugnare: sì, ma, però... Finché nel decreto «omnibus» varato a ferragosto del 2005 dal governo Berlusconi (il quale mesi prima aveva dichiarato che «il 90% dei mafiosi sono in carcere e la criminalità organizzata è sotto controllo»), spunta dal nulla una sorpresa. È l'articolo «14 sexiesdecies» che al vecchio comma aggiunge una manciata di paroline: «Se la permanenza in servizio presso la sede disagiata del magistrato trasferito supera i cinque anni il medesimo ha diritto, in caso di trasferimento a domanda , ad essere preferito a tutti gli altri aspiranti, "con esclusione di coloro che sono stati nominati uditori giudiziari in data anteriore al 9 maggio 1998"». Ma come: tutto nullo? E quelli che avevano accettato traslochi altrimenti inaccettabili in cambio dell'impegno agli incentivi? Marameo.
Una presa in giro indecorosa. Sulla quale, mentre si levavano cori di proteste e minacce di dimissioni di massa da parte dei magistrati che si sentivano truffati, interviene il Csm. Che, avendo la responsabilità degli spostamenti di questo o quel giudice, stabilisce il 29 settembre 2005 che la modifica normativa non si applica a quanti erano stati trasferiti a sedi disagiate «prima» dell'entrata in vigore della nuova leggina.
Ma è solo la penultima puntata. Contro la decisione del Csm fanno ricorso al Tar del Lazio poco meno di una trentina di magistrati che temono di vedersi superati dai colleghi «disagiati». La faccenda finisce nelle mani del presidente del tribunale, Pasquale De Lise. L'uomo giusto, ricco com'è di esperienza, per capire questo genere di rimostranze. Basti dire che nel solo 1992, l'anno di grazia della sua carriera parallela di specialista in arbitrati, «arrotondò» lo stipendio di 245 milioni di lire con quello che lui chiamava, simpaticamente, «il guadagno legittimo di qualche soldo»: 848 milioni extra. Pari a 652 mila euro di oggi.
La sentenza, nel silenzio generale, è stata infine depositata. E dà ragione ai magistrati che avevano fatto ricorso. E dove lavorano questi servitori del bene pubblico che ritengono ingiusto non avere loro pure le stesse agevolazioni di chi ha a che fare con le cosche mafiose di Palma di Montechiaro o Africo Nuovo? Tre lavorano al tribunale di Latina (quante zanzare, d'estate!), uno alla procura di Napoli, uno a Rieti, un paio a Tivoli (che fresco, la sera!) e tutti gli altri sono sparsi tra i vari palazzi del potere giudiziario e politico romano. Dodici al ministero della Giustizia, uno a quello delle Finanze, uno al Csm, un paio alla Corte Costituzionale, tra cui Luca Varrone, figlio di quel potente consigliere di Stato di lunghissimo corso, Claudio Varrone, che dopo aver avuto nel solo '92 arbitrati e incarichi extragiudiziari per 350 mila euro, fu collocato tempo fa (tra mille polemiche) ai vertici del Poligrafico dello Stato. Come piuttosto noto è il cognome anche di un'altra ricorrente, Noemi Coraggio, figlia di Giancarlo, presidente dell'Associazione Magistrati del Consiglio di Stato. Pure coincidenze, si capisce. Pure coincidenze. Ma resta una domanda. Se i magistrati bidonati urlano «andateci voi, a rischiare la pelle contro la mafia e la 'ndrangheta!», cosa può rispondere lo Stato? Sta succedendo esattamente questo, in questi giorni, a Reggio Calabria: non ci vuole andare nessuno. Troppi bidoni, grazie.

Gian Antonio Stella

ps ma le tv di regime ci dicono che è necessario diminuire le intercettazioni e che i politici sono perseguitati

forza woodcock
 

 
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