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Leviathan

Post n°13451 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 


Kolia vive in una remota località rurale nel nord della Russia, vicino al mare. In quel piccolo paese un sindaco prepotente e corrotto ha deciso di volere per sè le terre di Kolia e cerca quindi di comprarle. Ex-militare e uomo dal temperamento violento e coriaceo, Kolia non solo non accetta ma si scaglia con violenza in una causa legale per mettere in mutande il sindaco stesso. Ad aiutarlo c'è un amico, avvocato di Mosca, con lui sotto le armi e molto determinato nel fermare quest'abuso.
Viene dritta dal libro di Giobbe questa parabola umana di disperazione ma è asciugata completamente da qualsiasi forma di speranza o fiducia in Dio (e figuriamoci nella Chiesa!). I disastri nella vita del protagonista infatti si susseguono uno dopo l'altro ma non è tanto la volontà di Satana a metterlo alla prova, quanto più prosaicamente l'accanimento del sindaco cioè della forma minore di potere statale che si possa incontrare. 
Dividendo con molta cura il film in due parti, una prima iniettata di pesanti dosi di ironia contro tutti (il popolo russo, le abitudini malsane legate al bere, la propria storia politica...) e una seconda in cui prende piede sempre di più il destino di sofferenza del protagonista, Zvyagintsev riesce a costruire un mondo al limite dell'umano in cui paesaggi desolati svelano con sempre maggiore decisione la totale solitudine umana. Quelle lande che Il ritorno aveva esplorato attraverso il viaggio qui appaiono statiche, immobili, ferme e proprio per questo agghiaccianti.
Tra relitti di un'altra epoca (case distrutte, imbarcazioni sventrate...) e relitti di esseri viventi (un gigantesco scheletro di Balena che non può non far pensare al Leviatano del titolo) si muovono uomini che lentamente perdono tutto ad opera proprio di quello stato del quale dovrebbero essere parte fondante, che dovrebbe garantire le loro libertà nella visione dell'altro Leviatano, quello di Hobbes. È infatti con un certo rigore e una chiarezza espositiva che non lascia dubbi che Zvyagintsev raduna intorno ad un tavolo i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) nel momento in cui il sindaco pianifica il suo contrattacco. Didascalicamente mette lo stato nella forma più alta (c'è una geniale preponderanza nella fotografia della classica foto di Putin sul muro dell'ufficio del sindaco) a tramare, a braccetto con il potere ecclesiastico. Con equilibrismo invidiabile Leviathan riesce in questo modo a non dare mai l'impressione di accanirsi sui protagonisti ma semmai di condurli in un percorso di sofferenza imputabile ai personaggi e non al sadismo dell'autore. Nel clima desolato in cui è immersa la storia l'impressione è che quella sia l'unica possibile strada per tutti coloro i quali decidono di alzare la testa.
A chiudere la parabola c'è un finale di alto valore simbolico (specie se raffrontato a quello con cui nella Bibbia si chiudono le peripezie di Giobbe, cioè con la restituzione delle sue fortune raddoppiate) che fa piazza pulita di qualsiasi similitudine biblica e dimostra come il film abbia usato una parabola tra le più conosciute dall'uomo per svelare la mancanza di un senso superiore nelle vite individuali. La chiesa non è un conforto e in nessuno degli incredibili paesaggi che costellano tutto il film sembra di intuire una presenza superiore che regoli tutto, solo il silenzio del vento e il vuoto delle anime.

 
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