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AL CINEMA CON 2 € IL SECONDO MERCOLEDÌ DEL MESE da cinecittànews

Post n°13357 pubblicato il 01 Settembre 2016 da Ladridicinema
 
Tag: eventi, news

ssr01/09/2016
A partire da mercoledì 14 settembre, in tutti i cinema d'Italia aderenti all'iniziativa Cinema2Day il costo del biglietto offerto al pubblico sarà pari a 2 euro. Lo ha detto il ministro dei Beni e delle attività culturali, Dario Franceschini, che è intervenuto alla Mostra di Venezia, insieme ai vertici di Anica, Anec e Anem, per lanciare la nuova promozione condivisa da ministero, produttori, distributori e esercenti per portare o riportare il pubblico a vivere l’emozione della visione dei film al cinema.

Nelle oltre 3mila sale che finora hanno aderito in tutta Italia, Cinema2day sarà valida ogni secondo mercoledì del mese. Sul sito www.cinema2day.itsarà possibile trovare quali cinema aderiscono nella propria città e consultarne la programmazione, oltre a disporre dei diversi formati della campagna audiovisiva che partirà nelle sale cinematografiche, negli spazi destinati alle campagne di pubblica utilità della RAI, sulle radio e nei principali social network a partire da oggi.
L'idea dell'iniziativa nasce dal successo riscosso da quella simile lanciata per i luoghi d'arte nel 2014, "proponendo la prima domenica del mese gratuita nei musei statali",spiega Franceschini. Con il biglietto a due euro "una famiglia con due figli può andare con 8 euro al cinema, è un nuovo modo per avvicinare gli italiani a consumo culturale, che è in ripresa, dalla musica ai libri, come dimostrano i dati".

Il ministro ha inoltre ricordato che il governo sarà impegnato a breve nell’approvazione del Disegno di legge cinema che nelle prossime due settimane passerà al voto del Senato per poi tornare alla Camera, con l’obiettivo di approvarlo entro l’anno. Il disegno di legge prevede anche più risorse per le sale, in particolare 125 milioni in 3 anni per la ristrutturazione o la riapertura di sale.

Luigi Cuciniello, presidente Anec, ha sottolineato quanto sia importante istituzionalizzare la campagna di promozione cinematografica nonché avere la presenza di talents in sala che accompagnino i film.
Da segnalare che lo spot #cinema2day è stato realizzato dagli studenti del corso "Pubblicità e Cinema d'Impresa" della sede di Milano del Centro Sperimentale di Cinematografia. Maurizio Nichetti, direttore artistico della sede, li ha coordinati nella ricerca del materiale e nella finalizzazione del lavoro. La voce dello spot è dell’attore e doppiatore Francesco Pannofino.

 
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SICUREZZA E SOLIDARIETÀ: ECCO COME APRE LA MOSTRA

Post n°13356 pubblicato il 01 Settembre 2016 da Ladridicinema
 

Andrea Guglielmino31/08/2016
VENEZIA – La sicurezza al Lido, il supporto alle vittime del sisma e i nuovi lavori apportati alla cittadella del cinema sono i tre assi portanti della conferenza di apertura della 73ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. “Possiamo ora contare su 5800 posti a sedere nella sala principale – spiega il Presidente della BiennalePaolo Baratta – e il paradosso è che proprio quest’anno in cui viviamo importanti problematiche esterne noi riusciamo a realizzare buona parte dei nostri progetti, sapendo che attori e registi nutrono fiducia nel nostro lavoro. Nei prossimi anni sono in programma altri miglioramenti, che riguardano gli spazi esterni, il Piazzale davanti al Casinò, e poi vogliamo rendere fissa la passerella rossa in modo che la sala cinema si possa riconoscere anche durante il periodo invernale. All’interno del Casinò, abbiamo in programma di ottimizzare gli spazi rendendo una sala di proiezione l’attuale sala per la stampa e spostando la sala stampa nell’area adiacente, guadagnando terreno per nuove sale e luoghi di incontro. Il Palazzo è bello ma complicato, a livello di strutture e impianti e inoltre è pieno di mosaici, lampadari e pareti di pregio. Il nostro ‘incubo’ sono gli ascensori, ma piano piano con il lavoro del Comune riusciremo ad apportare modifiche significative’. 

Interrogato sulla necessaria intensificazione dei controlli di sicurezza a causa delle norme anti-terrorismo, Baratta risponde: “abbiamo cercato di limitarla all’area esterna alla cittadella. Non vogliamo certo creare traffico, in questo modo speriamo di alleggerire i movimenti nelle aree strettamente riservate al cinema. Sicuramente potrà capitare che qualcuno abbia dei problemi logistici, ma ci sono sempre delle incognite quando si parla di sicurezza e non posso fare altro che rammaricarmene”. Infine, il recente sisma che ha colpito il centro-Italia, con la conseguente decisione di annullare il tradizionale party d’apertura: “Sono gesti di aiuto volontari – commenta il Presidente – noi abbiamo devoluto una settimana di incasso della Mostra di Architettura e aperto un conto per chi vuole contribuire. Però l’importanza dei fonti raccolti per generosità individuale, che pure c’è, non va enfatizzata. Sono gocce in mezzo al mare, utili per gestire le emergenze, ma il grosso lo deve fare lo Stato con i suoi strumenti di finanza pubblica: tasse, imposte, accise, e i cittadini devono contribuire in questo senso a far fronte ai problemi emersi da tempo e a quelli che invece si sono rivelati ora, forse anche più gravi”. 

“Proprio la Lion’s Gate, società di produzione del film di apertura  - aggiunge il direttore della Mostra Alberto Barbera – ha deciso di realizzare una donazione, e il conto resta aperto fino alla fine della kermesse”. Poi prosegue sul lato ‘artistico’: “Ci sono tanti paesi al mondo e qualcuno sicuramente resta fuori. Dal Giappone per esempio non abbiamo avuto tante proposte, ma la qualità e la vitalità delle opere resta il nostro obiettivo primario”. 

Parla anche Sam Mendes, presidente della Giuria del Concorso: “Il mestiere di regista è più solitario di quello che si pensa. Sei sulla punta di una piramide e dirigi un gruppo di persone, ma con poche puoi confrontarti veramente su quello che senti e pensi. Essere in giuria è bello proprio per questo, è come tornare studente”.  

 
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Pagliacci e i giovani autori

Post n°13355 pubblicato il 01 Settembre 2016 da Ladridicinema
 

Carmen Diotaiuti01/09/2016

VENEZIA - “E se Arlecchino t’invola Colombina, ridi pagliaccio e ognun applaudirà. Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto, in una smorfia il singhiozzo e il dolor”. Sulle note della più famosa opera di Ruggero Leoncavallo, si consumano il triangolo amoroso e le tensioni familiari mal sopite di Pagliacci, il corto scritto e diretto da Marco Bellocchio e realizzato in collaborazione con gli allievi del laboratorio Fare Cinema di Bobbio, presentato come evento speciale di apertura di  SIC@SIC (Short Italian Cinema @ Settimana Internazionale della Critica). L’iniziativa della 31ma edizione della Settimana Internazionale della Critica che presenta alcuni corti di giovani autori proiettati in testa ai film della Sic. Una vetrina di   nuovi talenti, realizzata in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà: “Noi abbiamo il dovere e la volontà di promuovere i giovani talenti italiani - sottolinea Roberto Cicutto, AD Luce Cinecittà. Coltivarli fin da piccoli, sperando e aspettando di vederli crescere. Quale modo migliore che quello di aiutarli a presentarsi alla ribalta della mostra veneziana e nell’ambito delle prossime iniziative di promozione internazionale. E’ un onore poi, aggiunge Cicutto, che a battesimo di questa iniziativa ci sia un corto di un grande maestro come Bellocchio, che con altrettanta generosità si occupa, con la sua scuola, di mostrare a chi ha talento il modo di esprimerlo". 
Grazie anche alla collaborazione con Istituto Luce Cinecittà il laboratorio Fare Cinema diventerà presto una fondazione permanete per lo sviluppo dei nuovi talenti. “La presentazione del cortometraggio 'Pagliacci', alla mostra del Cinema di Venezia è uno splendido biglietto da visita per la scuola di alta formazione cinematografica che sta nascendo a Bobbio con il sostegno del Ministero dei Beni Culturali di Dario Franceschini e delle istituzioni locali", ha sottolineato il sottosegretario all'Economia Paola De Micheli, che ha seguito fin dall'inizio il progetto. "Dopo la visita del Ministro Franceschini a Bobbio  che ha lanciato ufficialmente il progetto, in questi mesi si sta lavorando per mettere a punto l'offerta formativa e i temi legati alla scuola di cinema che avrà carattere permanente e si avvarrà di un comitato scientifico di altissimo livello”. 

Nel cast di Pagliacci, che sarà distribuito da Luce Cinecittà, la raffinata interprete teatrale e cinematograficaLucia Ragni, recentemente scomparsa e a cui il corto stesso è dedicato, nei panni di una ricca signora finanziatrice di uno spettacolo tratto dall’opera I Pagliacci. Nel corso di una serata a casa sua, durante una seduta di ipnosi, vengono fuori i rancori ed i dolori dei due figli nei suoi confronti e il desiderio unito all’impossibilità da parte loro di riuscire a liberarsene.    

 
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FASSBENDER-VIKANDER, GALEOTTO FU IL FARO

Post n°13354 pubblicato il 01 Settembre 2016 da Ladridicinema
 


01/09/2016

VENEZIA - Giovanissime fans in agguato perMichael Fassbender, l'altro bello dopo Ryan Gosling (purtroppo per le suddette fans assente dal Lido) in questa edizione della Mostra che ha riportato in auge lo star watching magari nella speranza di farsi un selfie. Impossibile con l'attore tedesco-irlandese, che non vuole essere fotografato. Al Lido è apparso insieme alla compagna Alicia Vikander, coprotagonista del mèlo sentimentaleThe Light Between Oceans. Il regista è Derek Cianfrance, lo stesso di Blue Valentine, interpretato proprio da Gosling, un film che gli ha fruttato la fiducia di Steven Spielberg, produttore di questo kolossal amoroso. Ispirato a un romanzo di M.L. Stedman, pubblicato in Italia da Garzanti, The Light Between Oceans è ambientato subito dopo la fine della prima guerra mondiale. Fassbender, in versione baffuta, è Tom, un veterano devastato da quello che ha visto e compiuto sul fronte occidentale. Decide quindi di offrirsi volontario per il posto di guardiano del faro su una sperduta isola australiana a cavallo tra due oceani, che si chiama Janus proprio come Giano, il dio bifronte. Un paradiso terrestre ma anche un estremo lembo di terra battuto da tempeste violentissime (il precedente guardiano lì ha già perso la ragione). Eppure sull'isola accetta di seguirlo Isabel (Alicia Vikander), una ragazza di buona famiglia che si è innamorata di lui al primo sguardo. La coppia cerca invano di avere un figlio, finché le correnti non spingono sulla riva una barchetta alla deriva su cui si trovano un uomo ormai cadavere e una neonata, che Isabel vuole a tutti i costi adottare, facendo finta che sia sua e tacendo quindi alle autorità del ritrovamento. Ma la vera madre della piccola (Rachel Weisz) uscirà fuori al momento meno opportuno.

Mega produzione con la fotografia di Adam Arkapaw e la colonna sonora di Alexandre Desplat, il film, pur ben diretto e scorrevole, sembra mancare di profondità nella resa dei personaggi che risultano un po' meccanici e prevedibili mentre il tema dell'odio verso il nemico, un sottotesto interessante legato al primo conflitto mondiale e alla rivalità con i tedeschi, non viene esplorato fino in fondo. Ma poco importa: l'attenzione del pubblico è tutta concentrata sui due attori, che proprio durante le lunghe settimane trascorse sull'isola tra l'Australia la Nuova Zelanda - dove hanno passato anche un mese completamente da soli - si sono messi insieme davvero. "Sapevo di questo progetto, sapevo che Michael era un grande attore e volevo provare a fare questo film, ero nervosa ma volevo farlo'', dice la svedese arrivata all'Oscar per The Danish Girl. E Fassbender, tra i migliori interpreti della sua generazione con titoli come Shame, 12 anni schiavo eSteve Jobs al suo attivo, racconta: "Ero terrorizzato da Alicia, era così fiera di aver ottenuto la parte ma così affamata. Conosco quella sensazione, all'inizio della carriera l'ho provata anche io, sai di avere una grande opportunità per uscire dall'ombra e ti impegni al massimo. Mi provocava sul set, questa fame ti fa andare avanti e io dovevo essere alla sua altezza, presente almeno quanto lei''. Il film, distribuito da Eagle, uscirà in sala intorno a San Valentino, il 16 febbraio. Alicia presto la vedremo nei panni della nuova Lara Croft in Tomb Rider, mentre Michael sarà protagonista di Assassin's Creed

Fassbender parla del metodo di Cianfrance: "Derek ti spinge a superarti chiedendoti sempre di più. Credi di aver raggiunto qualcosa e lui ti fa stare un'altra mezz'ora sulla scena". Alicia si sofferma sulle gravidanze interrotte: “Isabel, che ha un fortissimo desiderio di maternità, sperimenta questi aborti spontanei. E' un argomento di cui non si parla molto ma l'esperienza è comune a molte donne, è un trauma che in tante devono affrontare". E prosegue: "Non sono madre, ma penso di volere un bambino in futuro. Credo sia uno dei misteri più grandi quello della maternità. Immagino sempre di avere una famiglia un giorno". 

Il cuore del film, secondo i due attori, è la necessità del perdono, che domina la seconda parte della vicenda, molto cupa. "Il peso di una decisione sbagliata ha un effetto dirompente - spiega Fassbender - e così la storia diventa una battaglia per la verità. Tom è infinitamente morale, sa cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ho amato moltissimo questo personaggio, mi sembrava un uomo del passato forte, leale, coraggioso e allo stesso tempo generoso, capace di fare scelte forti per amore pur sapendo che sono sbagliate attirato dalla vitalità della sua donna che lo aveva fatto rinascere dopo la guerra. Per questo The Light Between Oceanspiù che una storia d'amore è un film sulla vita, sul perdonare e saper guardare avanti. Attraverso il personaggio di Isabel riscopriamo una volta di più una delle cose più stupefacenti dell'essere umano ossia la sua positività nonostante quello che ci capita". E c'è anche, secondo lui, un riferimento lontano allo scenario attuale delle migrazioni: “Oggi vediamo tanti migranti morire in mare e vediamo le persone reagire con pregiudizio nei confronti di chi riesce ad arrivare". 

 
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Muccino, il mio esame di maturità

Post n°13353 pubblicato il 01 Settembre 2016 da Ladridicinema
 

CON L’ESTATE ADDOSSO, PRODUZIONE LOW BUDGET, IN SALA CON 01 DAL 15 SETTEMBRE, IL REGISTA TORNA A VENEZIA DOVE LA SUA CARRIERA HA MOSSO I PRIMI PASSI NELLA MOSTRA DEL 1999 CON COME TE NESSUNO MAI

 

Gabriele Muccino lascia Los Angeles “dove l’industria dell’entertainment è cinica e volatile dai tempi di Buster Keaton” e torna al Lido di Venezia - sezione Cinema nel Giardino - dove la sua carriera ha mosso i primi passi nella Mostra del 1999 con Come te nessuno mai. E alle atmosfere, alla storia di formazione di quel film, che parlava di giovani liceali, torna con L’estate addosso, film low budget, meno di quattro milioni di euro, in sala con 01 dal 15 settembre, ispirato all’estate della sua maturità, segnata da un viaggio negli Stati Uniti.
L’estate addosso è quella che si porta dentro alla fine e che un po’ rimpiangerà per sempre il neodiplomato e progressista Marco (Brando Pacitto, volto della serie tv Braccialetti rossi). Di fronte alla prospettiva di un agosto desolato e senza amici nella torrida Roma si ritrova grazie a un imprevisto assegno a volare a San Francisco. Sullo stesso aereo e con la stessa destinazione viaggia anche Maria (Matilda Lutz, già interprete de L'Universale), una ragazza bigotta e conservatrice, che Marco detesta. Colpa o merito di un amico comune che indirizza entrambi nella casa di due ragazzi americani, Matt (Taylor Frey) e Paul (Joseph Haro). E’ allora che inizia l’estate imprevista e indimenticabile dei due 18enni che si confrontano da subito con la coppia omosessuale che li ospita. Dopo le iniziali diffidenze i quattro giovani diventano sempre più amici e intraprendono un viaggio a Cuba che li aiuterà a fare i conti con se stessi, a capire chi sono e saranno nella vita. Marco si ritroverà a studiare veterinaria a Roma, con il pensiero di tanto in tanto rivolto a quell’antipatica e distante Maria iscritta all’università di legge a Londra.

Con L’estate addosso torna alla Mostra di Venezia e alle atmosfere dei suoi primi film.
Ho già vissuto la Mostra prima come studente e sognatore cinefilo, poi come autore con Come nessuno mai. In questo film parlavo di 15/16enni esuberanti, convinti di avere la verità in tasca e che il mondo fosse quello da loro percepito. L’ultimo bacio è invece un film su un’altra età, quella in cui si diventa genitori senza volerlo e adulti senza un punto di ritorno. Ne L’estate addosso traghetto l’esperienza di quei personaggi e i quattro giovani protagonisti stanno a metà strada di queste due età, alla ricerca della loro identità. Matt e Paul, i giovani americani la stanno costruendo con il loro rapporto di coppia; Maria è in apparenza convinta di quella che ha; Marco è lontanissimo da sapere quello che vuole. Decisivi sono il viaggio e l’incontro tra i 4 giovani. Nella loro ricerca del senso della vita fanno cadere giudizi e pregiudizi.

Che cosa rappresenta l’estate?
Una stagione dell’anima, più breve rispetto a tutte le altre, con un orizzonte definito. E’ il tempo delle esplorazioni complete perché dopo verranno le scelte e le responsabilità che ci inghiottiranno.

Dopo le esperienze americane è tornato alle origini italiane?
Non so se è un ritorno temporaneo o no a casa, a Itaca, dopo le avventure acrobatiche delle mia carriera, raccontando in una lingua diversissima. Di sicuro avevo voglia di parlare con semplicità e leggerezza di quei passaggi fondamentali della vita.

L’estate addosso 
lo possiamo ritenere un film leggero?

Spudoratamente leggero perché gli stessi protagonisti vogliono sentirsi leggeri, hanno paura delle responsabilità.

Quanto c’è di autobiografico nel suo film?
C’è tutto, perché quello che scrivo investe la mia esperienza passata e presente. Alcuni fatti narrati sono accaduti, anche i personaggi si richiamano a persone reali. Inoltre ho utilizzato la cultura e le differenze dei quattro interpreti per costruire la loro amicizia così autentica ma anche passeggera.

Come nasce la collaborazione di Jovanotti?
Siamo amici da anni e abbiamo lavorato insieme in alcuni videoclip. A questo film ci pensavo da anni e quando gliene parlai, citando il titolo, subito Lorenzo ha scritto l’omonima canzone che è diventata una hit prima del film. Successivamente ha composto le musiche  del film.

Da più di un decennio lei vive negli USA e nei suoi film ci mostra un paese delle opportunità.
Gli Stati Uniti sono un paese che non accetta il fallimento. Lo ha dimostrato  ai tempi dell’attacco giapponese a Pearl Harbor o nella crisi economica del 2008. Il colpo di reni, la speranza di un futuro contraddistinguono una nazione, fatta di tante Americhe, reattiva di fronte alle difficoltà. L’ottimismo è parte del suo DNA.
 

 
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Tomorrowland

Post n°13352 pubblicato il 01 Settembre 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Tomorrowland

Figlia di un ingegnere aerospaziale, Casey Newton sogna un futuro di speranza e di avventura. Dopo l'ennesimo blitz nella fabbrica del padre per impedire che venga dismessa, Casey finisce in gattabuia: tra gli effetti personali trova una spilla misteriosa che, al solo tocco, la trasporta in un mondo collocato in uno spaziotempo imprecisato, Tomorrowland.
Il perfetto antidoto al prevalere della fantascienza da futuro distopico. Un'occasione che la Disney non poteva farsi sfuggire: instillare un po' del suo incrollabile ottimismo in un'epoca in cui lo spazio, l'esplorazione e i sogni in generale sembrano abbandonati come oggetti da museo. 
Dopo i flop terrificanti di The Lone Ranger e John Carter, però, a Burbank la preoccupazione era tanta; abbastanza per mettere al sicuro la regia di un nuovo film nelle mani di Brad Bird e del suo curriculum inattaccabile. Che in Tomorrowlandtrova il perfetto compimento: la nostalgia di Il gigante di ferro si mescola al supereroismo per famiglie di Gli incredibili, l'impresa impossibile di Ratatouille all'estro a rischio di caos narrativo di Mission: Impossible - Protocollo fantasma. Una forza vitale trascinante la sua, guidata da un ottimismo e da una volontà di materializzare i sogni pari a quella della protagonista Casey Newton: solo così trovano una giustificazione i clamorosi sbalzi narrativi - una sceneggiatura ingarbugliata e disomogenea, vittima della sindrome da colpo di scena di Damon Lindelof (Lost) - e il temerario gettarsi a testa bassa nel regno dell'improbabile, con lo spirito di F.B.I. - Operazione Gatto e i mezzi tecnici del blockbuster contemporaneo. Non senza qualche asperità inedita per un film Disney: diverse le uccisioni, benché senza una goccia di sangue, e poco comprensibili le spiegazioni pseudo-scientifiche, specie per un target di ragazzini. Ma sono dettagli minimi, a margine di un'opera che ha altri intenti.
Ancora una volta è il regno del retronuevo, del futuro remoto immaginato da un passato prossimo, che pensa a Tomorrowland come alla città del Mago di Oz, piena di cose che volano. O alla Tour Eiffel che si apre per lasciar posto a un razzo steampunk, in una sequenza tra le migliori del film, che rimanda alla magia di quella Parigi fin de siècle in cui era possibile materializzare i sogni, fino al punto di tradurli in cinematografia. Nel neo-positivismo delTomorrowland di Bird o dell'Interstellar di Nolan, a cui giustamente il film è stato accostato, è possibile riscontrare la prima forma di risposta alla rassegnazione imperante degli anni Dieci. Il futuro è (ancora) un luogo tutto da costruire, per un'umanità che sappia rimanere arbitra del proprio destino.

 
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La caduta degli dei

Post n°13351 pubblicato il 01 Settembre 2016 da Ladridicinema
 

LA CADUTA DEGLI DEI (The Damned) - Luchino Visconti (Trama, commenti e video)


LA CADUTA DEGLI DEI

Film di Luchino Visconti

INTERPRETI - Albrecht Schönhals, Dirk Bogarde, Helmut Berger, Helmut Griem, Renauld Verlay, Ingrid Thulin, Charlotte Rampling, Florinda Bolkan, Umberto Orsini, René Koldehoff, Nora Ricci
SCENEGGIATURA - Nicola Badalucco, Enrico Medioli, Luchino Visconti
MUSICHE - Maurice Jarre
FOTOGRAFIA - Armando Nannuzzi
DISTRIBUZIONE - Medusa
GENERE - Drammatico, Guerra
Anno di produzione - 1969
Durata - 154 minuti
  
TRAMA
28 Febbraio 1933. Il vecchio industriale Joachim von Essenbech (Albrecht Schönhals), durante una riunione di famiglia, nomina alla vicepresidenza delle acciaierie l'ufficiale delle SA Konstantin (René Koldehoff), allo scopo di compiacere il partito nazista. Indignato, il liberale Herbert (Umberto Orsinì) dà le dimissioni e si rifugia all'estero. Durante la notte, Joachim viene assassinato e la responsabilità del delitto a addossata ad Herbert. Il nipote di Joachim, Martin (Helmut Berger), eredita la maggioranza delle azioni; ma, succube della madre Sofìa (Ingrid Thulin), nomina alla presidenza l'amante di lei, Friederich (Dirk Bogarde). Essi sono i veri autori del delitto, compiuto su istigazione dell'ufficiale, delle 5S, Aschenhach (Helmut Griem). Più tardi, in seguito al suicidio di una bambina ebrea sedotta da Martin, Konstantin riesce a ricattarlo, per assicurarsi la presidenza. Ma Friederich lo uccide, durante la strage delle SA del 30 giugno 1934. Tutto il potere passa così nelle mani di Friederich e Sofìa, che eliminano anche la moglie di Herbert e fanno internare le sue bambine, per costringerlo a costituirsi. Preoccupato dalla loro eccessiva ambizione, Aschenhach trasferisce il suo appoggio a Martin. Questi, pervaso dall'odio e dal desiderio dì rivalsa, stupra la madre e, dopo aver acconsentito al suo matrimonio con Friederich, li costringe entrambi al suicidio.
In armonia con gli altiforni che fanno da sfondo e con l'inferno nazista che si prepara, la caduta degli dei di Visconti è raccontata come una colata incandescente: passa attraverso ogni forma di fiamma. Dall'incendio (il Reichstag: 27 febbraio 1933) al rogo (la prima Bücherverbrennung, o falò dei libri proibiti, organizzata da Goebbels tramite le leghe studentesche: 11 maggio 1933; ventimila volumi inceneriti allo scoccar della mezzanotte) al fuoco dei mitra (la strage di Bad Wiessee, 29 giugno 1934). Le fiamme distruggono, ma anche saldano. Distruggono gli esitanti, i patteggiatori, i vecchi privilegiati dell'aristocrazia sospetta. Saldano le nuove alleanze, le comunità di sangue, le connivenze segrete. Che differenza fa? Come quelli di prima, gli dei caduti continuano a fabbricare cannoni.
Nel film di Luchino Visconti, la dinastia di cui è tracciata la storia si chiama Essenbech, un nome fittizio che ne cela uno ben più famoso. Per amor di diplomazia il regista e i suoi collaboratori hanno negato, durante le riprese, d'aver voluto raccontare la storia dei Krupp. Ma è a Essen che sono andati a cercare gli esterni del film, e nelle acciaierie di Essen sono stati respinti con ostilità aperta. L'una e l'altra circostanza (e anche il dilagare dell'ostilità, poi, verso i cineasti italiani in tutte le località bavaresi in cui s'erano trasferiti, e in Austria) portano la stessa motivazione, il nome sempre potente dei Krupp.
Mentre l'imbianchino si preparava al potere compiacendosi di riflessi da Walhalla, gli aristocratici al potere si accingevano alla capitolazione o al trasformismo in un'aria di gelido straniamento. II film si apre e si chiude su due sequenze di famiglia, entrambe a conclusione mortale, ma del tutto esangui e proprio perciò spettrali: la festa per nonno Joachim e le nozze di Sophia con Friedrich. Non sembrano il teatro di due delitti nazisti, eppure sono già questo: due delitti nazisti: gli "dei" della Germania degli anni trenta non avevano aspettato Hitler per dilaniarsi l'un l'altro. Solo che l'annuncio di Hitler... "Da oggi ha fine la morale comune", fornisce loro nuove coperture, meno eleganti certo, ma di più lunga durata. Gli Essenbech si adeguano ben presto al nuovo corso, ne hanno la vocazione sotto l'ostentato disprezzo.
La soppressione del vecchio Joachim è ancora un crimine notturno, solitario, compiuto a mano tremante da uno che sarà poi a sua volta vittima designata. Alla fine, Sophia e Friedrich eliminati col cianuro periscono non ad opera di un sicario, ma del superstite trionfante, fra i segni del Partito, fra i drappi e le croci uncinate, in pieno giorno, nel livido delle nordiche adunate, nei lunghi rituali dettati dall'impunità assoluta. La tragedia sta diventando organizzazione. Perché i nazisti hanno inteso l'utilità di volgere gli odi di blasone e di generazione o di eredità e di sesso, di vizio e di privacy, nel grande odio di Stato, dove tutti sono assolti perché tutti sono colpevoli. Gli Essenbech si sono trucidati fra loro, ma chi resta è doppiamente forte. Martin, l'erede, degenerato sessuale, stupratore, incestuoso, istigatore di morti spaventose, dunque non sarà solo un fabbricante d'armi: eletto «"maestro d'odio", sarà un'arma a sua volta, più temibile di cento cannoni.
"Trasformare l'istinto collettivo di noi tedeschi in complicità: ecco il vero miracolo del Terzo Reich" dice soddisfatto l'anima nera della famiglia, il cugino SS, autentico Jago della vicenda.
La storiografia sugli inizi del nazifascismo, ormai ben folta di testi autorevoli, ci avverte che la transizione dei Krupp (scusatemi, Essenbech) dal feudo al regime si è effettuata con minor squasso di quanto il film di Visconti ami indicare. L'opposizione era più che altro questione di stile. Già prima dell'incendio del Reichstag, Gustav von Bohlen, il Vecchio (lo Joachim del film), il marito della "grossa Bertha" che aveva dato il nome al cannone del 1918 che sparava su Parigi dalla distanza di 76 miglia, s'era incontrato con Göring a capo di una delegazione di trenta industriali per assicurare completo appoggio morale e materiale al partito nazionalsocialista. Se mai, i dissensi si produssero subito dopo per un gioco di fazioni interne: i mercanti di cannoni esitavano a trattare le commesse con le forze del partito direttamente, cioè con le Sturm-Abteilungen di Röhm, costituenti la ala sinistra del nazismo, preferendo mantenere i rapporti con la Wehrmacht, cioè con l'esercito regolare. Un gioco politico trasparente, del tutto formale, ma accorto. Un modo di rispettare la "tradizione" ma nello stesso tempo (poiché gran parte dello stato maggiore, altri "dei" teutonici. gli junker milionari e latifondisti, erano già praticamente "caduti" anch'essi davanti a Hitler) di scegliersi gli alleati che fornivano maggiori garanzie di potenza. Infatti, nel contrasto che così si delineava, Hitler scelse come i Krupp: e, con il tacito appoggio di finanzieri e generali, decretò la fine delle S.A. nella famosa "notte dei lunghi coltelli".
"Affileremo i nostri lunghi coltelli - sull'orlo del marciapiede... "... cantavano le camicie brune di Röhm nelle loro parate. Lo cantarono per l'ultima volta nel convegno di Bad Wiessee, un convegno che, tutto patria e bandiera di giorno, divenne orgia barbarica la notte, nelle birrerie del villaggio. Fiumi di birra, poche donne e moltissimi invertiti. Le Stoss-Truppen inviate da Hitler arrivarono contemporaneamente dal monte e dal lago, su camion e zatteroni. Uccisero Röhm e settemila dei suoi ancora nudi e allacciati nei loro amori. Il film immagina che anche un Essenbech, il più triviale, muoia in quella purga, e che un altro della famiglia, colui che deve carpirgli il potere in fabbrica, accompagni la spedizione punitiva. Ciò è molto suggestivo drammaticamente ma appare un errore storico e anche psicologico.
L'alta industria era determinante proprio perché aveva accettato di rendersi invisibile; in ciò stava soprattutto la sua complicità e la sua nuova potenza. Con lo scotto dell'abdicazione politica, aveva mantenuto i1 suo rango e nelle altre attività poteva condursi esattamente come prima. Sia detto di passaggio, se consideriamo questo rapporto come il più adattabile, ne esce alquanto indebolito anche l'espediente narrativo immaginato dal film con il ricatto dei nazisti a Martin Essenbech accusato d'aver violentato e spinto a morte una bambina ebrea. L'episodio è altamente viscontiano e dà luogo a una sequenza assai pregevole, quasi un film in un film però diverso: diverso e diversamente motivato, ripetiamo. Per amor di personaggi, Visconti concentra in Martin le qualità più aberranti del suo ceppo familiare. La verità ammonisce che nella famiglia tedesca coperta nel film da pseudonimo, le aberrazioni erano ripartite disinvoltamente e per così dire generazionalmente, senza che questo scandalo andasse a loro detrimento tanto sotto il nazismo che prima del nazismo. Nelle dimore di Kiel e nelle ville di Capri, le imbandigioni omosessuali di quei signori erano all'ordine del giorno, oggetto di celia per il popolo e di discreta vigilanza per la polizia.
Il fatto è un altro. Così come oggi definire Hitler e le SS dei "mostri" non può costituire un giudizio storico sul fenomeno nazista, anche una rappresentazione dei Krupp-Essenbech in chiave di mostruosità può diventare, com'è qui in Visconti, occasione di robusto spettacolo, non di valutazione politica, o ideologica o sociale. Le Furie o i Demoni (due delle ispirazioni costanti del regista, attraverso la tragedia greca e Dostoevskij) non soccorrono fino alla fine. Si possono sublimare i momenti terribili della storia, naturalmente; è prerogativa dell'artista di forzarne le circostanze fino al simbolo, ossia di ampliarne i significati. Ma se non sono selezionati con estrema cura i mezzi per questo ampliamento, esso è solo apparente e le metafore personali prendono il posto dell'allegoria. Allora ecco che il sovrumano astratto si sostituisce all'inumano concreto, in una situazione precisa che ha coinvolto l'umanità. La resa degli dei al caporale è una fatale simbiosi di decomposizioni, che salta tutte le fasi intermedie. Però in queste fasi intermedie c'è gran parte della Germania; mi sembra una ellissi molto pericolosa per almeno due ragioni. In primo luogo, così impostando le cose, si finisce per avvicinarsi (sia pure su un piano cinematografico molto più serio, s'intende) alla mentalità caratteristica di tanto cinema tedesco del dopoguerra, che presentava in Hitler l'unico responsabile d'ogni male e nelle SS (tutt'altra cosa dalla tik7ehrmacht) i suoi bene individuati aguzzini. Quei film erano tendenziosi e La caduta degli dei certo non lo è; l'antifascismo di Visconti rimane, non occorrerebbe dirlo, fuori causa. Si tratta tuttavia, dicevamo, di un impiego improprio degli strumenti ispiratori, rigorosi solo a livello estetico, meno a livello politico-civile. Non riesco a evitar di pensare che, a dispetto del suo proverbiale impegno d'uomo di cultura (e diciamo di cultura "storica"), questa volta il regista abbia scelto la strada più comoda, cedendo al temperamento. E qui sia stato più o meno apertamente incoraggiato da altre situazioni esterne, riguardanti produzione del film, clausole di distribuzione (americana), ulteriori opzioni tecnico-artistiche come la scelta degli attori ecc.
Tornerò più avanti sull'argomento.
   

    
Genesi e sviluppo del nazismo
In secondo luogo l'equivoco è dato a mio avviso dal fatto che la tesi del film così costruito, su basi classicamente tragiche, non può non condurre ad una 'catastrofe' che possiede, come appunto nella tragedia, o se vogliamo nei melodramma, la caratteristica inalterabile della definitività. Con i personaggi finiti finisce la storia, e il giudizio che se ne è dato si codifica per sempre, entra cioè nel passato. Senza dubbio; noi vediamo nel film l'inizio del nazismo, l'inizio della potenza di Hitler; però, sintetizzato nei termini che ci sono offerti, sappiamo che poi quel nazismo è stato sconfitto. Poiché il nazismo è raffigurato nel mostro-Hitler, e Hitler è morto, il nazismo più non esiste. Poiché il capitale che lo ha sostenuto è raffigurato negli Essenbech, e gli Essenbech si sono scannati fra loro e l'ultimo è diventato una SS di Hitler, gli Essenbech più non esistono; Visconti abbassa il sipario. Ma è vero, che il sipario si possa abbassare? Quegli avvenimenti sono davvero finiti nel 1945, o sono proseguiti invece sotto diverse e rinnovate mascherature in Germania e fuori, fino a oggi; e sono potuti proseguire proprio perché gli eventi, le persone, i fatti del nazismo non erano (o non erano soltanto) come il film li riassume, li tragicizza, li denuncia?
Ho letto vivaci consensi all'attualità del film di Visconti; personalmente non l'ho trovata, all'interno del film (e forse sarebbe stato molto più illuminante al riguardo un film su come è nato il film: con le alleanze e le inimicizie tra i finanziatori, i contributi di sceneggiatura, i1 contegno dei tedeschi d'oggi davanti alla troupe, l'entusiasmo delle giovani comparse che non avrebbero più smesso le divise SS riesumate per l'occasione, e che continuavano a cantare tutta la notte, ben dopo la fine delle riprese, l'Horst Wessel Lied e altri inni nazisti). Alla Caduta degli dei fa difetto una genuina forza di attualizzazione. Possiamo riscontrarla nel nostro epidermico risentimento davanti ai vessilli e alle uniformi del film, o possiamo intuirla rimeditando l'opera di Visconti nella sua interezza, ma questo è tutto. Mancano i dati dialettici e realistici, rifiutati dall'apparato espressionistico-mortuario e dalla sommarietà (vistosa sommarietà, il che non giova) delle citazioni di storia.
  
    
Tre secoli di storia degli uomini dell'acciaio
Gli uomini dell'acciaio che il film illustra hanno tre secoli di potere dietro di loro. Sono stati la famiglia più ricca della Germania e per tre volte in meno di cento anni hanno dato alla Germania il più poderoso armamento d'Europa. Sotto il nazismo, ai loro operai si sono aggiunti come schiavi i detenuti di 138 campi di concentramento, in gran parte poi morti di stenti. Ai processi di Norimberga Alfred Krupp (incriminato al posto del padre Gustav, che sfuggì al carcere "perché vecchio e malato") è stato condannato a 12 anni, e alla liquidazione delle sue industrie pesanti. Dopo soli due anni e mezzo il commissario americano McCloy lo rimetteva in libertà; la seconda pena non ha mai avuto corso. Con un abile gioco di vertice e creando nuovi cartelli, gli "dei caduti" si rimettevano al lavoro e potevano far proprio il motto di altri Gattopardi: bisogna che tutto cambi, se si vuole che tutto resti come prima.
  
Helmut Berger
    
Pregi e limiti del film di Visconti
Siamo sicuri che tutto ciò s'intenda nel film? Naturalmente non si pretende che Visconti girasse un altro film, al posto del suo. Non è la saga secolare che mi interessa, bensì la visibilità, il peso vivo di quei due secoli d'acciaio per il potere. Sappiamo la replica, perché Visconti ha messo le mani avanti. Non volevo fare un film storico, ha dichiarato. E benché la premessa - venendo da Visconti, che non è Fellini - mi avesse meravigliato un poco, sarebbe stata sufficiente a dare una diversa piega a questo commento, se il regista non avesse aggiunto un'altra precisazione, "volevo che i giovani conoscessero la verità sul nazismo", che forse non è perfettamente in accordo con la prima perché non può prescindere da una dimensione eminentemente storicistica. Mi sembra che i1 duplice proposito, venendo ad urto con se stesso, non abbia aperto a Visconti nuove possibilità rinnovatrici che forse erano nei suoi intenti, bensì abbia pregiudicato negativamente una delle peculiaretà positive più interessanti di tutta la sua opera, quella che Renzo Renzi chiamava la "scissione morfologica tra personaggio e ambiente...: nel personaggio l'autore con la sua crisi, nell'ambiente l'autore col suo giudizio". Già Ossessione, ma soprattutto Senso, Rocco e i suoi ,fratelli, Il gattopardo facevano di tale scissione la loro più recondita e affascinante coerenza. Questa volta il risultato è meno netto. Il giudizio, demandato ripetute volte dall'ambiente ai personaggi, si accademizza, si aliena. La crisi cerca supporti esteriori nelle forme del film, non nei suoi significati precisi. Il che fa apparire tutto molto lontano. Lontani i fatti del film, e sappiamo che non lo sono.
O lontano Visconti da noi, e non vorremmo che fosse.
A lontananza d'America, per esempio? Mi rattristerebbe, ma il dubbio è lecito. Questa prima grossa combinazione internazionale di Visconti - con anteprima alle Bahamas su organizzazione Warner Bros - forse non ha condizionato direttamente il grande regista ma lo ha indotto a premere un poco sul pedale dell'americanismo, una componente ch'egli si porta appresso da Ossessione ma che è riuscito fin qui a disciplinare e addirittura a sfruttare magistralmente. La caduta degli dei è un film che potrebbero avere fatto Elia Kazan o Fred Zinnemann in una giornata felice. E' una leggenda sul nazismo sedimentata dal tempo, un thriller suggestivo, una grande pagina sui gangsters d'Europa, le gesta di una famiglia fosca e dannata (The Damned è il titolo del film sui mercati di lingua inglese). Si guardi quell'Aschenbach delle SS, che sogghigna e pilucca l'uva come i nazisti dei film hollywoodiani di propaganda del '43. Sono contributi, sono reminiscenze, sono diversivi, in un film in cui, verdianamente, "stride la vampa" delle passioni ma tarda a diffondersi la chiara acuta luce d'una vissuta realtà.
    

 
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Terminator - Genesys

Post n°13350 pubblicato il 01 Settembre 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Terminator Genisys

2029. John Connor è a un passo dal guidare la resistenza umana alla vittoria definitiva sulle macchine, quando Skynet invia all'ultimo minuto un cyborg nel 1984 per uccidere sua madre, Sarah. John manda allora il suo braccio destro Kyle Reeves indietro nel tempo per proteggerla. Qui, Kyle trova Sarah in compagnia di un identico Terminator, riprogrammato, che le fa da guardiano dall'età di nove anni. Viaggiando nel tempo, Kyle rievoca anche strani ricordi, mai avuti prima, risalenti al 2017. Convince perciò Sarah a recarsi con lui in quell'anno per impedire la messa on line di Genisys, l'App dietro la quale si nasconde la stessa Skynet. 
C'è qualcosa di circolare e forse vizioso nel modo in cui ogni neonato film della saga si propone in realtà come la sua versione definitiva: a partire dal secondo, firmato ancora James Cameron, per arrivare a questo quinto, tutti indossano il motto per cui il futuro non è scritto, eppure ognuno ci tiene testardamente ad avere l'ultima parola. 
L'incursione più recente, Terminator Salvation, tentava - comunque lo si giudichi- la carta di lasciarsi alle spalle i viaggi nel tempo e trovava il suo presente filmico nel futuro e nella guerra uomo-macchina. L'eclettico Alan Taylor, invece, si affida alla penna di Patrick Lussier, il quale, infilata la parrucca da scienziato pazzo, mescola le carte come non mai. Al centro diTerminator Genisys c'è infatti proprio la sfera uterina che consente i trasporti temporali e che il tenente Reese frequenta, con malizia e senso della missione, con la stessa relativa facilità con cui Marty McFly guadagnava il sedile della sua DeLorean. Affianca questo movimento "reale" un twist narrativo maggiore, ampiamente anticipato in sede più o meno autorizzata di promozione, per cui l'eroe si macchia del crimine peggiore: John Connor perde la sua umanità e si manifesta come l'agente Smith di Matrix, replicante ubiquo e inarrestabile, nemesi perfetta dell'eletto. Qui però la scrittura comincia ad imbarcare acqua: si può gradire o meno la trovata, ma la stessa dovrebbe garantire un funzionamento interno, che invece fa cilecca. Troppo impegnata sentimentalmente come "figlia" di Paps, il T-800 che l'ha salvata, cresciuta e attesa con pazienza (invecchiando senza divenire obsoleto), Sarah Connor non trova proprio il tempo per intenerirsi di fronte ad un figlio cresciuto e luciferino. Lussier delega allora il dissidio interiore al personaggio di Kyle, amico fraterno di John, che va però in confusione quando apprende tutta la verità, in un parcheggio sotterraneo senza poesia alcuna, e qui si sfiora davvero la parodia. 
La regia non salva certo il film dai garbugli e dalle scarse finezze del copione: non c'è un'idea visiva e l'unica sequenza che cattura l'occhio umano è ancora quella del 1984, col nudo mapplethorpiano di Schwarzenegger. 
Se mai è proprio l'attore, in fin dei conti, l'unico a fornire una chiave di rilancio: decisamente più loquace del solito, giovane nei tormentoni e nonno nel fisico, vira l'imbarcazione senza vento verso la commedia, fa il simpatico terzo incomodo tra figlioccia e futuro genero, sorride a denti stretti, un po' per inerzia e un po' per ironia, cooptandoci, in fondo, a fare lo stesso.

 
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Film nelle sale da oggi

 

Tutti a Casa di Luigi Comencini restaurato nella pre-apertura veneziana da cameralook

Post n°13348 pubblicato il 01 Settembre 2016 da Ladridicinema
 

Tutti a Casa 1

Tutti a Casa è un film “on the road” lungo l’Italia disastrata e confusa di quel periodo, quando i soldati non ebbero più ordini e ciascuno decise di tornare al suo paese: tutti a casa, appunto. Nella vicenda, il sottotenente Alberto Innocenzi (Alberto Sordi), abituato a obbedire e a non contraddire, viene abbandonato dai suoi soldati e si mette in fuga dal nord al sud con l’amico ulceroso, il geniere Ceccarelli di Napoli (Serge Reggiani).

Incontra i tedeschi desiderosi di rappresaglie che gli sparano addosso, vede l’odissea di una ragazza ebrea in fuga (ci rimette la pelle un giovane soldato veneto), conosce un prigioniero americano nascosto in soffitta, si ricongiunge col padre (Eduardo De Filippo), che vorrebbe rimandarlo nelle file fasciste, fino al riscatto finale durante le 4 giornate di Napoli. Comencini dichiarò all’epoca: “L’8 settembre la gente fu abbandonata a se stessa, ed era questo che volevo descrivere“.

Tutti a Casa 2

Il film fu premiato da un grande successo popolare, con oltre un miliardo di lire al box office.Tutti a Casa di Luigi Comencini è uno tra i più celebri e riusciti esempi di ciò che ha reso immortalela commedia all’italiana: l’impasto di comico e drammatico, di vero e grottesco, di coraggio e voglia di sopravvivere.

Comencini, con la complicità autobiografica dei due grandi sceneggiatori Age e Scarpelli e con le amare risate provocate da un grandissimo Alberto Sordi, racconta tutto il caos dell’8 settembre 1943, quando con l’armistizio di Badoglio i soldati del re e del duce furono abbandonati a se stessi, tra mille paure. Nel film Alberto Sordi, al telefono sotto il tiro dei tedeschi, chiede ai superiori: “Signor colonnello, sono il tenente Innocenzi, è successa una cosa straordinaria, i tedeschi si sono alleati con gli americani. Cosa dobbiamo fare?”.

Tutti a Casa 3

Il restauro viene presentato in prima mondiale ed è stato realizzato in 4K a partire dai negativi originali messi a disposizione da Filmauro. Le lavorazioni in digitale sono state eseguite presso il laboratorio Cinecittà Digital Factory, Roma. Il ritorno in pellicola 35 mm è stato realizzato presso il laboratorio Augustus Color, Roma.

 
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Suicide Squad

Post n°13347 pubblicato il 01 Settembre 2016 da Ladridicinema
 

Quelli che si potrebbero definire “cosplayer da trailer” sanciscono definitivamente la separazione dei cinecomic dal mondo dei fumetti, e al tempo stesso legittimano l’affermarsi di un’industria dalla vocazione fortemente intermediale in cui i fumetti risultano nettamente marginalizzati.

Come ben riassunto da Andrea Fiamma, questa versione supercriminale di Una sporca dozzina non ha infatti alle spalle una storia e un successo tali che ne giustifichi l’adattamento cinematografico. Non che non si sia già assistito a fenomeni del genere (ricordo in particolare la folla di figuranti alla prima bolognese de Il signore degli Anelli), ma se Harley Quinn ha una propria forza iconica che solo marginalmente dipende dalle sue precedenti incarnazioni fumettistiche, il Joker gangsta di Jared Leto esiste nell’immaginario collettivo solo da pochi mesi, grazie alle immagini rilasciate dalla casa di produzione sotto forma di foto e trailer.

Fenomeno Harley Quinn

La presenza di cosplay modellati sulle fattezze di personaggi di un film ancora non distribuito dimostra da una parte la debolezza, commerciale e immaginifica, del modello fumettistico alla base dell’opera – un modello utilizzato come mero pretesto e che anche il pubblico più appassionato difficilmente conosce – e dall’altra la forza di persuasività della fan base che decide con quali modelli identificarsi a prescindere dall’opera che li presenta.

Per rendersi conto del fenomeno basta fare una ricerca su DeviantArt, la più grande galleria online per artisti e aspiranti tali. Cercando il nome di Harley Quinn si ottengono circa 122.800 risultati fra disegni, reintrepretazioni erotiche, illustrazioni, fan art ecc… Un numero certo più che rispettabile se confrontato con quello che si ottiene ricercando nomi di certo più noti al grande pubblico e dalla storia editoriale ben più corposa come Batman (693.166), Superman (222.295) o il Joker (420.550).

trailer suicide squad

Harley Quinn è quindi un marchio che funziona, per come si inserisce nella e per come è stato liberamente riutilizzato al di fuori dell’ufficialità DC. La ragazza psicopatica dai capelli bicolore è capace di reinterpretare e riassumere un humus che comprende influenze post-punk, burlesque e goth (si vedano in particolare le gothic lolite giapponesi) e altri frammenti di immaginario appartenenti alle più recenti sottoculture giovanili.

Non è una caso che il pubblico presente all’anteprima, piuttosto freddo durante quasi tutta la proiezione, si sia espresso in applausi ed entusiastiche urla ogni volta che la supercriminale interpretata dall’ottima, bisogna dirlo, Margot Robbie (anche se la sua Harley ricorda vagamente la Joy Turner di My Name is Earl), appariva sullo schermo, per poi tornare silente subito dopo. E l’applauso era tutto per l’icona, non certamente per un personaggio cinematografico che al di là della buona prova dell’attrice risultava chiaramente, al pari degli altri, scritto frettolosamente e poco o per nulla caratterizzato.

Gli autori hanno subìto la pressione non troppo silenziosa della fan base in maniera pericolosamente passiva, assecondando questa pur legittima riappropriazione dal basso subordinandovi la scrittura dell’intero film. Il risultato è che un’opera che poteva trovare la propria forza in una equilibrata narrazione corale vive (o sopravvive) esclusivamente intorno a poche scene incentrate sui personaggi di maggior traino: la già citata Harley Quinn, Deadshot, che trova la sua ragion d’essere esclusivamente nell’interpretazione e nella notorietà di Will Smith (intento più che altro a recitare se stesso) e il Joker.

Il Joker di Jared Leto

Per quest’ultimo personaggio va fatto un discorso diverso. Il Joker, caratterizzato da un Jared Leto che fa le facce invece di recitare, è sicuramente il personaggio su cui i produttori avevano puntato maggiormente durante la promozione del film. Si diceva che l’attore non fosse mai uscito dal personaggio durante tutto il periodo delle riprese, che avesse studiato testi sciamanici per prepararsi all’impresa, Will Smith dichiarò che non aveva mai conosciuto davvero Leto durante tutto il corso della lavorazione ecc…

joker leto

Al di là di queste premesse dal sapore comprensibilmente propagandistico, la caratterizzazione di Jared Leto non regge minimamente il confronto con le prove d’attore che lo hanno preceduto. Il cosplay che sfogliava foto di gattini con la giacca viola e i capelli verdi era decisamente più disturbante.

Resta il fatto che il personaggio interpretato da Leto in questo film non c’è. Non in maniera sensibile, per lo meno. Nonostante fosse evidentemente molto atteso – si vedano i già citati cosplayer da trailer ma anche le infinite discussioni sui social network relative alla scelta dell’attore – il Joker compare forse una quindicina di minuti su un totale di 123 e certamente non nel corso di scene memorabili. Non che ci siano scene memorabili in Suicide Squad, del resto.

Suicide Squad è brutto come si è detto in giro?

L’uscita agostana dovrebbe suggerire la risposta ma per non incorrere in equivoci diremo subito che sì, è davvero tanto brutto.

Già subito dopo i titoli di testa è chiaro che l’intenzione degli autori è quella di voler ammiccare a quanti più ambiti possibili, alla ricerca di un pubblico ampio e variegato. Il passo da una narrazione con velleità multimediali alla confusione è breve. La trama è presto riassunta. Dopo la morte di Superman il governo degli Stati Uniti decide, su pressione dell’agente governativo Amanda Waller, di formare una squadra di supercriminali per contrastare una possibile minaccia metaumana. I componenti prescelti per formare la squadra suicida vengono presentati con uno stile che ricorda molti videogiochi recenti, con tanto di scheda atta a riassumere le loro abilità e il loro background criminale e personale. Viene istintivo cercare un joypad tra i braccioli della poltrona per selezionare il proprio preferito e condurlo in prima persona attraverso le peripezie che lo attendono.

Dopo questa lunghissima presentazione – che per i personaggi-traino Deadshot e Harley Quinn viene ripetuta ben due volte – ci si aspetterebbe che il film finalmente ingrani. La macchina narrativa, invece, si ingolfa quasi subito tra false partenze, ritorni, flashback e presentazioni reiterate, senza che nessuno di questi passaggi serva a caratterizzare la squadra come gruppo e i protagonisti come personaggi. Si passa con nonchalance, per non dire trascuratezza, da un’estetica concitata da videoclip – ma c’è differenza fra concitazione e confusione, fra ritmo e affastellamento – a scene di reclutamento militare che sfruttano tutti i peggiori stereotipi del genere; da scopiazzature mal riuscite, soprattutto nei dialoghi, dei film di Tarantino, alle sequenze finali che precipitano lo spettatore nella conclusione di Ghostbuster, con tanto di torre infestata da presenza demoniaca.

suicide squad ayer

Nelle intenzioni del regista questi continui cambiamenti di ritmo e di stile dovrebbero creare un effetto cool, da cardiopalma, ma il risultato è più quello di un motore che perde i colpi, che non sale mai realmente di giri, con le marce che grattano. E non che la carrozzeria sia poi così bella. Le scene d’azione sono davvero poco coinvolgenti, fin troppo infantili e “pulite”, come se il loro unico scopo sia stato ricevere il rating PG-13, che vieta la visione ai minori di 13 anni non accompagnati. No, niente sangue da queste parti, per chi se lo stesse chiedendo.

Problemi di sceneggiautura

Al di là dei pudichi orgasmi visivi che Ayer cerca di vendere come orge sibaritiche senza riuscirci, il problema principale del film risiede principalmente nella fase di scrittura. In estrema sintesi nessuno dei personaggi presenti sullo schermo è ben caratterizzato, con la parziale esclusione di Harley Quinn e Viola Davis, e la storia semplicemente non sta in piedi.

Probabilmente ci si è trovati ad un bivio in fase di sceneggiatura: procedere lungo una strada che avrebbe portato a un serioso action movie di supereroi o lavorare a briglia sciolta e condurre alle estreme conseguenze lo spunto iniziale: un gruppo di assassini letali parzialmente o del tutto fuori di testa costretti a lavorare insieme per il conto del governo, il tutto all’interno di una cornice estetica pop-psichedelica da Batman di Adam West. Purtroppo si è preferita una via di mezzo.

Come film d’azione Suicide Squad non funziona. I personaggi precipitano continuamente lo spettatore in una nauseante sensazione di déjà-vu. Non recitano battute ma leggono etichette. Sono tutti, dal primo all’ultimo, tremendamente monodimensionali. Difetti perdonabili nel contesto di un action movie serrato e dalla trama di ferro, cosa che però Suicide Squad non è.

Le incongruenze, spesso enormi, azzoppano in continuazione la trama, tanto da far sospettare che più di un guaio sia stato combinato in fase di montaggio, il che giustificherebbe anche l’andamento generalmente schizofrenico della pellicola. Addirittura un personaggio, in quella che può essere con qualche difficoltà definita la scena centrale di un film senza né centro né atti, si riferisce ad avvenimenti mai accaduti.

Inoltre, la svolta fantasy alla Ghostbusters sfugge completamente al controllo di Ayer, che decide di risolvere la minaccia sovrannaturale con un’improponibile e impensabile prova muscolare dei protagonisti. Del resto cosa si può esigere da chi pretende che sembri credibile, senza nessun tipo di preparazione in fase di scrittura, che una squadra composta da una svitata con un martello gigante, un cecchino (per quanto eccezionale), un ladro australiano, un pirocinetico con forti complessi di colpa e un uomo rettile riesca ad avere la meglio su due divinità ancestrali dai poteri virtualmente illimitati? D’altronde operazioni di questo tipo riescono a pochi. Si pensi al già citato Ghostbusters e, per fare un esempio fumettistico, a come Grant Morrison ha condotto la propria gestione della JLA, in delicato equilibrio fra congiure ingarbugliate, minacce cosmiche, echi dalla DC della Golden Age e sottotrame da sitcom. Equilibrio che al film di Ayer manca del tutto.

La strada della più sfrenata e goliardica follia – percorso seguito, seppur con qualche limite, nell’ottimoDeadpool – sarebbe stata sicuramente la più adatta al gruppo di personaggi scelto. Suicide Squad ha tutto l’aspetto di un film sopra le righe senza esserlo. Ci sono i colori mattacchioni, i nemici improbabili e le armi cartoonesche, ma quello che manca è una vena di sana, sadica e disincantata irriverenza. La morale annacquata, abusata e narrativamente mortifera del film è che i cattivi – anche se si tratta di spietati pluriomocidi milionari senza rimorsi – non sono del tutto cattivi, specialmente se confrontati con i poteri forti, con i governi, quelli si capaci di inenarrabili atrocità.

Invece di lasciare i suoi ragazzi sfogarsi a briglia sciolta contro i nemici, Ayer non fa altro che sottosfruttare, e di molto, il loro potenziale per tutto il corso del film. Fornisce loro giustificazioni, rimorsi e persino una zuccherosa morale che li fa infine agire – senza alcuna operazione di scrittura che abbia preparato lo spettatore a questo ribaltamento – come un gruppo di eroi. Deadshot si strugge per la figlia quasi perduta, Harley Quinn pontifica sulla diversità dei freak, dimostrando più equilibrio di quanto si abbia voglia di sopportare mentre gli altri…beh, gli altri praticamente non esistono. Sono solo figurine messe sul fondo per fare numero. Non che sia un problema: Chato Santana, l’unico personaggio che si è cercato di dotare di un passato un minimo articolato e di una personalità per lo meno non monolitica, risulterà essere il più insopportabile e meno credibile della squadra.

L’epica mancata

Buchi di sceneggiatura grandi come un pugno, personalità inesistenti e contraddittorie, una trama totalmente illogica ma non abbastanza da essere folle e una costante sensazione – a dire il vero comune nei film di supereroi recenti, con l’esclusione dell’ottimo Guardiani della Galassia – da “film-girato-nel-tinello-di-casa”, un film incapace cioè di raggiungere una dimensione grandiosa attraverso lo sfruttamento drammatico delle scenografie e degli spazi: questo è quello che è Suicide Squad.

SUICIDE SQUAD

Se una incazzatissima divinità preumana distrugge una città insediandovi il proprio quartier generale e questa viene cinematograficamente ridotta, nella narrazione, a quattro piani e un paio di strade in croce, significa che c’è stato più di un problema. Da una parte c’è l’incapacità di creare un’epica attraverso un’operazione di worldbuilding, che è fulcro se non del cinema tutto almeno di un certo tipo di cinema, in particolare nella sua fase post analogica. Dall’altra, c’è l’approssimazione con cui il regista piazza macchina da presa, virtuale o non: è troppo preoccupato di non lasciare soli i propri mal creati personaggi e troppo poco di contestualizzarli all’interno degli ambienti in cui operano.

Il risultato è la mancata interazione tra mondo e personaggi. La sensazione di avvertire la presenza della troupe a bordo campo, specialmente nelle scarse e poco coinvolgenti scene d’azione, è davvero sempre troppo forte e nel caso di scenografie realizzate per lo più in CGI non riesce in nessun modo a trovare una giustificazione.

Ho visto una cosplayer piangere

Quando le luci si sono riaccese, dopo la poco intrigante e ormai imprescindibile scena di collegamento con gli altri film dell’universo cinematico DC, la Harley Quinn seduta vicino a me era in lacrime. Speravo che si trattasse di una giusta reazione alle due ore di supplizio subìto, ma mi sono accorto che le sue erano lacrime di commozione. Commozione originata dal riconoscimento. Lei desiderava essere Harley Quinn, si era immaginata come il proprio personaggio totemico doveva essere e Hollywood l’aveva accontentata. Forse non si era neanche accorta del resto del film, pronta com’era a stringere il braccio del suo compagno, a balzare in piedi e lanciare gridolini quando la sua eroina compariva sullo schermo.

Qualche anno fa un – modesto – film come Il favoloso mondo di Amélie aveva fornito un modello alle donne (e anche a molti uomini) senza che loro ancora sapessero che avrebbero finito per identificarvisi. Una scommessa vinta. Oggi molti film, così come Suicide Squad, non si preoccupano più di creare modelli nuovi capaci di rapire l’immaginario degli spettatori affamati di identificazione, ma li creano basandosi sulle aspettative che gli spettatori stessi hanno più e più volte esplicitato attraverso i nuovi – neanche tanto – strumenti a loro disposizione.

È grazie a cortocircuiti pavloviani del genere che film come questo potrebbero avere successo. E i primi risultati di Suicide Squad al botteghino statunitense supportano questi ipotesi. Non più la creazione di un immaginario, parzialmente derivativo ma capace di scommettere e creare un processo osmotico con il proprio pubblico, ma la progettazione di un brand in parte già predigerito e modellato sulle preferenze di un più o meno ristretto gruppo di fan. Non più il conoscersi attraverso l’opera ma un più semplice – e forse più sterile – riconoscersi. Ripetuto all’infinito per quei quindici o venti film che vengono annunciati e spesso passivamente vissuti come “il caso” dell’anno.

 
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